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Olivetti, un inattuale costruttore di mit

In risposta a 11 domande su Olivetti

Marco Assennato*

*Marco Assennato, filosofo, insegna all’ENSA Paris-Malaquais e all’ESA di Parigi. Si occupa di filosofia politica e architettura. Collabora regolarmente con “il manifesto” e con diverse piattaforme di ricerca militante, tra le quali “EuroNomade” e

“OperaViva”.

[Redazione di Engramma] Come va interpretata l’idea di Comunità olivettiana rispetto al dibattito attorno al conflitto tra società e comunità che costituiva sino a poco tempo fa il fronte tra politiche di sinistra e politiche di destra?

Non so bene a cosa si faccia allusione. Comunità, come popolo, è una parola che non denota nulla. Al più è una costruzione ideologica – ad ogni modo nulla di ‘naturale’ o ‘spontaneo’. Mi pare si possa dire così: ogni volta che tornano in auge parole come ‘popolo’ o ‘comunità’ ciò accade per dissimulare o rimuovere i conflitti e le differenze che separano – e organizzano – la società. Da questo punto di vista la teoria comunitaria di Olivetti è perfettamente comprensibile, e in serie storica perfettamente compresa, come un tentativo tipicamente illuministico e paternalistico di assicurare la piena integrazione dentro al ciclo capitalistico di settori sociali all’epoca estremamente conflittuali tra loro. Ma il paternalismo di Olivetti non è neppure pensabile senza il ciclo espansivo del capitale italiano degli anni ’40 e ’50: politiche di innovazione industriale e ricerca, alti salari, ruolo della cultura umanistica dentro alla programmazione produttiva, con il corollario di corpi intermedi e istituzioni democratiche che permettevano l’integrazione tra le parti in conflitto. Un capitalismo illuminato e paternalistico e una classe operaia che partecipa delle fortune del padrone. Questa è la comunità di Olivetti.

[RE] Che legame esiste (se esiste) tra le esperienze di comunitarismo produttivo come i villaggi operai di Saltaire in Inghilterra, Mulhouse in Francia, Crespi d’Adda e Schio in Italia e l’esperienza Olivetti?

Per le ragioni che dicevo prima, direi nessuna. Olivetti è impensabile senza l’Italia del boom economico, e senza un capitalismo industriale in

espansione, senza politiche anticicliche. Il compromesso olivettiano, peraltro, si è realizzato in altre forme dall’assetto essenzialmente socialdemocratico che ha dominato la politica europea almeno fino alla fine degli anni ’60. Non a caso, dopo, l’esperienza finisce. Se dovessi proporre un paragone direi piuttosto che la vicenda di Ivrea – con la necessaria distanza storica – assomiglia più alla Silicon Valley.

[RE] In quali termini si pone la relazione tra l’emergere di una dottrina sociale della chiesa, di una “economia sociale di mercato”, di riflessioni teologiche, filosofiche e politiche come quelle di Jacques Maritain, e il pensiero di Olivetti?

Dal punto di vista ideologico direi una relazione – o almeno una

somiglianza di famiglia ecco… – forte. Ma più che sul piano ideologico mi pare che Olivetti sia interessante sul piano produttivo e dell’innovazione industriale. In fondo è per quello che lo ricordiamo ancora. Olivetti è la cattiva coscienza italiana. Ha mostrato che il riformismo poteva spingersi più avanti, che poteva integrare temi e livelli di civiltà maggiori di quanto non abbia fatto. In vita si scontrò con la corruzione e l’arretratezza culturale dei politici al governo (politici che rispetto a quelli di oggi erano comunque giganti). Poi, la sua azienda fu dismessa e con essa un pezzo fondamentale dell’Italia industriale. Stupidamente. Perciò va rimosso. [RE] Quale la funzione degli intellettuali e del “lavoro” intellettuale nei processi di socializzazione capitalistica? Che funzione assume progressivamente l’intelligenza e la creatività collettiva? Come reinterpretare il marxianogeneral intellect partendo dal caso Olivetti? Ilgeneral intellect non ha nulla a che fare con il ‘lavoro culturale’, come è noto. Ma con la socializzazione di un lavoro produttivo che è sempre più – o definitivamente – incorporato nella ricerca scientifica e tecnologica. Credo che a modo suo Olivetti queste cose le sapesse bene. Quanto

all’impegno degli intellettuali in quella vicenda basta leggere le

meravigliose pagine di Donnaruma, il libro di Ottiero Ottieri, per capire limiti e disillusioni di quella esperienza.

[RE] Esiste un qualche legame tra l’esperienza olivettiana e l’emergere recente del tema della comunità nel dibattito filosofico contemporaneo? Credo nessun legame, per fortuna. La ‘comunità’ di cui si chiacchiera nei dibattiti filosofici è reattiva, chiusa, identitaria. La comunità di Olivetti era illuministica, produttivista, ecumenica, universale. Insomma: nulla di ‘locale’. La dimensione ‘locale’ in Olivetti è solo la scala alla quale testare un esperimento di integrazione sociale.

[RE] Quali sono i fattori socio-economici e politici che hanno impedito all’“utopia possibile” di Adriano Olivetti di realizzarsi?

Olivetti ha una idea tutta ‘armonica’ dell’integrazione capitalistica. Non è disposto ad accettare che il capitalismo, anche il capitalismo democratico e illuminato del quale egli si faceva latore, è un sistema conflittuale fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Si lavora, insomma, sotto padrone e per il padrone. Una roba di un arcaismo e di una inciviltà inverecondi. Assieme a questo egli fu un grande costruttore di miti: l’interdisciplinarità, la responsabilità sociale dell’impresa, l’interesse superiore (appunto ecumenico-universale) del quale il padrone si fa, paternalisticamente, latore. Tutte sovrastrutture che, a partire da un certo momento, non servirono più. E che servono ancor meno oggi, di fronte a un capitalismo violento e aggressivo come quello attuale.

[RE] Qual è stato l’effettivo contributo di Olivetti alla digitalizzazione globale nella quale ci troviamo immersi?

Da questo punto di vista direi: enorme. Luciano Gallino ha scritto pagine meravigliose sulla straordinaria ricerca olivettiana. La Olivetti era una industria di punta sul mercato internazionale. La sua dismissione spiega meglio di altre cose quanto meschina e miope sia stata la politica italiana negli anni. Un capitalismo che sega i rami su cui è seduto. Che si

autodistrugge per salvare la sua rendita. Ma sono cose che non riguardano solo la Olivetti.

[RE] Come la questione “territorio” si trasforma in relazione alla

socializzazione del sistema produttivo e alla nuova formazione dei valori sia economici che sociali?

Oggi? Oggi tutto il territorio è messo a valore. Direi di più: l’intero sistema antropo-geografico. La vita stessa, dice il filosofo, no? Anche qui: nulla di comparabile al momento in cui si potevano pensare ‘isole’ felici.

[RE] Qual è la specificità dell’esperienza olivettiana nell’uso di design e grafica per la creazione di un immaginario collettivo legato al prodotto? Anche qui: sul piano del design e della grafica siamo a punte di eccellenza raramente raggiunte in seguito. Un lavoro straordinario. La funzione era evidentemente quella che voi dite: creare immaginario, mediare le articolazioni reali della comunità in immagini felici e intelligenti.

[RE] In quale modo architettura e urbanistica hanno influito sulla nascita del modello produttivo e sociale della Olivetti?

Se posso permettermi una battuta: credo abbiano contribuito grazie al loro atavico ritardo. Proprio perché in ritardo fu possibile a Olivetti raggruppare attorno a sé quanto di meglio l’architettura italiana sapeva esprimere e metterlo al lavoro nella sua isola magica.

[RE] Quali sono gli aspetti dell’attualità o inattualità di Olivetti?Olivetti è una figura di compromesso: sociale, economico, politico. Un

compromesso che va di pari passo con politiche potentissime di

redistribuzione della ricchezza. Oggi mi pare che viviamo in un mondo che non ha alcun bisogno di compromessi. Un mondo di muri, di sfruttamento, di guerre. Direi perciò che Olivetti è radicalmente inattuale, anche per salvarlo da ogni possibile e meschino recupero localista e identitario.

English abstract

Marco Assennato notes that the main reason why Olivetti is still remembered today is his capacity of innovation in the industrial sector, and that, for this reason, he represents the Italian “guilty conscience”. He therefore describes Olivetti as a great builder of myths – interdisciplinarity, corporate social responsibility, ecumenical and universal superior interest – of useless “superstructures”, particularly today when we are facing a violent and aggressive capitalism. In Olivetti’s idea of community, Assennato reads a typically enlightened and paternalistic attempt to ensure the full integration, within the capitalist cycle, of social sectors that were extremely

conflicting at the time. A productivist, ecumenical and universal community that had nothing in common with the reactionary, closed and identitarian communities manifesting today.

Comunità

In risposta a 11 domande su Olivetti

Marco Biraghi*

*Marco Biraghi, professore ordinario di Storia dell’Architettura Contemporanea al Politecnico di Milano. Ha da poco pubblicatoL'architetto come intellettuale (Torino 2019).

Si potrebbe osservare come da un certo punto di vista sia proprio l’assenza – e finanche il deserto – di comunità ad indicarne l’esigenza come ciò che ci manca, e anzi come la nostra stessa mancanza. Roberto Esposito,Communitas

A varie riprese, negli ultimi trent’anni, il pensiero filosofico si è interrogato sul senso – oltreché sulla sostanza stessa – della ‘comunità’. Termine scivoloso, per le risonanze che esso porta con sé, “cristiano-personaliste e conservatrici, o addirittura fasciste e fascistizzanti”, secondo Jean-Luc Nancy (Nancy 1992, 7-8).

Sicuramente, come ha notato lo stesso Nancy, “comunità non è una parola della sinistra”. Ma altrettanto sicuramente è una parola che ha mobilitato le menti migliori della cultura del tardo Novecento alla ricerca delle ragioni della rottura apparentemente irreparabile in cui essa si è trovata coinvolta, al punto da rendere difficile – se non addirittura impossibile – oggi parlare ancora di comunità.

Per il mondo degli architetti e degli urbanisti, invece, il termine comunità vive al riparo da qualsiasi problema, rimandando inequivocabilmente alla ‘Comunità’ olivettiana. Anzi, per essi (non solo, ma in modo prevalente), l’esistenza della Comunità olivettiana è la dimostrazione – o il perpetuarsi dell’illusione – della possibilità della sopravvivenza della comunità: non foss’altro che quella costituita dal gruppo di architetti (in verità alquanto difformi tra loro sotto molteplici aspetti) che a diverso titolo e in diversi

momenti, già prima della guerra e poi ancora in seguito, sono stati coinvolti a Ivrea, a Pozzuoli e in tutti gli altri scenari delle imprese olivettiane: Luigi Figini e Gino Pollini, Studio BBPR, Eduardo Vittoria, Marcello Nizzoli, Gian Mario Oliveri, Gian Antonio Bernasconi, Annibale Fiocchi, Luigi Cosenza, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Marco Zanuso, Ignazio Gardella, Roberto Gabetti e Aimaro Isola, Gino Valle, Iginio Cappai e Pietro Mainardis, per ricordare solo i principali tra quelli italiani (su Olivetti e l’architettura, v., fra gli altri, Labò 1957; Olmo 2001; Astarita 2000; Bonifazio Scrivano 2001; Cosenza 2006).

Se dunque Olivetti, da questo punto di vista, ha avuto un ruolo essenziale e innegabilmente reale, concreto, fattivo, nel campo della committenza del secondo dopoguerra, la sua Comunità ha avuto invece il potere di imporsi soprattutto come ‘mito’: ovvero, non tanto come qualcosa di leggendario o d’irreale, quanto piuttosto come qualcosa di non pensato sino in fondo, qualcosa i cui presupposti – prima ancora che le sue conseguenze – sono rimasti celati proprio a chi avrebbe dovuto (o voluto) occuparsene. Ed è proprio il carattere di ‘sacralità laica’ di cui la Comunità olivettiana è sempre stata ammantata ad aver rappresentato l’ostacolo principale alla possibilità di concepirla nella sua effettività, come ‘principio speranza’, piuttosto che come realtà. Non a caso, inL’ordine politico delle Comunità, la trattazione organica del suo pensiero in materia di organizzazione statuale, Olivetti postula una “società umana, solidarista, personalista”, ovvero una “società socialista-comunista e cristiana” (Olivetti [1945] 2014, 16; v. anche Olivetti 1952; Olivetti [1956] 2013). Di tale società la

Comunità non costituisce l’esito bensì l’indiscusso fondamento: “La Comunità è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si

sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e priva di elementi di solidarietà” (Olivetti [1945] 2014, 24). “Creando un superiore interesse concreto”, afferma Olivetti, la Comunità tende a “comporre detti conflitti e ad affratellare gli uomini” (Olivetti [1945] 2014, 24).

Nella realtà, la perdita della comunità risale a ben prima di quando il movimento di Adriano Olivetti non abbia provato a riformulare il

problema, ponendosi al tempo stesso come sua soluzione. La coscienza della perdita – e il conseguente rimpianto per essa – compare già in Jean-

Jacques Rousseau, alla metà del Settecento. Lungi dall’esserne il momento genealogico, però, l’analisi del pensatore francese proietta all’indietro quella stessa coscienza, coinvolgendovi ogni evento passato:

Tutta la storia umana, per Rousseau, porta dentro tale ferita che dall’interno la corrode e la svuota. Essa non è interpretabile che in ragione di questo “impossibile” – di ciò che essanon è, né potrà mai essere – da cui, tuttavia, si origina in forma di necessario tradimento (Esposito 2006, 30).

Da ciò discende che

In ogni momento della sua storia [...] l’Occidente è già sempre consegnato alla nostalgia di una comunità più arcaica e ormai scomparsa, al rimpianto di una familiarità, di una fraternità e di una convivialità perdute (Nancy 1992, 34).

Non vi sarebbe dunque alcun tempo nel quale la comunità si sia affermata positivamente, come entità capace di unire armoniosamente i suoi membri sulla base di caratteri o elementi comuni. La comunità in questi termini è già sempre una proiezione mitica, un ideale da inseguire vanamente più che un obiettivo concretamente raggiungibile o raggiunto.

Vi è tuttavia una condizione nella quale la comunità ha la capacità di compattarsi e di sussistere nella propria immanenza: e questa condizione è la morte. Storicamente, immolare la propria vita in guerra per la patria, sacrificarla per una ‘causa’, ma al limite anche semplicemente morire, da un punto di vista religioso, ha sempre sancito un’appartenenza, il far parte di una comunità: la comunità che si crea nella morte. L’essere mortali degli uomini, in questo senso, non si configura come un semplice ‘destino’, bensì come qualcosa che necessita di essere dimostrato attraverso l’atto stesso del morire. La comunità dei mortali è dunque l’unica che possa dirsi davvero tale: dove ciò che accomuna i suoi membri, ciò che li tiene

letteralmente insieme, però, non si configura mai come opera collettiva o comune:

Una comunità non è il progetto di una fusione né in generale un progetto produttivo o operativo – essa non è affatto un progetto (Nancy 1992, 43-44).

L’unica comunione possibile per la comunità dei morti è qualcosa che si sottrae alla fattività della produzione, e perciò stesso nulla che ciascuno dei suoi membri possa dire di possedere; piuttosto qualcosa che per tutti costituisce una privazione, un’assenza. Ciò sgombra il terreno dagli equivoci di cui l’ideologia comunitaria olivettiana è stata involontaria portatrice. Se “la morte è inseparabile dalla comunità, perché è attraverso la morte che la comunità si rivela” (Nancy 1992, 41), la Comunità di Olivetti – così positivamente animata dal progetto di uno spazio fisico, culturale e politico da condividere, uno spazio-in-comune tra i vivi – finisce con l’essere una parodia della comunità, o più semplicemente

un’evocazione letteraria e idealizzata della stessa.

Ed è proprio a partire da questa coscienza che si può tornare ad accostarsi al concetto di comunità non più come “una ‘proprietà’ dei soggetti che accomuna” (Esposito 2006, VIII), quanto piuttosto come ciò che si istituisce su una fondante mancanza. Anche da un punto di vista etimologico, del resto, il terminecommunitas si riferisce esplicitamente al munus, ovvero al dono che si dà, non a quello che si riceve: “un onere, o addirittura una modalità difettiva” (Esposito 2006, XIII): un meno, piuttosto che un più. Ne risulta che lacommunitas è l’insieme delle persone unite da un dovere o da un debito. Pertanto

Nella comunità, i soggetti non trovano un principio di identificazione [...]. Essi non trovano altro che quel vuoto, quella distanza, quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi (Esposito 2006, XIV).

A questo concetto dicommunitas basata su qualcosa che manca a tutti i suoi componenti – sotto molti aspetti, una comunità impossibile – si affianca e contrappone polarmente il concetto diimmunitas, epitome della condizione di separatezza moderno-contemporanea.

Non c’è bisogno di ipotizzare nessun idillio comunitario precedente, nessuna primitiva ‘società organica’ – esistente soltanto nellaimagerie romantica ottocentesca – per rilevare come la modernità si affermi separandosi violentemente da un ordine i cui benefici non appaiono più bilanciare i rischi che essi comportano come le due facce indissolubilmente congiunte nel concetto bivalente dimunus: dono e obbligo, beneficio e prestazione, congiunzione e minaccia. Gli individui moderni divengono davvero tali – e

cioè perfettamente individui, individui ‘assoluti’, circondati da un confine che li isola e li protegge – solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro. Se esentati, esonerati, dispensati da quel contatto che minaccia la loro identità esponendoli al possibile conflitto con il loro vicino. Al contagio della relazione (Esposito 2006, XXI).

E tuttavia, l’immunizzazione dell’individuo moderno-contemporaneo dal ‘contagio’ comunitario non destituisce di senso quell’impossibile comunità che si afferma sottraendosi; anzi, in una certa misura la certifica.

La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. Anche se la società è il meno comunitaria possibile, non è impossibile che nel deserto sociale non ci sia, infima o addirittura inaccessibile, comunità (Nancy 1992, 78).

È tra l’individuazione che rifugge ogni implicazione vincolante con l’altro e l’impossibile-inaccessibile comunità che si muove la condizione attuale. Una condizione nella quale l’ossessivo affermarsi dell’individualità si staglia problematicamente sul vuoto vorace della comunità.

Bibliografia

Astarita 2000

R. Astarita,Gli architetti di Olivetti. Una storia di committenza industriale, Milano 2000.

Bonifazio Scrivano 2001

P. Bonifazio, P. Scrivano,Olivetti costruisce. Architettura moderna a Ivrea, Milano 2001.

Cosenza 2006

L. Cosenza,La fabbrica Olivetti a Pozzuoli, Napoli 2006. Esposito 2006

R. Esposito,Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 2006. Labò 1957

M. Labò,L’aspetto estetico dell’opera sociale di Adriano Olivetti, Milano 1957. Nancy 1992

Olivetti [1945] 2014

A. Olivetti,L’ordine politico delle Comunità [1945], Roma-Ivrea 2014. Olivetti 1952

A. Olivetti,Società, stato, comunità: per una economia e politica comunitaria, Milano 1952.

Olivetti [1956] 2013

A. Olivetti,Il cammino delle Comunità [1956], Roma-Ivrea 2013. Olmo 2001

C. Olmo (a cura di),Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica, Torino 2001.

English abstract

Marco Biraghi focuses on the concept of community, its different ambiguous meanings, among which stands Olivetti’s idea of a concrete community. Biraghi addresses the concept of community conceived as the foundation of society, a positive project of a physical, cultural and political space that shares much with that which emerges from the reflections of Jean-Luc Nancy and Roberto Esposito: a community based on absence, on the emptiness that allows the affirmation of the absolute individual. Concluding that “the present is moving between an

individuation that avoids any implication of boundedness with the other, and the impossible-inaccessible community”.