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Si può passare a questo punto ad esaminare alcuni aspetti della nozione di delitto politico, così come emergono dai decreti di amnistia nel periodo 1950-70.

Non è questa la sede per una ricostruzione sistematica della nozione di delitto politico, per la quale si rinvia agli studi esistenti (65). Qui è sufficiente rilevare che all'inizio degli anni '50 il delitto politico era, per definizione, quello di cui all'art. 8 cod. pen., nella sua variante oggettiva (i delitti contro la personalità dello stato eccetera) e soggettiva (reati comuni determinati da motivi politici). Ciò in quanto la Costituzione nulla aveva tolto o aggiunto ad esso in modo esplicito (66).

Ed infatti nell'indulto del '53 e nell'amnistia del '59 l'espressione «reato politico ai sensi dell'art. 8 codice penale» è prescelta dal legislatore per individuare l'ambito di applicazione del

beneficio. Una precisazione è comunque d'obbligo.

All'inizio degli anni '50 la questione dell'ampiezza della nozione di delitto politico effettivamente riconosciuta è tutt'uno con il problema dell'atteggiamento della magistratura verso gli ex

partigiani e la sinistra da una parte e gli ex fascisti ed i collaborazionisti dall'altra.

E' noto infatti come i giudici (al pari degli altri apparati dello stato) siano stati tutt'altro che equanimi, specie nel corso degli anni '50 (67).

Tanto che, mentre nell'interpretazione dell'amnistia concessa ai collaborazionisti e fascisti i giudici si mostrarono di larghezza sempre maggiore, con il passare del tempo, nei confronti degli appartenenti alle formazioni partigiane si manifestò un pesante «intendimento repressivo» attribuibile, secondo alcuni, ad una sorta di «segreta direttiva» (68).

Ciò incide naturalmente sulla ampiezza della nozione di delitto politico.

La giurisprudenza elabora, per esempio, la nozione di «pretesto politico», che ha un senso tecnico come tentativo di limitare l'eccessiva ampiezza della nozione di delitto politico, ma che in concreto viene utilizzata per non applicare ai partigiani alcune amnistie degli anni '40. Anche se va ricordato, giusto per dare l'idea della complessità del tema, che nell'amnistia «Togliatti» (D.P. 22/6/46, n. 4) a proposito dei collaborazionisti e fascisti viene usata la dizione «delitto politico»,

mentre nelle amnistie per gli antifascisti negli anni '40 vengono usate spesso espressioni diverse (69).

La questione è destinata a complicarsi ulteriormente alla fine degli anni '50 ed all'inizio dei '60, quando ad invocare la natura politica del reato commesso saranno i nazisti prigionieri in Italia. Ma di ciò parleremo più avanti.

Tornando all'esame dei provvedimenti di amnistia e di indulto nel periodo trattato in questo capitolo, va in primo luogo segnalato che l'indulto del '53 accoglie di fatto e complessivamente una nozione di reato politico ancora più ampia di quella data dal codice penale.

Essa comprende infatti, oltre ai reati definibili come politici secondo l'art. 8 cod. pen., anche quelli ad essi connessi nonché i reati inerenti a fatti bellici (70) commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate.

A questi vanno aggiunti i reati di qualsiasi specie, diversi dai precedenti, commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate e che sono oggetto dell'indulto (lett. b) in considerazione della qualità personale dell'autore. La politicità di questi ultimi reati è tra l'altro riconosciuta in modo diretto dalla legge del 18 dicembre (n. 921) sulla liberazione condizionale (71).

All'interno di un campo così ampio nel quale veniva riconosciuta la politicità (72), le principali questioni che si posero furono quelle sul modo in cui andava intesa la «connessione», che la Cassazione a sezioni unite ritenne dovesse essere solo oggettiva (73), quella sulla cumulabilità del condono del '53 ai precedenti e sul modo di effettuare il calcolo (74) e quella sul significato dell'espressione «formazioni armate».

Abbiamo già visto come il riferimento alle «formazioni armate», specie nella lettera b, definisca un tipo di politicità legata non alle caratteristiche del reato (come è nell'art. 8 cod. pen. anche nella sua variante soggettiva) ma alla qualità personale dell'autore.

Ne scaturiscono (lett. a e b) due gruppi di reati da considerare entrambi politici ma con graduazione della politicità e perciò diversamente valutati nella misura del condono, per cui a minore politicità corrisponde minore «sconto».

Il presupposto logico di tutto ciò si trova in una sorta di presunzione che il reato sia comunque in tutto o in parte riferibile, direttamente o non, al fatto di essere appartenenti alle «formazioni armate».

Di ciò era pienamente consapevole il legislatore, come risulta evidente dalle dichiarazioni del Ministro della giustizia alla Camera dei deputati:

«La graduazione, tuttavia, non esclude che anche il secondo gruppo, di cui si parla adesso, debba essere considerato come riguardante reati politici. Non credo, pertanto, che in sede di interpretazione possano sorgere dubbi su questo punto. Comunque la interpretazione che noi ora ne diamo è dello stesso legislatore e tutti gli altri interpreti hanno il dovere di uniformarvisi» (75).

In realtà contrasti di interpretazione vi furono, e non di poca portata, su questo e su altri aspetti. Era infatti in discussione l'applicazione dell'indulto oltre che ai partigiani anche agli appartenenti alle Forze armate e, soprattutto, agli appartenenti alla Repubblica Sociale.

Secondo una prima interpretazione erano da ritenere esclusi entrambi. I primi per una serie di motivi strettamente giuridici (militari) e perché la giustificazione dell'indulto stava, tra l'altro, nel carattere irregolare dei combattenti del movimento di liberazione (il che non era per le Forze armate) e i secondi perché non avevano mai acquistato il carattere della legittimità come le formazioni partigiane. Veniva sottolineato infatti come la Repubblica Sociale «non fu mai una

verità giuridica né le sue forze armate furono mai riconosciute come legittimi belligeranti» (76). Altri invece, partendo dalla accezione più ampia della espressione «formazioni armate», vi ricomprendevano oltre ai partigiani anche l'esercito del Regno d'Italia e le formazioni della repubblica sociale (77). La questione finì davanti alle sezioni unite della Cassazione che

esclusero la qualifica in discussione per le Forze armate, riconoscendola invece alle formazioni fasciste repubblichine (78).

La giurisprudenza si adeguò in linea di massima all'orientamento della Cassazione, non senza eccezioni anche nella stessa suprema corte (79).

Nel corso degli stessi anni, ed anche dopo l'amnistia del '59 - che limitava il beneficio alla sola area dei reati politici «ai sensi dell'art. 8 cod. pen.» - la nozione di delitto politico in senso proprio veniva affinata e precisata da varie decisioni della Cassazione, molte delle quali erano proprio di applicazione dei decreti di amnistia.

A parte i delitti politici oggettivi, per i quali si ponevano questioni meno scottanti (80), in generale l'orientamento della massima magistratura in fatto di motivo politico risultò, almeno dal punto di vista formale, di notevole ampiezza e di una certa «nobiltà» di stampo liberale. Così fu ritenuto che:

«Il delitto deve considerarsi soggettivamente politico quando il colpevole abbia agito in concreto per fini che investano la collettività sociale trascendendo l'individuo, mediante agitazione di idee o di attività pratiche rivolte ad imporre determinate soluzioni, di indole strettamente politica o economico-sociale in contrasto con le soluzioni propugnate dagli

avversari, indipendentemente dei segreti impulsi psichici che possono aver determinato l'azione e dalla moralità dei fini che con questa si sono voluti raggiungere.

Deve ritenersi determinato in tutto da movente politico il delitto che sia stato compiuto

esclusivamente nell'interesse della collettività sociale della società e dello Stato in genere, sia sul piano nazionale sia entro un ambito territoriale più ristretto; deve ritenersi invece determinato solo in parte da movente politico il delitto commesso per vere o supposte offese personali, ove l'agente abbia ritenuto che tali offese si risolvessero in offese al proprio partito politico ed in pregiudizio del programma politico o sociale dello stesso» (81).

Va tenuto presente che una nozione così ampia della politicità si basò in quegli anni anche su un atteggiamento della dottrina che teneva conto del fatto che, per effetto degli artt. 10 e 26 della Costituzione, il delitto politico era tornato ad avere una valenza positiva «pro reo» (82), dopo l'intervento fascista che aveva ampliato la nozione (l'art. 8 del codice del '30) a fini notoriamente di maggiore repressione.

Comunque, sulla variante soggettiva del delitto politico la dottrina manifestò una tendenza più restrittiva della giurisprudenza, anche se talvolta con motivazioni inaspettate.

Va detto infatti che in qualche occasione l'ampiezza della politicità riconosciuta dai giudici giocò anche a favore di agitazioni popolari che, in una nozione puramente oggettiva, non sarebbero rientrate. Tanto è vero che la Cassazione, che aveva dato rilievo politico anche ai fini

economico-sociali, era stata accusata di recepire «principi marxisti» (83).

In qualche caso infatti la Cassazione aveva considerato reato politico, e quindi oggetto di amnistia, «l'invasione collettiva arbitraria di terreni» (84) oppure un'agitazione di braccianti per motivi sindacali, nella quale però vi era stato anche un assalto ad una caserma di carabinieri con bombe a mano (85) oppure alla manifestazione che, partita da una Camera del lavoro con lo slogan «vogliamo pace e lavoro», aveva costretto i negozianti alla chiusura e si era conclusa con

l'occupazione del comune (86).

Sta di fatto che la giurisprudenza, in assenza di una rielaborazione costituzionale del delitto politico, fece ampio uso della nozione soggettiva esistente nel codice penale fino a giungere, nel suo rigore formalistico, a decisioni in favore di criminali nazisti che provocarono forti reazioni negative nell'opinione pubblica e nei commentatori giuridici.

Si trattò dei famosi casi «Zind» (1961) e «Kroger» (1963) in cui rispettivamente la Cassazione e la sezione istruttoria presso la corte di appello di Bologna negarono l'estradizione

riconoscendo la natura politica dei reati di cui erano accusati: il primo di aver esaltato i massacri di ebrei compiuti dai nazisti ed il secondo di essere l'autore diretto di uno di essi (87).

Decisioni queste inaccettabili per il loro oggetto, ma non censurabili più di tanto sul piano strettamente giuridico se si pensa che fu poi necessaria l'approvazione di una apposita legge costituzionale (n. 1 del 1967) per escludere la possibilità che al delitto di genocidio fosse applicato il regime favorevole che gli artt. 10 e 26 della Costituzione accordano ai reati politici (88).

Sul piano delle amnistie va comunque rilevato che il tentativo di Kappler di fruire del decreto del '59 fu rigettato dal Tribunale supremo militare, ma non perché il delitto non fosse ritenuto politico, ma per il fatto che il movente era nel senso di tutelare gli interessi politici di uno stato estero e, in quanto tale, era irrilevante ai fini di quel provvedimento di amnistia (89).

Analogo rifiuto era stato opposto dal Tribunale supremo militare a Reder: fu escluso infatti che i «reati contro le leggi e gli usi della guerra» fossero politici, fu esclusa anche l'esistenza del fine politico, della connessione a reati politici e del fatto che le truppe tedesche potessero essere considerate «formazioni armate» secondo l'indulto del '53 (90).

Con l'amnistia del '66 fu recuperata una nozione di politicità più ampia (soggettiva) che comprendeva tutti i reati, indipendentemente dalla loro gravità (quindi anche l'omicidio), «se determinati da movente o fine politico o connessi con tali reati ...», purché commessi tra il 25/7/ 43 ed il 2/6/46.

Ma di quell'amnistia non è questo l'aspetto più interessante, sia perché non sposta i termini del dibattito fin qui visto (91) sia perché si riferisce a fatti ormai lontani 20 anni.

Il fatto di maggior rilievo è invece l'apparizione (92) di formule e di disposizioni di remissione delle pene che articolano il concetto di reato politico e ne estendono obiettivamente i contenuti. Così, per esempio i reati di resistenza a pubblico ufficiale, di interruzione di un ufficio o servizio pubblico, di oltraggio a pubblico ufficiale, di istigazione a disubbidire le leggi, di violenza privata e di danneggiamento sono amnistiati se commessi «per motivi politici». Ed inoltre sono amnistiati gli stessi reati ed in più quelli di occupazione di azienda, sabotaggio, istigazione a delinquere, blocco stradale «se commessi per motivi ed in occasione di

manifestazioni sindacali» (93). Viene così recuperata una vecchia formula usata in provvedimenti di amnistia dell'inizio del secolo (94) e poi scomparsa, fatta salva qualche sporadica eccezione (per es. nel '47).

Prima del '66 questo tipo di reati o non venivano affatto amnistiati oppure lo erano solo però in quanto rientranti nelle disposizioni generali (non politiche) oppure nella nozione di delitto politico. Abbiamo visto sopra come proprio la Cassazione aveva elaborato un concetto di «motivo politico» che comprendeva anche le «pratiche rivolte ad imporre» determinate soluzioni «d'indole economica sociale» (95).

Il che aveva portato in qualche caso a ricomprendere nelle amnistie per reati politici dei comportamenti tipici delle lotte sindacali. Con l'amnistia del '66 il concetto di «motivo» e

«occasione» di manifestazione sindacale, come contesto «scriminante», si autonomizza del reato politico (96), acquista una sua particolare configurazione e pone problemi propri di definizione

concettuale.

I provvedimenti del '68 e del '70 arricchiscono e specificano ulteriormente questa categoria di reati, che, pur non essendo politici in senso stretto, vengono però fatti oggetto di un trattamento di favore per via di una certa quota di politicità che è loro riconosciuta.

Un lavorio interpretativo sulla nozione di «sindacale» si rese poi necessario per il fatto che sia nel '68 che nel '70 non furono accolti gli emendamenti della sinistra che tendevano ad introdurre nel testo dei provvedimenti le manifestazioni «politiche» (97), mentre fu accolta quella strana formulazione «anche con finalità politiche».

Ma vediamo meglio il problema.

L'atteggiamento dei giudici, specie della Cassazione, fu tutt'altro che favorevole alla nuova formulazione.

Nel complesso le manifestazioni sindacali furono interpretate in modo restrittivo.

Fu infatti posta la distinzione, alquanto pretestuosa, tra manifestazioni sorte per generici motivi di lavoro, non comprese nell'amnistia del '66 (98), e manifestazioni sindacali vere e proprie, le uniche amnistiate e da intendere esclusivamente «nei termini che sono propri alla sua

[sindacale] funzione e che si inquadrano nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori» (99). Questo orientamento fu ribadito anche a proposito dell'amnistia del '68.

Fu di conseguenza esclusa la natura sindacale di qualsiasi manifestazione che esulasse da uno scontro diretto e attuale tra datori di lavoro e lavoratori e che invece fosse diretta verso gli organi statali per ottenere concessioni o agevolazioni o nei riguardi di enti locali (100). Ed inoltre, sempre secondo la Cassazione, anche quando la manifestazione era sicuramente sindacale, non potevano fruire del beneficio coloro i quali si erano inseriti in essa «per puro spirito di faziosità politica o con intendimenti eversivi» (101). Il quadro concettuale di queste decisioni richiama, forse inconsapevolmente, le elaborazioni sul «pretesto politico» e sulla «lotta al fascismo» (cui si è fatto cenno prima).

Ne risulta limitato il concetto di «sindacale», che spesso arriva a non tenere in nessun conto la locuzione «anche con finalità politiche», presente in alcuni provvedimenti. Tale locuzione se non era infatti tale da far rientrare nel beneficio le manifestazioni puramente politiche,

sicuramente ampliava il contenuto della «sindacalità» (102). Una nozione di sindacalità un po' più aperta è la seguente:

«... si ha agitazione o manifestazione 'sindacale' soltanto quando l'azione sia riferibile a contrasti che insorgono tra prestatori d'opera e datori di lavoro o trovi in essi un qualsiasi rapporto eziologico, e cioè quando si tratti di azioni nelle quali il movente che ha determinato la volontà del soggetto attivo trovi origine in un interesse collettivo e proprio di una determinata categoria (retribuzioni, licenziamenti, orario di lavoro, disoccupazione, trattamento previdenziale

eccetera)» (103).

Essa afferma infatti che è sindacale la manifestazione che sia espressione di un interesse collettivo e di categoria che sia in «qualsiasi rapporto eziologico» con la relazione datore di lavoro-lavoratori e quindi anche relativo alla disoccupazione o al trattamento previdenziale (che sono aspetti esterni al rapporto di lavoro inteso in senso strettamente privatistico).

In qualche decisione vi è comunque l'espressa affermazione che rientrano «negli interessi dei sindacati agricoli non soltanto quelli inerenti a contrasti tra lavoratori e datori di lavoro, ma anche gli altri interessi che si pongono di fronte allo stato...» (104).

In qualche altro caso si accede ad una nozione ampia ed informale dell'attività sindacale che è ritenuta sussistente ove vi sia «una comunità di persone, accomunate dallo svolgimento

professionale di una specifica attività economica, [che] svolgono una attività diretta alla tutela di interessi della categoria, anche non economici» (105).

Il testo dell'amnistia del '70, con la sua ampiezza, fu l'occasione per pronunce sugli aspetti più vari dei movimenti di quegli anni: fu esclusa la sua applicabilità alle agitazioni verificatesi in varie carceri (106) e alle manifestazioni meramente politiche, relative all'orientamento ideologico internazionale di un determinato partito (107), mentre in un caso, argomentando sul concetto di «manifestazione» - che non postula necessariamente il concorso di più persone -, fu ritenuta possibile la manifestazione di un solo individuo, al quale fu applicato il beneficio (108). Nel complesso si può dire che, a parte qualche rara eccezione, la nozione di «manifestazioni sindacali» che si afferma nella giurisprudenza in occasione delle amnistie risulta decisamente restrittiva sia rispetto al tenore letterale dei provvedimenti che agli stessi orientamenti prevalenti tra gli studiosi di diritto sindacale e nella stessa giurisprudenza in tema di lavoro. Basti pensare come in materia di diritto di sciopero, una delle più tipiche manifestazioni sindacali, a partire dall'inizio degli anni '60 (ed in particolare dalla sentenza n. 123 del 1962 della Corte

costituzionale) si era affermata l'opinione per cui gli interessi economico sociali a tutela dei quali i lavoratori scioperano, vanno intesi in senso ampio e quindi come non necessariamente inerenti al rapporto giuridico con il datore di lavoro. Erano rientrate così progressivamente nella nozione costituzionale di sciopero varie forme di astensione dal lavoro caratterizzate dalle più diverse finalità, da quelle di solidarietà fino a quelle politiche (pur queste ultime con alcuni limiti) (109). L'esperienza delle amnistie «sindacali» invece, se può essere considerata un miglioramento, nel senso della precisazione dell'oggetto del provvedimento di remissione, rispetto alla generale nozione di reato politico, non consente comunque un bilancio positivo sul piano della stessa elaborazione della nozione di «sindacale». Mentre l'ampiezza dello spettro sociale e politico che emerge dal testo del '70 è di indiscutibile interesse, pur presentando i limiti propri di una enunciazione casistica che molto dice, ma altrettanto lascia fuori (110).

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