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Il complesso di concetti e di rapporti tra vita e politica su cui, a partire dagli anni Settanta, Foucault rianima l’attenzione, a ben vedere è consustanziale alla riflessione politica occidentale fin dalle sue prime battute. Non è assente in Aristotele, per il quale la polis «sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza [İ੣ ȗોȞ]». L’uomo ha la vita comunitaria come proprio tratto vitale, è animale politico; la città dunque nasce come istituzione naturale, al fine di garantirne la sopravvivenza, ma soprattutto perché una vita qualificata, una vita buona trovi le proprie condizioni necessarie1. Vita e politica sono in Aristotele strutturalmente connesse: la loro relazione è essenziale e necessaria.

Una relazione che non manca in epoca moderna, sebbene sia di tutt’altra natura. La vita connessa con l’attività politica descritta da Hobbes, per esempio, non è più la vita qualificata di Aristotele: Hobbes non considera la politica condizione necessaria perché la buona vita dell’uomo si realizzi, bensì perché la sola vita “nuda” sia possibile. È a tal fine che esiste la sovranità: artificio istituito in funzione della vita, dei suoi caratteri naturali; primo fra tutti, l’eguaglianza per natura degli uomini, e le potenzialmente tragiche conseguenze che da ciò scaturiscono2.

E su una relazione di tale natura si fonda e matura la moderna civiltà politica liberale3. La teoria tradizionale configura le trame della politica liberale a partire dalla libertà del singolo di darsi una vita, all’interno di un contesto tutelato e garantito dall’artificio istituzionale e giuridico della sovranità: vita e potere sono collegati da procedure e istituzioni, da artifici che regolano la libertà del singolo e la conservano. Il diritto privato, in senso sommario, è interrotto dalla sola salvaguardia dell’altrui diritto, in funzione della quale la sovranità è chiamata a operare. È questo lo schema descritto dalla formula per cui il potere, secondo la descrizione moderna, lascia vivere e dà la morte: la sovranità nasce per tutelare la vita umana; non dunque per definirne la natura o per manipolarla, bensì per difenderne il libero corso, la cui soppressione è finalizzata, ancora, alla sola tutela della vita. La costituzione del potere sovrano potrà dunque seguire un orientamento dal basso – dalla natura degli uomini e dal contratto fra questi ultimi – verso l’alto; ma tale costituzione richiede al potere sovrano che operi dall’alto, attraverso la mediazione del diritto, difendendo la vita o mettendo a morte, tutelando o sospendendo la libertà4.

1 Aristotele, Politica, I, 1252b 27-30 (si riporta la traduzione, per Rizzoli, di C.A. Viano, Milano 20083). 2 Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, pt. I, capp. XIII-XV e pt. II, cap. XXI.

3 Cfr. C. Galli, Vicende della biopolitica, in «Contemporanea», 12.3 (luglio 2009), pp. 510-515; p. 510.

4 Il medesimo si può dire a riguardo del singolo o della nazione, come corpo politico collettivo, ci ricorda Galli,

ibidem. Inoltre, nel caso di una minaccia esterna, si può intendere il diritto di vita o di morte in senso pufendorfiano, indiretto, ossia come appello del sovrano all’individuo a esporre la propria vita per la difesa dello Stato.

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Per dirla in termini che torneranno nell’incursione tra i temi foucaultiani che segue, tradizionalmente il tema della sovranità è concepito come quel carattere del potere che lascia vivere e che, in debiti momenti e occasioni, può reprimere ed escludere chiunque turbi l’ordine con cui si era posto termine all’hobbesiana guerra generalizzata. Il potere sovrano, così come viene idealizzato solitamente, è quel potere che istituisce l’ordine entro cui gli individui possono vivere e che può sospenderlo temporaneamente per escludervi chi ne rappresenta una minaccia: il potere sovrano pone termine alla guerra generalizzata, riservandosi di riattivare l’ostilità in maniera circostanziata e locale.

È proprio contro questa configurazione della sovranità che la riflessione politica di Foucault intende rivolgere la propria attenzione. Con l’intento di capovolgere il rapporto tra la politica e la vita, Foucault solleva la questione del “biopotere” in maniera compiuta all’interno dell’ultimo capitolo della sua opera del 1976, La volontà di sapere. Il capitolo – che, secondo le proteste manifestate dallo stesso autore in un’intervista del ’77, ha subito un’inaspettata indifferenza da parte della critica5 – rappresenta già dal titolo, diritto di morte

e potere sulla vita, un importante chiarimento in merito all’attività di Foucault. L’intento

principale di questo capitolo, come anche del corso dello stesso anno presso il Collège de

France che l’ha anticipato, è quello di abbandonare definitivamente l’immagine

dissimmetrica e repressiva del potere sovrano, così come la teoria politica l’ha solitamente intesa. La capacità di unire mediante un gesto escludente, la suprema facoltà di intervenire sulla vita paventando il diritto di uccidere o di reprimere: l’immagine del potere sovrano si attaglia forse in maniera adeguata all’esercizio del potere in epoca medievale, ossia in un’epoca in cui le azioni del sovrano seguivano precipuamente una logica di tipo negativo; il sovrano prendeva, sottraeva, si appropriava ed estorceva cose, tempo, corpi e vita, questo intende Foucault definendo un simile rapporto di potere “thanatopolitico”. Una simile immagine del potere, riadattata dal discorso liberale secondo la logica della tutela della vita naturale e delle libertà, costituisce, come si è detto, anche la descrizione che la modernità ha offerto di sé: è proprio questa autodescrizione che Foucault intende confutare e ribaltare, affermando che, almeno a partire dall’epoca classica, «l’Occidente ha conosciuto una trasformazione molto profonda».

Il ribaltamento di prospettiva si basa sul superamento della rappresentazione scenica e spettacolare che la modernità ha voluto costruire di sé; dietro a una simile narrazione, Foucault rintraccia l’abbandono di una logica negativa, di “prelievo”, e la maturazione di un potere che produce forze, le fa crescere, le modella e le ordina, più che limitarsi a reprimerle e distruggerle. La formula del diritto di “lasciar vivere o mettere a morte” non è più adeguata

5 Cfr. Le jeu de Michel Foucault, conversazione di Foucault con A. Grosrichard, G. Waieman, J.A. Miller, G.

Le Gaufey, D. Celas, G. Miller, C. Millot, J. Livi, J. Miller, originariamente in «Ornicar? Bulletin périodique du champ freudien», 10 (luglio 1977), pp. 62-93, e ora in DEII, pp. 298-329; p. 323.

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per un potere che si interessa direttamente alla vita, che addestra il corpo per produrre soggetti e alleva collettività per governare popoli:

Questo formidabile potere di morte si presenta ora come il complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme.6

Dietro l’idealizzazione con cui la modernità liberale si è rappresentata7, con Foucault si deve recuperare una dinamica di potere che non “lascia vivere”, bensì che “fa vivere”, che agisce sulla vita dell’individuo e dei gruppi, per organizzarne i momenti, per migliorarne ed economizzarne le azioni, per osservarla e regolarla. In questo modo, dunque, Foucault riattiva il tema del potere sulla vita, il “biopotere”, intendendo descriverlo, in primo luogo, come un potere la cui efficacia risiede nel plasmare l’individuo secondo norme e modelli non attraverso la repressione, quanto invece attraverso la persuasione, attraverso tecnologie microfisiche che incidono sulla fisicità e sulla sessualità; e, dall’altro lato, come un potere che, producendo soggetti e incorporando nelle loro condotte norme e stili di vita, può aderire meglio e in maniera economica sulla vita della comunità.

Sono proprio questi due i lati di cui consta il biopotere. Foucault li descrive come due componenti del biopotere, ma anche come le fasi non necessariamente antitetiche con cui esso è penetrato nelle trame della sovranità fino a sovvertirne le geometrie. Il primo polo è quello dell’anatomo-politica del corpo umano, ossia il potere disciplinare sugli individui, sui loro corpi concepiti come macchine da addestrare e ottimizzare; Foucault sviluppa le proprie riflessioni intorno a questo aspetto nella prima metà degli anni Settanta. Il secondo polo, affermatosi verso la metà del XVIII secolo, è quello della bio-politica, interessato al «corpo- specie», cioè a tutti i processi vitali che legano gli individui a livello biologico; saranno i corsi dal ’76 al ’79 a riguardare questi aspetti, legandoli all’attività di governo8. Entrambi questi poli hanno il proprio punto di innesto nel corpo: mentre il primo polo interviene sull’adattamento efficace delle attitudini a meccanismi complessivi, il secondo opera sulle relazioni che legano il corpo alla popolazione, al benessere e all’equilibrio globali.

Il biopotere descritto da Foucault ha il proprio culmine in epoca moderna, nel XIX secolo e nei nostri giorni. Di fatto, però, il suo sviluppo non ha beneficiato di una speculazione precisa, essendosi la teoria politica concentrata per lo più sulle trasformazioni storiche del concetto di sovranità, e sulle conseguenze che ne derivavano. Così, scrive Foucault, l’articolazione di anatomopolitica e biopolitica non è stata compiuta «a livello di un discorso speculativo ma nella forma di connessioni concrete che costituiranno la grande

6 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 121.

7 Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., pp. 38.

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tecnologia del potere nel XIX secolo»9. La teoria politica moderna ha descritto i processi storici attraverso il filtro della sovranità, restituendo l’immagine di un potere che si dà delle regole, che si cristallizza in istituzioni utili al soggetto per condurre liberamente la propria vita. Si tratta di una descrizione mendace che, sostiene Foucault, è strumentale all’uomo borghese per affermare la propria identità. La verità – poi leggermente rivista con l’introduzione della nozione di governamentalità – è, invece, che dietro l’idealizzazione teorica, quell’uomo è prodotto in quanto soggetto assoggettato, non per opera del potere artificiale del diritto che difende la vita naturale, bensì di un potere che costruisce quella stessa vita.

Il mutamento che allora Foucault propone, implementando la ricostruzione genealogica alla lettura archeologica, è quello da una teoria politica a un’analitica politica, di una critica capace di rilevare, più che il rapporto sagittale dall’alto al basso del potere, i movimenti immanenti alla società e gli intrecci strategici dei micropoteri che ne modificano le trame. Le pagine che hanno preceduto, dunque, non sono state meramente protrettiche rispetto a quelle più strettamente dedicate al potere: esse contenevano già, in una dimensione epistemologica, lo statuto complesso, microfisicamente articolato di ciò su cui la critica foucaultiana avrebbe operato10.

Nell’intervista già sopra menzionata, si legge:

Se si intende costruire una teoria del potere, si sarà sempre obbligati a osservarlo come emergente in un dato luogo e in un dato momento, e da lì dedurlo per ricostruirne la genesi. Ma se il potere è un insieme aperto di relazioni più o meno coordinate, allora l’unico problema è quello di dotarsi di una griglia che renda possibile un’analitica delle relazioni di potere.11

L’analitica del potere è utile a concepire il campo politico non come ambiente di compromesso pacifico, bensì come fitta trama di strategie, come campo su cui si incrociano tattiche. Il lessico sfruttato da Foucault cambia sensibilmente rispetto a quello dei teorici della sovranità: non più un frasario giuridico, bensì, almeno all’inizio, conflittuale, bellico, e in seguito comunque strategico. L’immagine del potere come strategia rivela un contesto sociale mai acquietato, in cui le ostilità perdurano anche sotto le sembianze della politica ordinaria; e di cui solo la genealogia, con il suo dinamismo, può dare conto. Il dicton di Clausewitz, sosterrà Foucault, va rovesciato: la politica è la guerra condotta come altri mezzi; ed è questa, e non invece il raggio d’azione della sovranità, la categorie che permette a Foucault di sperimentare il suoi primi passi contro la teoria della sovranità. Foucault

9 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 124.

10 Come ha scritto Baudrillard in uno scritto stentoreamente polemico, «il discorso di Foucault è uno specchio

dei poteri che descrive» (J. Baudrillard, Oublier Foucault (1976), tr. it. Dimenticare Foucault, ed. PGreco, Milano 2014, p. 6). Di differente avviso, nell’analisi dell’indagine politica di Foucault degli anni Settanta, Didier Eribon, il quale segnala un stacco forse esageratamente marcato tra gli studi foucaultiani degli anni Sessanta e quelli successivi (D. Eribon, Michel Foucault, cit., pt. III, cap. II).

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tenterà in primo luogo di far reagire la politica nel confronto con il concetto di una guerra permanente, una guerra mai sedata, un punto di emergenza di una lotta perpetua, un campo agonistico irriducibile ad alcuna teoria. Momento eminente di tale rovesciamento, solitamente individuato come tappa fondamentale del percorso foucaultiano, sono le lezioni presso il Collège de France del 1976, “Bisogna difendere la società”. Gli studiosi e i critici di Foucault collocano in questa serie di lezioni il punto di snodo, dalla riflessione intorno alle discipline, verso il compimento di una critica della teoria della sovranità, finalizzata alla descrizione di un agonismo sociale da governare. Così, se fino al 1976 Foucault si era impegnato nella descrizione della capacità del potere disciplinare di penetrare nei corpi degli individui, dal 1976, grazie all’intuizione della sterilità intrinseca alla teoria della sovranità e mediante l’interrogazione del rovesciamento della formula clausewitziana, si può dedicare alle questioni più strettamente inerenti il governo della intransitabile complessità che muove le società.

E però, la recente pubblicazione del corso dell’anno accademico ’72-’73 impone un parziale cambiamento di prospettiva12. La cronologia posta in apertura alle raccolte Dits et

écrits, riporta una lettera che testimonia come già nel dicembre 1972 Foucault avesse preso a

considerare le relazioni di potere oltre Hobbes, oltre Clausewitz e oltre la stessa lotta di classe di concezione marxista, collocandosi piuttosto all’interno della «più denigrata delle guerre», ossia la guerra civile13. Da tale iniziativa nascono le lezioni dedicate alla Società punitiva: esse, a ben vedere, non sono ancora affrancate da una certa idea di conflitto fra

classi; si può, anzi, dire con Negri che la ricerca di Foucault affonda le proprie basi proprio nel suo bersaglio critico e grazie a esso consolida il proprio effetto retorico14. Ciò che – anche nella consapevolezza del tentativo foucaultiano di costruire un’economia politica alternativa – rimane tuttavia fondamentale è la presenza, già nel 1973, di una critica completa del paradigma della sovranità, in quel caso come premessa per l’analisi delle relazioni di potere in termini di guerra e, in particolare, di guerra civile. Gli elementi critici cui farà presa la riflessione del 1976, culminante nella questione del possibile rovesciamento della formula di Clausewitz, sono già tutti presenti nel corso sulla Società punitiva, e ne guidano il percorso – in molti punti autocritico – dall’ipotesi repressiva al potere sulla vita. Non coincide, invece, la parte propositiva, corrispondente nel primo caso alla categoria della

12 M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France 1972-1973 (2013), tr. it. a cura di D. Borca e

P.A. Rovatti, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), ed. Feltrinelli, Milano 2016.

13 DEI, p. 57.

14 Cfr. A. Negri, Una prigione a cielo aperto di Michel Foucault, in «il Manifesto», edizione del 5 maggio

2016. Anche Claudia Aradau, nel leggere la recente pubblicazione del corso degli anni ’72-’73 e nel considerare quelle lezioni motivo di un profondo ripensamento riguardo all’ordine con cui tradizionalmente si scandisce l’intera opera foucaultiana, sottolinea come ne trapeli un costante confronto fra Foucault e Marx (C. Aradau, Politics as (civil?) war, in «Radical Philosophy», 196 (mar-apr 2016), pp. 42-45, p. 42). Ancora nel ’77, Foucault paragonerà la sua mossa e quella di Marx: cfr. Non au sexe roi, intervista rilasciata a «Le Nouvel Observateur», 644 (12-21 marzo 1977), pp. 92-130, ora in DEII, pp. 256-269; p. 258.

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guerra civile, e nel secondo caso a quella della guerra tout court; in ogni caso, un tema, quello della guerra, che Foucault ridimensionerà assai già a partire dal 1977.

Tale percorso segna il passaggio da una logica binaria e negativa a una articolata e produttiva: ricostruire i momenti salienti di tale percorso, dunque, significa porsi alla ricerca degli indizi che segnalano l’abbandono della teoria della sovranità, della sua geometria negativa, già nei primi anni Settanta. Ciò che è di particolare interesse notare, inoltre, è che questo mutamento di prospettiva non va, come spesso si è sostenuto, semplicemente verso l’affermazione di un tatticismo interno alla società, verso un riassetto delle forme spaziali e corporali oltre l’unitarietà della teoria della sovranità; il progetto disciplinare nasce già tenendo come propria condizione l’immagine di una strategia, in quel caso di una strategia di guerra, e segnatamente di guerra civile. Per questo, ciò che seguirà non sarà una (ennesima) ricostruzione dei lineamenti della società disciplinare e della storia della sessualità, così come Foucault le ha pensate fino al ’76; si cercherà, invece, di indagare la maturazione di un’immagine agonistica e bellicosa, e comunque complessa e strategica, già tra i moventi che spingono Foucault a liberarsi dell’idea di un potere che reprime (presente specialmente nella Storia della follia) e ad assumere un concetto di potere come risultante dei sommovimenti conflittuali che caratterizzano la società.

Prima di mettere a tema la critica vera e propria nei confronti della teoria della sovranità, dunque, si darà conto di come Foucault abbia costruito la sua genealogia della prigione e del dispositivo della sessualità, concentrandoci particolarmente su come egli già assumesse come fondamento un tessuto sociale impregnato di strategia. Ad attirare maggiormente l’attenzione nelle prossime battute sarà quindi questo aspetto, rappresentato nella fattispecie dallo scontro fra illegalismi all’interno di una lotta di classe da cui Foucault ancora non era riuscito a depurare il proprio pensiero. Tali categorie verranno da Foucault riviste nella seconda metà degli anni Settanta, in cui si concentrerà, più che sui temi del potere in senso generico, sulla politica e sul governo. Perciò, le pagine che seguono hanno l’intenzione di chiarire come si evolva l’intuizione embrionale della società come ambiente di guerra (civile), e come essa rappresenti la prima possibile via di fuga da una prospettiva meramente repressiva sul potere verso una prospettiva positiva di produzione di vita. Esse sono, per così dire, delle manovre di avvicinamento alla formulazione completa della critica foucaultiana della teoria della sovranità, rappresentata dalla vera novità del concetto di governamentalità, come intreccio di razionalità, di condotte di condotta e, in ultima istanza, di opportunità di autodeterminazione per un soggetto che si riscopre sempre preso entro simili trame.

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2.1. Il potere sulla vita è strategico. Lebbra e peste. 2.1.1. L’ipotesi repressiva.

C’è un gesto che, nel 1961, Foucault pone come caratteristico della storia della ragione occidentale e, segnatamente, del suo momento classico. Si tratta di un gesto che, in realtà, già era stato in qualche misura preconizzato in un trattato di qualche anno precedente, risalente all’epoca in cui Foucault lavorava presso l’Hôpital Saint-Anne a Parigi: adottando una postura analitico-esistenziale, ma con forti tinte althusseriane, nel 1954 Foucault scrive

Maladie mentale et personnalité, in cui si denuncia la prassi repressiva nei confronti di

malati di mente e dei folli1.

Ed è proprio un gesto di tenore negativo quello che si ritrova nella Storia della follia, insieme archeologia della follia, storia della ragione occidentale, ma anche fra le prime osservazioni foucaultiane di processi di potere.

Nella prefazione alla prima edizione dello scritto del ’61 – prefazione che scomparirà già dalla revisione del 1972 e per le successive tre ri-edizioni –, l’autore premette che si avrà a che fare con l’archeologia di un silenzio2, e in questa formula è di fatto contenuto il senso del movimento binario e repressivo che connota la geometria dell’intera riflessione. Com’è propria di ogni scavo archeologico nel sapere la sospensione delle categorie che l’epoca contemporanea all’autore applica sull’oggetto di ricerca, anche in questo caso, come condizione metodologica, viene messo fra parentesi tutto «ciò che possiamo sapere sulla follia». Di più, sarà proprio del sapere sulla follia – intesa, oggi, come malattia mentale – che si dovrà porre questione, non assumendola a guida nell’analisi dei processi storici dei rapporti fra ragione e “sragione”, quanto piuttosto cogliendola come prodotto di questi stessi processi. Solo rinunciando alle «verità terminali», ovvero al sapere che informa l’odierno discorso sulla follia, si riuscirà ad accedere a una «regione scomoda», anno zero della ricerca

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