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Nuovo costo della maternità dei lavoratori domestici a carico INPS

Costo a carico INPS

Maternità obbligatoria 42 milioni

Congedo parentale 23,5 milioni

Allattamento 10 milioni

Elaborazioni DOMINA e Fondazione Leone Moressa su dati INPS

Sempre considerando gli indennizzi ricevuti per la maternità obbligatoria delle neo mamme e utilizzando (in base al CCNL del lavoro domestico) come coefficiente giornaliero 26 giorni è stato possibile stimare il costo orario delle neo mamme ed il conseguente costo dell’INPS per sostenere le 2 ore di allattamento giornaliero fino al compimento dell’anno del bambino. La stima del costo totale per l’allattamento è pari a 10 milioni.

Possiamo concludere che con una spesa massima di 33,5 milioni l’INPS potrebbe garantire anche alle lavoratrici domestiche tutti i diritti legati alla maternità che hanno le altre dipendenti.

40 Il parere

di Emanuela Loretone, Filcams CGIL

Filcams CGIL, Fisascat CISL, Uiltucs e Federcolf, con le associazioni datoriali Fidaldo e Domina sono firmatarie del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro sulla disciplina del contratto di lavoro domestico e, pur rappresentando interessi e punti di vista diversi, sono ugualmente impegnate, ogni giorno, per un miglioramento delle condizioni sociali, economiche e normative di una realtà lavorativa che vive quasi tutte le fragilità presenti nella società e nel mondo del lavoro: discriminazione, precarietà, isolamento, salari bassi, diritti difficili da esigere, lavoro nero, violenze nei confronti delle donne.

Tema qualificante delle piattaforme sindacali è la battaglia per la totale estensione alle lavoratrici ed ai lavoratori domestici della normativa a tutela della maternità e della genitorialità, applicata al resto del mondo del lavoro e che al momento li esclude quasi completamente. Per superare questa disparità tra lavoratrici e lavoratori, inaccettabile per un Paese come il nostro, che ha nel diritto al lavoro, nell’uguaglianza e nelle libertà i principi cardine della Carta Costituzionale, è indispensabile anche l’intervento statale.

Invero, proprio in applicazione delle norme della Costituzione in tema di eguaglianza e di tutela della salute e della “funzione essenziale delle donne”, in Italia, grazie agli anni di mobilitazioni, e di dibattito innovatore suscitati dalla società civile, dalle nostre stesse Organizzazioni, dalle associazioni e dai movimenti giovanili e femministi, è stata approvata una buona legislazione a tutela delle lavoratrici madri, peraltro ultimamente ridisegnata, in una logica paritaria, a sostegno della maternità e della paternità.

La legge, al fine di assicurare la salute delle donne in gravidanza, prevede innanzitutto l’obbligo, a cui il datore di lavoro deve adeguarsi, di 5 mesi di astensione dal lavoro da parte della lavoratrice: due mesi prima della data presunta del parto più tre mesi dopo, oppure, in particolari situazioni, anche in un momento antecedente i due mesi precedenti la data presunta del parto, o il mese precedente la data presunta del parto e i quattro mesi successivi. In questi periodi è sempre prevista un’indennità, pagata dall’INPS, pari, per le lavoratrici dipendenti, all’80%

della retribuzione globale. E’ riconosciuto anche il diritto all’astensione facoltativa dal lavoro nei primi 12 anni di vita del figlio: le madri possono fruire di un congedo

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di 10 mesi, frazionati o continuativi; i mesi diventano 11 se il padre si astiene almeno per 3 mensilità.

Alle lavoratrici domestiche però l’indennità di maternità spetta solo se hanno 52 settimane di contributi versati nei 24 mesi che precedono l’inizio dell’astensione dal lavoro o 26 settimane nei 12 mesi precedenti l’astensione stessa. Inoltre il calcolo dell’importo non è pari all’80% della retribuzione globale, come nel caso di tutte le lavoratrici con contratto di lavoro subordinato, ma l’80%, pagato direttamente dall’INPS, si calcola sulla sesta parte della media delle retribuzioni convenzionali settimanali, relative alle settimane di contribuzione comprese nei 24 mesi antecedenti il periodo di astensione obbligatoria. Le convenzioni orarie su cui effettuare il calcolo, sono determinate dall’INPS e sono bassissime: ad esempio con la circolare numero 17 del 2020 l’Istituto ha stabilito € 7,17 per le retribuzioni orarie effettive fino ad € 8,10; € 8,10 per quelle superiori ad € 8,10; etc. Possiamo dunque facilmente notare che si tratta di una misura che non da effettivo sostegno alle lavoratrici domestiche madri e alle loro famiglie, che in un momento come quello della maternità, scontano pesantemente la loro condizione di classe lavoratrice senza tutele e meno uguale delle altre.

Questa categoria è anche completamente esclusa dal diritto ai congedi parentali.

La legge poi prevede una normativa stringente anche per la conservazione del posto di lavoro: dall’inizio del periodo di gravidanza ad un anno di età del bambino non è possibile licenziare una lavoratrice madre.

La Legge 151 del 2001 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, all’art. 62, che disciplina la materia in oggetto per il lavoro domestico, ha tuttavia omesso di prevedere espressamente il diritto alla conservazione del posto di lavoro per le madri. Tale “dimenticanza”, che è una costante per questa peculiare realtà del mondo del lavoro, per molto tempo ha comportato la messa in dubbio, da più parti, della possibilità di applicare il divieto di licenziamento anche a questo comparto, che, come sappiamo, ha una disciplina particolare, con molte differenze e debolezze rispetto a quella prevista per il lavoro subordinato.

Questo vulnus è stato parzialmente sanato dalla Giurisprudenza. Inoltre nel CCNL di settore abbiamo sancito il diritto alla conservazione del posto di lavoro, tutela che però termina con la cessazione del congedo di maternità e non arriva, come per il resto delle lavoratrici madri, fino al compimento di un anno del bambino. La legge obbliga il datore di lavoro anche a tutelare la salute della gestante sul luogo di lavoro adibendola a mansioni che non ne mettano in pericolo la salute. Siffatta

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normativa è valida anche per il Lavoro Domestico, ma è spesso risultata di difficile applicazione.

Come accennavo, il CCNL sulla disciplina del rapporto di Lavoro Domestico, rinnovato l’8 settembre 2020, stabilisce regole comuni e certe all’art. 25: ribadisce che al settore si applicano le norme di legge sulla tutela delle lavoratrici madri, riafferma il divieto di adibire al lavoro le lavoratrici domestiche nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi e, ancora, stabilisce il divieto di licenziamento. Il CCNL, all’art. 50, prevede altresì un organismo paritetico, CAS.SA.COLF, composto dalle OO.SS. e dalle associazioni datoriali, che eroga, tra le altre, prestazioni per la maternità e per l’assistenza dei figli con disagio.

Non è chiaramente la soluzione alle problematiche qui esposte ma è indice della sensibilità e della priorità che il tema della parità della tutela alla maternità ed alla genitorialità ha per le Parti Sociali.

Purtroppo la sola contrattazione collettiva non è sufficiente a colmare le grandi e gravi differenze che esistono in questa materia: è necessario che le Istituzioni si adoperino per superare questo diverso trattamento, che non è in linea con quanto stabilito dalla Costituzione italiana e non va nella direzione tracciata dalla Convenzione 189 dell’OIL, che all’art. 14 impegna ogni Stato membro ad “adottare misure appropriate, in conformità alla legislazione nazionale e tenendo debito conto delle caratteristiche particolari del lavoro domestico, per assicurare che i lavoratori domestici godano di condizioni non meno favorevoli di quelle applicabili all’insieme dei lavoratori in materia di sicurezza sociale, ivi compreso per quanto riguarda la maternità”.

L’art. 37 c. 1 della Costituzione dice invece che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Allora non possiamo non domandarci se requisiti che rendono tanto difficile ottenere l’indennità di maternità, l’impossibilità di fruire dei congedi parentali, la parziale tutela dell’occupazione, che è meno estesa per colf, badanti e baby sitter rispetto al resto del mondo del lavoro, tutte le differenze e le disparità che riguardano lavoratrici e lavoratori che, aiutando nell’accudimento dei nostri anziani e bambini e delle nostre case, garantiscono l’equilibrio della società, possano essere considerate misure che assicurano alla madre la speciale protezione di cui parla la nostra Costituzione e le condizioni non meno favorevoli che l’Italia si è impegnata a assicurare ratificando la Convenzione 189. Crediamo di no.

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Riteniamo infatti che la debole tutela della maternità e della genitorialità attualmente assicurata alle lavoratrici ed ai lavoratori domestici non sia sufficiente e che la differenziazione attuale non renda giustizia ad un settore fondamentale per le famiglie e per la collettività. Per questa ragione con Fisascat, Uiltucs e Federcolf e le associazioni datoriali Domina e Fidaldo abbiamo riportato in calce all’art. 25 una dichiarazione congiunta con cui ci siamo tutti impegnati a promuovere ogni iniziativa nei confronti di enti, organi ed istituzione utile ad estendere le tutele alle lavoratrici madri del settore del Lavoro Domestico. La prima azione che abbiamo messo in campo all’indomani della sottoscrizione del rinnovo del CCNL e durante la pandemia da Covid 19 è stata la presentazione al Governo, di una Piattaforma programmatica per il Lavoro Domestico in cui abbiamo inserito il riconoscimento del pieno diritto alla tutela della maternità tra i punti qualificanti della nostra rivendicazione. Le Organizzazioni Sindacali e le associazioni datoriali che rappresentano il mondo del Lavoro Domestico saranno sempre più impegnate nel perseguire questo traguardo di uguaglianza, giustizia e libertà.

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1.5 Azione 3. Riconoscimento ai datori di lavoro della deducibilità dal reddito di tutte le retribuzioni corrisposte ai lavoratori domestici e dei contributi obbligatori. Analisi e costi dell’azione.

In base all’art. 53 della Costituzione “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. I cittadini hanno quindi il dovere di contribuire alle spese dello Stato mediante prelievi fiscali, in base alle loro risorse, il tutto gestito attraverso il raggiungimento di determinate soglie. Un datore di lavoro domestico non assume un dipendente per trarne del profitto, ma per rispondere ad un bisogno e spesso in condizioni di emergenza. Di conseguenza il suo reddito diminuisce per sostenere il costo del lavoro domestico, ma al fine della determinazione del reddito fiscalmente imponibile e del carico tributario da sostenere non si tiene conto di questa spesa sostenuta. Le parti sociali chiedono il riconoscimento ai datori di lavoro della deducibilità dal reddito di tutte le retribuzioni corrisposte ai lavoratori domestici e dei relativi contributi obbligatori alla condizione dell'applicazione della contrattazione collettiva nazionale sul rapporto di lavoro domestico sottoscritta dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria. Ovvero nel momento di un contratto regolare, le famiglie datrici di lavoro domestico dovrebbero avere la possibilità di detrarre dai loro redditi tutte le retribuzioni corrisposte e gli oneri. Questo da una parte consentirebbe la riduzione del lavoro nero e dall’altra darebbe la possibilità alle famiglie di riuscire a sostenere le proprie esigenze di lavoro domestico.

Ma quanto costerebbe questa proposta? Prima di analizzare i costi, riportiamo le detrazioni a cui possono attualmente attingere le famiglie datrici di lavoro domestico.

Attualmente le famiglie datori di lavoro domestico possono contare solo su due tipi di aiuti: la detrazione18 e la deduzione19. La detrazione riguarda solo soggetti non autosufficienti e consente – per chi ha un reddito non superiore a 40 mila euro – una detrazione del 19% di un importo non superiore a 2.100 € per l’assistenza ad anziani non autosufficienti. A fronte di un costo complessivo di una badante dai 15 mila euro ai 22 mila, in base alla tipologia di lavoratore assunto, la detrazione massima è di 399 €.

18 Decreto Presidente della Repubblica 22/12/1986 n. 917 Art. 15. Detrazione per Oneri

19 Decreto Presidente della Repubblica 22/12/1986 n. 917 Art. 10. Oneri deducibili

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Tab 2.15. Risparmio fiscale con detrazioni e le deduzioni delle famiglie