• Non ci sono risultati.

CAPITOLO III: L’ambiente e l’arte: personaggi attivi nella narrazione o

III.III Opera terza: Maia

L‟approdo all‟ideologia superomistica da parte di D‟annunzio negli ultimissimi anni del secolo, coincide con la progettazione di vaste e ambiziose costruzioni letterarie, che siano commisurate al compito di diffondere il verbo del “vate”.

Così, come si è visto, D‟Annunzio disegna cicli di romanzi, che però spesso non porta a termine; con intenti del genere affronta la produzione drammatica; nel campo della lirica vuole affidare la summa della sua visione a sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: un progetto di celebrazione totale.

Nel 1903 erano terminati e pubblicati i primi tre, Maia,

Elettra, Alcyone ma anche questa costruzione rimane incompiuta. Un quarto

libro, Merope, viene messo insieme nel 1912, raccogliendo le Canzoni delle

gesta d’oltremare, dedicate all‟impresa coloniale in Libia. Postumo fu poi

aggiunto un quinto libro, Asterope, che comprende le poesie ispirate alla prima guerra mondiale. Gli ultimi due libri, pur annunciati, non furono mai scritti.

Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario di oltre ottomila versi. L‟opera, già a colpo d‟occhio, presenta subito un‟evidente novità formale: D‟Annunzio non segue più gli schemi della metrica tradizionale né quelli della metrica barbara, ma adotta il verso libero e si susseguono senza ordine preciso i tipi di versi più vari, dal novenario al quinario, con rime ricorrenti senza schema fisso. Il fluire libero, irruente e concitato del verso risponde al carattere intrinseco del poema, che

104

si presenta come carme ispirato, profetico, pervaso di slancio dionisiaco e vitalistico (da qui il sottotitolo Laus vitae, Lode della vita).

L‟intento di D‟Annunzio è quello di un poema globale, che dia voce alla sua ambizione “panica”101, atta a raccogliere tutte le infinite e diverse forme della vita e del mondo. Ne deriva un discorso poetico tenuto su tonalità costantemente enfatiche e declamatorie, gonfie e ridondanti.

Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D‟Annunzio nel 1895. L‟”io” protagonista si presenta come eroe “ulisside”, proteso verso tutte le più multiformi esperienze, pronto a sprezzare ogni limite e divieto pur di raggiungere le sue mete. Il viaggio nell‟Ellade è l‟immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime, divino, all‟insegna della forza e della bellezza.

Dopo questa iniziazione, il protagonista si reimmerge nella realtà moderna, nelle ‹‹città terribili››, le metropoli industriali orrende, ma brulicanti di nuove, immense potenzialità vitali. Tutto è un confronto: il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l‟orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza, equivalente a quella dell‟Ellade, e i “mostri” del presente divengono luminose entità mitiche. Il poeta arriva così a inneggiare ad aspetti tipici della modernità quali il capitale, la finanza internazionale, i capitani d‟industria, le macchine, poiché esse racchiudono in sé possenti energie, che possono essere indirizzate a fini imperiali.

101

Pan era, per i greci, il selvaggio dio dei boschi e dei pascoli; figlio di Hermes era nato con zampe e barba di capra, vagando per le selve suonando la zampogna e aiutava i pastori a snidare le prede; era famoso per le sue imprese erotiche. Pan , inoltre, in greco significa “tutto”; da qui il sostantivo “panismo” e l’aggettivo “panico”, che indicano la concezione per cui tutti gli elementi della natura contengono un’essenza divina, un principio superiore a cui l’uomo deve aderire per entrare in sintonia con il mondo. E’ un’immersione totale nella vita della natura, tesa a captarne attraverso i sensi i palpiti e i richiami, fino ad identificarsi con essa.

105

Dopo la fuga estetizzante nella bellezza del passato, D‟Annunzio aveva affidato all‟intellettuale-superuomo il compito di intervenire attivamente nella realtà, aprendo la strada a una nuova élite, facendo rivivere la bellezza e l‟eroismo del passato in un nuovo Rinascimento e cancellando così un presente infame. Il superuomo dannunziano, infatti, si identifica per il disprezzo della vita grigia e volgare della massa, nella volontà di potenza, nella libertà dalle regole.

La contrapposizione alla realtà moderna era ancora violenta, radicale. Ora, con Maia, avviene una svolta importante: nel mondo moderno D‟Annunzio scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, l‟epica delle grandi imprese industriali e finanziarie. Ma, come dietro al vitalismo del superuomo si scorge pur sempre l‟attrazione morbosa per il disfacimento e la morte, così dietro a questa celebrazione dell‟epica eroica della modernità è facile intravedere la paura e l‟orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale che tende ad emarginarlo o a farlo scomparire del tutto.

Il superomismo, in modo particolarmente evidente in quest‟opera, si intreccia con la concezione di panismo, che raffigura l'uomo come parte inscindibile della natura. Condizione fondamentale affinché questa fusione, o perlomeno vicinanza, avvenga è che il “velo” che separa l'uomo dalla natura sia annientato.

Al centro dell‟opera vi è un messaggio di rinnovamento spirituale, che si può realizzare attraverso il recupero dei miti e della forza morale dell‟antichità greca in opposizione all‟imbarbarimento portato dal cristianesimo. I miti classici nella pagina dannunziana sono riscoperti e rivivono nell‟esaltazione dell‟aspetto dionisiaco della religiosità pagana, cioè dell‟ebbrezza irrazionale e istintiva che allude ad un contatto autentico con la natura e con le sue forze primordiali: ‹‹è in questa dimensione che si può ritrovare l‟uomo nella sua pienezza di essere in cui corpo e spirito

106

erano fusi armoniosamente, prima che la minaccia del peccato e la condanna della carne cancellassero l‟innocenza della vita vissuta in tutta l‟infinita e discorde, ma non dissolutrice, varietà delle sue esperienze››.102

Il riscatto dell‟umanità dalla degradazione della società borghese può avvenire solo con la rinascita del paganesimo dionisiaco che trasfigura nel mito l‟irrazionalità dell‟esistenza e il caos della natura. L‟asse portante dell‟opera è l‟impianto di miti antichi e di miti nuovi.

Già L’Annunzio celebra la poesia come rivelazione dell‟ignoto, come missione profetica che ripristina la grandezza dello spirito greco.

Come invasato dal dio Dioniso, il poeta, dopo i due componimenti introduttivi Alle Pleiadi e ai Fati e L'Annunzio, libera un canto entusiastico alla ‹‹Vita››, celebrandone con accenti sublimi la bellezza multiforme e terribile. Essa è un dono del dio Pan, concepito come il tutto vivente, sorgente di sensazioni intense e struggenti. I mille volti della ‹‹Vita›› appaiono come il simbolo dello sconfinato desiderio del poeta di assaporare la voluttà senza fine di tutte le cose.

‹‹O Vita, o Vita, dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face,

come la gorgóna, come la centàurea veste;

o Vita, o Vita, dono d'oblìo, offerta agreste, come un'acqua chiara,

102

Giovanni BARBERI SQUAROTTI , ‹‹Miti nella Laus Vitae››, in Verso l’Ellade dalla città morta a Maia, Ediars oggi e domani, Pescara, 1995 p.234

107

come una corona, come un fiale, come il miele

che la bocca separa dalla cera tenace;

o Vita, o Vita, dono dell'Immortale alla mia sete crudele, alla mia fame vorace, alla mia sete e alla mia fame

d'un giorno, non dirò io tutta la tua bellezza?››103

Nella prima strofa, all‟entusiastica invocazione iniziale rivolta alla vita, vissuta intensamente e paganamente come il dono del dio Pan, si intreccia una serie di penetranti similitudini. Esse evocano in un primo tempo immagini di violenza e di sangue, non prive di un certo gusto macabro, tipicamente decadente. Viene sottolineata la terribilità della vita, la cui esperienza si può trasformare in una spietata lotta superomistica. In un secondo momento, invece, per stemperare la tensione che si era creata all‟inizio, le similitudini successive suggeriscono immagini dolci e agresti. La strofa si chiude con la triplice invocazione alla vita, dono divino per la sete e la fame del poeta superuomo, sempre pronto a celebrarne la bellezza multiforme.

Il viaggio in Grecia è un lavacro e un‟iniziazione al nuovo mondo annunciato nella rinascita del mito pagano; scorrono nell‟opera le vicende fantastiche o storiche di dei e di eroi veri o immaginari, rivissute del loro moderno cantore. Episodi e figure si accavallano e incastrano in un

103

Gabriele D’ANNUNZIO, ‹‹Maia›› in Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, a cura di G. Oliva, Roma, Newton, 1995, vv. 1-21

108

‹‹profluvio di immagini e di erudizione persino scolastiche, come nell‟affollata sfilata olimpica del canto VI. Maia si presenta per intero qual è almeno alla sua origine: una periegesi, una guida fitta di citazioni più o meno letterarie ancor più che visive ››. 104

Plasmando un mito che esprima la rinascita dello spirito pagano in antitesi con il razionalismo moderno e con il cristianesimo, il poeta si affida alla figura di Pan; nella Laus vitae il dio diventerà colui ‹‹che conduce / ne‟ tempi il Ritorno eternale ››, trasposizione dell‟ideale di rinnovamento possibile attraverso il recupero della grandezza morale degli antichi. Divinità della natura selvaggia, Pan è la personificazione di principi contraddittori dell‟essere e della vita che la ragione non sa comprendere; ma è soprattutto ‹‹simbolo di un‟esperienza totalizzante alla quale è necessaria la tensione e la partecipazione dei sensi non meno della profonda adesione dello spirito alla bellezza della natura. […] La rinascita di Pan permette di contrapporre al mistero della croce cristiana un mito pagano di resurrezione››.105

Nel mito di Pan si intrecciano cristianità e paganesimo: esso sembra dare l‟avvio a immagini cristiane reinterpretate nelle forme della religione pagana, come se questa potesse rivestirle di un significato più autentico. L‟insistenza sulla formula francescana Laudato sii nella prima parte dell‟opera, allude a una religiosità spontanea e naturale, che divinizza gli elementi del cosmo. Il superamento del cristianesimo si compie nella Cappella Sistina, quando di fronte al Cristo del giudizio universale D‟Annunzio conosce la sua resurrezione da quella vera e propria morte dello spirito che è la vita corrotta e alienata della città borghese. Si scopre

104

Carlo CARENA, ‹‹La grecità in Gabriele D’Annunzio›› in Verso l’Ellade dalla città morta a Maia, Ediars oggi e domani, Pescara, 1995, p.13

105

109

così che anche la rinascita di Pan, iniziale nell‟opera, è anche prefigurazione di quella del poeta, che si immerge nel male ma che riscatta con una poesia che dona bellezza e libertà. D‟Annunzio non è solo profeta della nuova religione ma può sostituirsi a Cristo nel confortare il popolo:

‹‹Quivi rotto fu l‟altro pane: fu dato all‟unanime cuore il bene che supera tutti››106

La realtà a poco a poco scompare, ma miti spontanei popolano ancora la Grecia; in questo panorama di dubbio si presenta la figura del limitare, della soglia, del passaggio, visto come ‹‹ambiguo/tra il sogno e la vita››: Ermes è invocato come figlio di Maia, inviato sulla terra a udire e vedere le nuove meraviglie del mondo degli uomini. Queste meraviglie che vengono presentate a Ermes non appartengono alla natura, ma alle opere a all‟ingegno dell‟uomo. Il dio vedrà che ormai la terra intera è una piazza dove si guerreggia per la ricchezza e il potere; vedrà una ‹‹stirpe di ferro››, macchine pesanti che obbediscono docili a donne e bambini, che accelerano il lavoro.

Ermes è invocato da D‟Annunzio come ‹‹intercessore››, come ‹‹esule dio›› che fa da tramite tra la potenza dell‟uomo e della sua anima costruttrice di simboli e l‟anima del mondo attinta nella sua interezza soltanto dall‟arte, dalla poesia.

Ermes rivela l‟armonia di elementi contraddittori: nel suo stesso aspetto è presente l‟ambiguità, evidente nelle forme della statua di Prassitele, che esprime contemporaneamente ‹‹grazia femminea›› e vigore virile. Nell‟arte e nella storia egli suscita ciò che l‟ebbrezza dionisiaca

106

110

produce nell‟esperienza individuale. Solo dall‟adesione alla vita nella totalità dei suoi aspetti può formarsi quell‟‹‹opera diversa,/nata da un‟incognita febbre,/fatta di dolore e di gioia››, che è l‟arte. L‟eros è autentica comunione con la natura non ancora degradata dal cristianesimo a lussuria. Nella Laus vitae l‟esaltazione dell‟aspetto dionisiaco è affidata a frequenti visioni notturne e oniriche o ai riferimenti agli aspetti più oscuri e selvaggi della natura.

Il senso eroico della conoscenza e dell‟azione come incessante sfida all‟ignoto, sono temi fondamentali dell‟opera. Si può dire che l‟Ellade di

Maia rappresenti essenzialmente un momento di evasione estetica ma anche

di connotazione politica, una sintesi di classicismo e anticlassicismo. L‟autore ha colto dapprima sentimentalmente e autobiograficamente poi visionariamente e miticamente, l‟equivoco connubio che arresta l‟uomo al colmo di ogni delirio dei sensi e della mente, mostrando grecamente il nulla di ogni cosa.

Si può inserire, a questo punto, il calco formale che D‟Annunzio crea su Dante; in realtà, al pescarese, interessa prelevare la figura di Odisseo per farne qualcosa di ancora diverso di quello che Dante ne aveva fatto rispetto ad Omero: ‹‹un eroe della navigazione dell‟anima dietro i fantasmi del proprio Desiderio e della Forza, qualcuno da poter opporre››.107 La lode della vita mette a suo fondamento che più della vita è necessario ‹‹navigare››, saper affrontare il mare e tracciare una rotta, saper inseguire i propri sogni e i propri desideri sino ad affrontare ogni tempesta, proprio come Ulisse, colui che spinse ‹‹la carena della propria nave contro i pericoli dietro la sua anima fatta sirena finché il mare non si richiuse sopra di

107

Giuseppe CONTE, ‹‹Maia ed Ermes›› in Verso l’Ellade dalla città morta a Maia, Ediars oggi e domani, Pescara, 1995, p.104

111

lui››.108 L‟anima è l‟energia che incessantemente cerca di produrre da sé, dalla sua sostanza, la potenza dei simboli:

‹‹Ma l‟anima umana non vive se non del suo sforzo incessante

per effigiarsi su tutte le cose come sigillo››

E‟ l‟energia che muove quegli uomini che danno il significato ed esistenza al mondo attraverso le proprie lotte e il proprio canto:

‹‹Sol degno

è che parli innanzi alla notte chi sforza il Mondo a esistere nelle sue lotte e lo esalta con la sua lira››

La parola diventa energia mitico-musicale, la poesia diventa profezia di una consacrazione estetica della vita e del mondo.

Ulisse è l‟eroe della conoscenza evocato di nuovo nella ‹‹fiamma cornuta›› che ne avvolgeva l‟ombra di dannato; tuttavia, il fuoco che lo consuma non allude più a una condanna e a un fallimento ma si è trasformato nel simbolo tipicamente dannunziano della potenza creatrice e dell‟eroismo di un‟inesausta sfida all‟ignoto, infinitamente superiore all‟illusoria consolazione cristiana di una salvezza ultraterrena che possa riscattare il destino materiale. La curiosità dell‟Ulisse dannunziano, la tensione continua al superamento dei limiti non si arresta di fronte

108

112

all‟invisibile mistero divino, e nemmeno di fronte alla percezione della finitezza umana. L‟entusiasmo pagano e superomistico di Odisseo corrisponde all‟irrazionalità dell‟esperienza dionisiaca, all‟adesione panica alla vita nella totalità delle sue forme; nel poema, Ulisse, si incarna in nuovi eroi, ma soprattutto nello stesso D‟Annunzio si sforza di dimostrare che il mito può rinascere: a partire dalla crociera in Grecia, che segue le tappe di una nuova, inimitabile odissea.

Il poeta sostiene che la rifondazione della società sia possibile solo attraverso la ricostituzione di una poesia epica da opporre alla mitologia cristiana.

Intuire la presenza delle sostanze divine entro la materia terrestre resta l‟obbiettivo di conquista del poeta-nauta, che si propone così di poter a sua volta ‹‹trarre una vita divina/dalla faticosa materia››.109

Nel reale mondo moderno, contemporaneo al poeta, non è semplice però rivedere la luminosità dell‟arte degli antichi e la bellezza del mondo naturale, in mezzo all‟‹‹immondizia/polverosa che nera/fermenta sotto le suola››:

‹‹Vesperi di primavera, crepuscoli d'estate, prime piogge d'autunno croscianti su l'immondizia

polverosa che nera fermenta sotto le suola fendute onde si mostra

il miserevole piede umano come tòrta

109

113

radice di dolore divelta; rigùrgito crasso delle cloache nell'ombra

della divina Sera,

tumulto della strada ingombra ove tutte le fami

e le seti irrompono a gara d'avidità belluina per la forza che impera e partisce i beni col ferro,

da voi sorgere io vidi non so quale orrida gloria.

Gloria delle città terribili, quando a vespro

s'arrestano le miriadi possenti dei cavalli che per tutto il giorno fremettero nelle vaste macchine mai stanchi, e s'accendono i bianchi globi come pendule lune

tra le attonite file dei platani lungh'esse

le case mostruose dalle cento e cento occhiaie,

e i carri su le rotaie stridono carichi di scòria

umana scintillando d'una luce più bella

114

che la luce degli astri, e ne' cieli rossastri grandeggiano solitarie le cupole e le torri!››110

In questi versi il poeta collega il canto di sterminio che viene dai campi di battaglia greci a quello non meno feroce ma assolutamente privo di eroicità che viene dalle ‹‹città terribili››, cioè le moderne città tentacolari, la cui angosciante visione lo riporta alla squallida realtà della vita quotidiana. La città, infatti, è il luogo dove Pan è assente e dove invece abitano gli uomini qualunque, che si affannano come bestie per la sopravvivenza. Il poeta-superuomo è lontano da essi e guarda con sdegno la realtà cittadina, benché in essa sia pur sempre in grado di cogliere ciò che alla massa non è concesso, cioè il suo attimo di gloria: il poeta infatti riconosce nel carattere artificiale e degradato della città i tratti superiori del mondo naturale. La città è un luogo infernale, sporco, maleodorante, contrapposto specularmente alla natura; come la città è il luogo della plebe, così la natura è il luogo incontaminato dove il poeta realizza, da solo, il suo destino di “eletto”.

In conclusione dell‟opera, con Maia si ha una svolta nella concezione dell‟intellettuale che non deve più fuggire dalla realtà bensì riscoprire una segreta bellezza in quest‟ultima ed esaltarne alcuni aspetti anche se intravede la paura e l‟orrore della sua condizione di letterato umanista.

110

115

CONCLUSIONI

Nel breve lavoro eseguito, in cui ho preso in causa tre delle opere dannunziane, Il piacere, Il fuoco e Maia, mi sono soffermata in modo particolare sulla visione dell‟ambiente, e sulla presunta partecipazione alle vicende, e sul ruolo dell‟Arte, intesa come Bellezza vera.

Analizzando le opere seguendo l‟ordine cronologico, ho potuto costatare che i due protagonisti dei romanzi sono molto diversi nonostante sembrino molto simili al primo approccio. La loro fondamentale diversità sta nel fatto che Andrea Sperelli, nel Piacere, può essere definito esteta più che artista: la sua è sostanzialmente una ricerca del bello esteriore; Stelio Effrena, invece, già dalla sonorità del nome evoca qualcosa che va al di là del tangibile, quasi similare alle stelle: egli è “senza freni”, genio creativo e artista. Ciò che accomuna i due giovani, abitanti in trame e scenari diversissimi, è che le loro azioni trovano il loro specchio nell‟ambiente circostante, naturale o artificiale che sia.

Il piacere, ambientato prevalentemente nella città di Roma, è quasi un

alter ego del personaggio: maestosa e artistica, la grande capitale accompagna il protagonista per tutta l‟opera e si trasforma, o comunque presenta dei lati di sé, in base alle inflessioni intime di Andrea. Solo la seconda parte del romanzo trova come scenario la campagna, fuori dall‟ambiente cittadino, presso villa Schifanoja, in un paesaggio totalmente naturale. Qui la natura è madre consolatrice, allevia i dolori fisici e morali dell‟uomo, che nel frattempo aveva preso coscienza di sé dopo l‟abbandono dell‟amante, è testimone attiva della speranza di redenzione per il giovane. E‟ addirittura terreno fertile per un nuovo amore, puro e platonico, lontano

116

dalle tentazioni della carne. Purtroppo però il cambiamento interiore sperato non avviene, tanto che al suo ritorno nella città tentatrice, i vizi riemergono fortemente.

L‟ambiente quindi segue le vicende della trama interagendo,

Documenti correlati