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LA FUNZIONE SOCIALE DELL’AGRICOLTURA

7. Nuova ruralità e politiche pubbliche

Per quanto riguarda, infine, l’evoluzione delle politiche pubbliche, il disegno di tra- sformazione del territorio e modernizzazione dell’agricoltura, tracciato così pun- tualmente dalla Costituzione, negli anni Sessanta perde il carattere di un’azione organica. Si assiste, infatti, a una frantumazione degli interventi: le politiche econo- miche, quelle sociali e quelle territoriali non dialogano più. Gli stessi tentativi di programmazione - dai Piani Verdi al Quadrifoglio fino alla Legge pluriennale di spesa - non solo non si sono discostati da un’ottica strettamente settoriale, ma non hanno mai considerato la dimensione territoriale e non si sono coordinati, anche per questo, coi tentativi di introdurre modelli di welfare basati sulla diffusione di servizi locali.

E’ come se le forme nuove dell’agricoltura e della ruralità nate dalla “grande tra- sformazione”, nell’imprimersi sui suoi antichi tratti, abbiano prodotto segni irrico- noscibili o di difficile lettura, e quasi per nascondere il disorientamento e l’imba- razzo, i decisori politici abbiano scelto a bella posta di rinunciare a perseguire grandi disegni.

L’effetto più deleterio di questo abbandono è la devastazione del territorio provoca- ta da una crescita urbana disordinata, che prende corpo nella più assoluta man- canza di strumenti di piano in grado di offrire un minimo di razionalità ai nuovi insediamenti e di curare in qualche modo la qualità del paesaggio. In tale contesto, la periurbanità, da fenomeno transitorio, assume un carattere permanente, come esito sia delle dinamiche diffusive della città che dei processi di “rurbanizzazione” derivanti dal trasferimento di popolazione urbana nei territori rurali. Un fenomeno complesso che ancora oggi non trova alcuna strumentazione di governo in grado di gestirne gli impatti.

A ciò si aggiunge, dalla fine degli anni Settanta, la lenta transizione da politiche di stampo meramente assicurativo e “riparativo” a modelli di welfare caratterizzati – come poc’anzi abbiamo visto - dalla dotazione territoriale di servizi, che tuttavia prendono forma in una logica di economie di scala, mediante la concentrazione di interventi e strutture nelle aree del centro-nord e nelle grandi città, trascurando il Mezzogiorno e le aree a minore densità di popolazione, a partire da quelle di alta

collina e di montagna. Ciò produce un’erosione delle reti di protezione sociale nelle aree rurali, già segnate da una cronica difficoltà di fornire servizi socio-sanita- ri a causa della dispersione degli insediamenti abitativi.

Di fatto, l’unica politica che per un lungo periodo influenza nel profondo l’agricol- tura italiana è la PAC, che nata principalmente per favorire la crescita produttiva consegue rapidamente e con successo quell’obiettivo. Ben presto, tuttavia, si tra- sforma in uno strumento per accumulare eccedenze e dilatare senza alcun control- lo la spesa comunitaria. Inoltre, diventa fonte di ulteriori squilibri e disparità di trat- tamento perché le risorse erogate, essendo proporzionali alle quantità prodotte, assicurano i maggiori benefici alle aziende più grandi e a quelle che producono in abbondanza.

In conclusione, dando uno sguardo d’insieme alle politiche pubbliche messe in atto dopo i grandi interventi di riforma degli anni Cinquanta e fino agli anni Novanta, si può dire con tranquillità che a differenza di quelli attivati nel periodo precedente, tali interventi hanno sostanzialmente disatteso i due principi che il Costituente aveva posto a fondamento delle politiche agricole per qualificare la funzione sociale del settore primario: l’utilizzo razionale del territorio e il conse- guimento di equi rapporti sociali.

Con l’avvio dei Programmi integrati mediterranei nel 1985, la successiva riforma dei fondi strutturali e, infine, con la nuova politica di sviluppo rurale dell’Unione europea nel 1999, prende corpo una politica agricola che torna ad assumere una forte connotazione territoriale. Sul versante interno viene introdotta, con la Legge di Orientamento agricolo del 2001, la nozione di “distretto” in agricoltura, mutuandola - purtroppo solo parzialmente e quindi senza il respiro strategico del

pays - dalla Legge di Orientamento “per la gestione e lo sviluppo durevole del terri-

torio”, approvata in Francia alla fine degli anni Novanta.

L’aspetto più rilevante della nuova normativa riguarda la dilatazione del concetto di “agricoltura” alle attività di servizi, comprendendo in esse non solo quelle turisti- co-ricreative, ma anche quelle paesaggistiche, culturali, didattiche e sociali, nelle sue articolazioni educative, terapeutiche, riabilitative e di inclusione lavorativa di soggetti svantaggiati.

A riconoscere in modo esplicito l’agricoltura sociale è il Piano Strategico Nazionale 2007-2013 per lo sviluppo rurale, che recupera e innova un tratto antico dell’agri- coltura. La novità consiste nel fatto che ora questo insieme di attività viene realiz- zato in modo consapevole nelle strutture agricole e riconosciuto dalla collettività come percorso utile a rafforzare l’autonomia e il benessere delle persone indeboli-

te da contesti non inclusivi.

Francesco Di Iacovo – che da anni studia questo fenomeno con Saverio Senni e Roberto Finuola – ha giustamente definito l’agricoltura sociale una “tradizione innovativa”, in quanto essa è una modalità di offerta di servizi alla persona in con- testi non medicalizzati e in strutture produttive che operano in reti relazionali pree- sistenti nelle campagne e all’uopo rivitalizzate. E proprio per questo è in grado di contribuire in modo rilevante a riqualificare i sistemi socio-assistenziali e socio- sanitari dei contesti territoriali.

Accanto a siffatte innovazioni, vanno segnalate altre importanti acquisizioni come l’evoluzione del concetto di bonifica da intervento di “miglioramento” del territo- rio, subordinato a visioni produttivistiche o a esigenze di salubrità, ad azione di “mantenimento” e tutela del patrimonio naturale strettamente legato a fattori di carattere ecologico. Tali cambiamenti incominciano a prendere corpo negli anni Novanta con interventi attivi di tutela e valorizzazione, nonostante la Convenzione di Ramsar relativa alla tutela delle zone umide fosse del 1971.

Nello stesso periodo anche la legislazione a favore delle zone montane viene riqualificata, considerando queste come risorse ambientali di preminente interesse nazionale e passando, quindi, da una logica assistenziale, di cui erano intrisi gli interventi precedenti, a una di tutela e valorizzazione della montagna in quanto patrimonio culturale e naturale delle popolazioni montane.