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Occorre però anche considerare come nel caso concreto si sarebbe potuta articolare la volontà di Lucio Tizio, specie alla luce, come già si è avuto

modo di dire brevemente, della lex venditionis

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. E probabilmente non è del

tutto da escludere che in realtà, nel caso concreto, le parti volessero

effettivamente giungere all’obiettivo di onerare il fondo in senso proprio.

Sul punto è significativo notare che la mancata costituzione di un onere

reale potrebbe essere dovuta a un errore nella scelta del mezzo giuridico a

ciò destinato, tanto che la natura solo obbligatoria dell’impegno assunto si

rendeva evidente nell’impiego, da parte del proprietario-alienante, del verbo

promitto

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. Depone in questo senso anche il fatto che, in effetti, lo stesso

84 Cfr. P.B

ONFANTE, La regola servitus in faciendo consistere nequit, cit., p. 186.

85 Si noti che S. R

ANDAZZO, Leges mancipii. Contributo allo studio dei limiti di

rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, Milano, 1998, p. 128 e nt.

132, mette in evidenza come – pur con qualche dubbio legato al fatto che non necessariamente le leges venditionis, comunque contenenti formule non troppo dissimili da quelle delle leges mancipi, debbano appartenere al gruppo delle leges

mancipio dictae – la particolare clausola relativa alla emptio del fondo che viene

ricordata da Scevola potrebbe richiamare, anche vista la similare terminologia rispetto ai verba impiegati nel caso delle servitù urbane, quella delle leges

mancipio dictae di più antica origine.

86 Sul punto è opportuno notare che non vi è concordia tra gli autori nel ritenere che

solo in epoca postclassica si ammise come mezzo di costituzione delle servitù anche quello per pactio et stipulatio e che prima di tale innovazione si annoverassero tra i modi di costituzione solo la mancipatio e la in iure cessio. La ricostruzione della storiografia tradizionale traspare bene dal discorso svolto sul punto da S.SOLAZZI, Requisiti e modi di costituzione delle servitù prediali, cit., pp. 92-105. È opportuno ripercorrere brevemente i tratti salienti della ricostruzione. In particolare, andrebbero letti in questi termini i rimaneggiamenti che possono riscontrarsi su Pomp. 32 ad Sab. D. 8.6.19: Si partem fundi vendendo lege caverim,

uti per eam partem in reliquum fundum meum aquam ducerem, et statutum tempus intercesserit, antequam rivum facerem, nihil iuris amitto, quia nullum iter aquae fuerit, sed manet mihi ius integrum: quod si fecissem iter neque usus essem, amittam. Nello specifico si può notare come risulti essere stato eliminato dal testo

l’elenco dei negozi solenni mediante i quali sarebbe stato possibile costituire la servitù, sancendo pertanto l’immediata efficacia del contratto di compravendita per la costituzione di quest’ultima. Un ulteriore indizio in questo senso si può ricavare da Iul. 7 dig. D. 8.5.16: Si a te emero, ut mihi liceat ex aedibus meis in aedes tuas

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stillicidium immittere et postea te sciente ex causa emptionis immissum habeam, quaero, an ex hac causa actione quadam vel exceptione tuendus sim. respondi utroque auxilio me usurum. Qui si era proceduto a sopprimere il riferimento

all’actio empti affinchè si intendesse come il solo adempimento della vendita fosse autonomamente in grado di far sorgere in capo all’acquirente il diritto di servitù. Secondo questa ricostruzione, dunque, la novità postclassica era stata definitivamente recepita e consolidata dai compilatori giustinianei, come proverebbero appunto le alterazioni individuate nei testi di Pomponio e Giuliano. Una ricostruzione differente è proposta da G. PROVERA, Servitù prediali e

obbligazioni «propter rem», cit., pp. 15-47. Lo studioso, riscontrata l’impossibilità

che per mancipatio e in iure cessio si costituissero l’usufrutto e la servitù su fondi provinciali (dato che l’impiego di tali mezzi avrebbe presupposto il dominium ex

iure Quiritium), credette utilizzabile allo scopo il modo per pactio et stipulatio.

Secondo Provera da Gai. 2.31 si potrebbe però desumere il criterio guida per il superamento dell’antinomia sussistente fra la tesi secondo cui si sarebbe avuta esclusivamente la costituzione di un rapporto di natura meramente obbligatoria e quella di segno contrario che ne rimarcava la natura reale. In questi termini allora, si sarebbe potuta intendere la stipulatio in non faciendo ponendo mente al fatto che la pactio a essa collegata avrebbe potuto dar vita un diritto di servitù o usufrutto. La ricostruzione ora per sommi capi accennata deve essere al contempo letta anche considerando la communis opinio che propende per l’inammissibilità dell’obbligazione propter rem, nonostante il fatto che i romani non fossero del tutto riluttanti nell’ammettere particolari figure rientranti in questa categoria, come nel caso delle actiones noxales o dell’actio aquae pluviae arcendae. Si rendeva necessario trovare una soluzione in relazione alla sancita non trasmissibilità del

vinculum iuris. Non si può escludere che proprio per aggirare questo problema

siano stati ammessi rapporti riconducibili all’obbligazione propter rem. Ciò, secondo Provera, si sarebbe potuto desumere dal tenore di Ulp. 49 ad Sab. D. 45.1.38.10 relativo alla trasmissione ereditaria di uno ius di uti frui. Si potrebbe addurre a ulteriore conferma di questa ipotesi anche Ulp. 18 ad Sab. D. 7.1.27.4 relativo ad una servitus stipulatione debita, e in merito al quale l’autore notava come Ulpiano, avendo prospettato quella soluzione, doveva presupporre un rapporto obbligatorio in luogo della fattispecie reale. Ancora, soccorrerebbe a questo proposito anche Iul. 52 dig. D. 45.1.56.4. Sono peraltro convincenti i dati addotti da Provera e volti a escludere che nel caso di specie si dovesse trattare di una servitus costituita per in iure cessio. E non priva di fondamento sembra essere l’idea dell’autore che possa trattarsi, nel caso di specie, di una servitù costituita su fondo provinciale nella forma di una obbligazione con soggetti variabili. Oltretutto, è assai significativo che relativamente a fattispecie così costituite si parli esclusivamente di servitù o usufrutto, con la conseguenza che non si sarebbe potuto trattare di rapporti solo obbligatori o solo reali. Provera ipotizza pertanto che nei casi sino a ora esaminati si possano individuare particolari obbligazioni ambulatorie scopo delle quali doveva essere quello di aggirare il divieto di costituire servitù e usufrutto su fondi provinciali. In questi termini si può anche meglio inquadrare il nesso che legava la pactio e la stipulatio. Così, la prima doveva essere manifestazione dell’intenzione di costituire una servitù in forma obbligatoria, mentre la seconda sarebbe risultata idonea a produrre tale effetto. È

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proprietario alienante aveva ritenuto di dover specificare che la fornitura di

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