Scarso allineamento degli orari tra i vari servizi e incerta adattabilità degli orari ai bisogni degli utenti (specie dei servizi comunali e statali), mentre la massima flessibilità è ordinaria nel lavoro della cooperazione sociale, pur in assenza – in genere – di meccanismi contrattualizzati di flessibilità positiva (banca ore, recuperi, permessi e congedi aggiuntivi). In Questure e Prefetture si registra una maggiore rigidità dell’orario di lavoro, salvo picchi di attività. Si segnala la necessità di aggiornamento della strumentazione e dei sistemi informativi, e omogeneità delle banche dati. Scarsa valorizzazione delle competenze nel settore pubblico, polifunzionalità non certificata e a volte sostitutiva. Il personale della cooperazione è coinvolto in una dimensione ambivalente: tra percorsi di crescita sul tema immigrazione e assegnazione improvvisata specie tra le qualifiche più basse (es. dal lavoro di assistenza ad anziani e non autosufficienti ai centri di accoglienza per migranti).
Scarsa rilevanza di percorsi ascendenti dei lavoratori, specie per gli addetti degli sportelli e degli uffici rivolti ai cittadini. Limitata – e comunque inferiore alle potenzialità – acquisizione di competenze anche negli Enti centrali e nei Ministeri che pure sono promotori di progetti di integrazione e movimentano risorse consistenti di fonte europea (Fondo sociale europeo, Pon e Por tematici, progetti Fami) a causa dell’utilizzo di risorse specialistiche di altri enti/agenzie pubbliche e anche da parte di società di consulenza private. Nel
complesso, specialmente nei comparti pubblici si lamenta una scarsa, o assente, mobilità professionale, anche a fronte dell’acquisizione di titoli di istruzione specialistica o formativi sul tema immigrazione.
Un aspetto connaturato alla specifica organizzazione e gestione del lavoro nei servizi per l’immigrazione delle Amministrazioni centrali è la rigidità relativa alla mobilità interna.
“in Questura siamo 12 a tempo determinato, nel campo dell’immigrazione, siamo rimasti solo noi, i poliziotti sono tutti andati via. Quindi il turn over esiste per esigenze particolari, oppure molti sono fuori sede quindi passato il periodo obbligatorio di permanenza all’interno della Questura poi ognuno chiede il trasferimento.” (L.G., operatore, Questura Bologna, Emilia Romagna)
“A noi adesso è vietata la mobilità, il riconoscimento dell’anzianità di servizio, formalmente ci hanno scritto che noi siamo stati assunti per l’immigrazione e quindi rimarremo fino a cessate esigenze” (A.P., operatrice, Prefettura Roma, Lazio)
“E’ un’area in cui difficilmente si trovano volontari, c’è qualche “punito” che viene là, abbiamo 4 aggregati fortunatamente, gente che viene da fuori, palermitani che hanno interesse per cui abbiamo questa formula, perché trasferimenti non ce ne sono…” (S.L., operatore, Prefettura Palermo, Sicilia 2) “Non c’è un gruppo specifico nel senso che è stata data questa incombenza a turno a tutti i funzionari amministrativi della Prefettura, perché chiaramente non c’è nessuno che si è offerto volontario essendo una cosa considerata un po’ penalizzante” (S.C., operatrice, Prefettura Ferrara, Emilia Romagna)
Oltre a provocare evidenti effetti disfunzionali sui servizi stessi, l’assenza di mobilità interna appare lo specchio di una visione emergenziale dei fenomeni migratori (con lavoratori e lavoratrici assegnati “fino a cessate esigenze”), fenomeni sociali non ancora pienamente compresi nella cornice dei processi strutturali di mobilità globale delle persone e della forza lavoro.
Paradossalmente le competenze e le specializzazioni acquisite nel corso di lunghe carriere, anche pluridecennali, non consentono una progressione o comunque una mobilità interna dei lavoratori. Avviene semmai il contrario, e cioè in assenza di turn-over il personale dotato di maggiore competenza resta in genere relegato al settore e al servizio di competenza. Gli effetti immediati possono essere positivi, perché in tal modo si garantisce il mantenimento delle conoscenze e delle competenze in possesso del singolo lavoratore; ma nel lungo termine questa gestione delle risorse umane risulta depauperante per l’intero servizio:
“l’organizzazione del lavoro non è un granché in nessuno degli uffici della Prefettura, nel senso che comunque siamo tutte persone di una certa età, non c’è un turn over ma per una questione utilitaristica perché fa comodo avere una persona, ipotesi, al codice della strada, alle patenti, che sta lì da 30 anni per cui è la memoria storica e sa perfettamente tutte le pieghe della legge, per cui magari non viene spostata per questo motivo e altri invece magari vengono spostati continuamente… diciamo che non è molto presente un processo partecipativo, che tu sia volente o nolente ci devi andare punto, poi certo se una persona ci va volentieri è più utile a livello di produttività e questo è un aspetto non particolarmente considerato” (S.C., operatrice, Prefettura Ferrara, Emilia Romagna)
La flessibilità della prestazione lavorativa è in genere presente, specie in relazione a picchi di attività e alle cosiddette emergenze. Per i lavoratori pubblici impegnati nei servizi per l’immigrazione appare una richiesta
di reperibilità o attivazione in emergenza maggiore di quella rivolta ai colleghi occupati in altri settori o dipartimenti delle stesse amministrazioni. Per quanto in forme e in misura diverse, ciò accade sia per i lavoratori degli Enti pubblici sia della cooperazione sociale:
“L’orario ufficiale è dalle 15 alle 18-19 ma sforiamo sempre perché non viene mai mandato via nessuno, facciamo solo un mercoledì a settimana e quindi sarebbe triste. Teoricamente non diamo numero di telefono ma in realtà lo diamo perché siamo noi il loro punto di riferimento; io ho il privilegio di poter lavorare in pronto soccorso quindi cose che non mi convincono, situazioni più delicate riesco ad adattarle facendoli arrivare qua.” (B.G., medico, Pavia, Lombardia)
“Ingresso e uscita sono molto flessibili, da questo punto di vista ci si viene incontro, riesco a gestirmelo meglio l’orario, lo straordinario lo pagano. La flessibilità è in particolare nel mio servizio perché c’è proprio bisogno di una certa flessibilità, se c’è bisogno di andare in ufficio anche il sabato me lo chiedono e vado, non è scritto da nessuna parte ma se c’è bisogno me lo chiedono e vado e il bisogno non è così necessario tanto da dare una turnazione contrattata. Per il recupero abbiamo il nostro programma e decidiamo noi se mettere recupero, ferie o straordinario, non mi fanno problemi.” (A.F., operatore, Prefettura Milano, Lombardia)
“ognuno di noi ha un cellulare di servizio quindi si può telefonare sempre sabato mattina, venerdì sera, riunioni sempre straordinari non ne pagano. Se stai a casa una settimana quando torni nel giro di dieci minuti sei carico di nuovo di lavoro, noi non siamo neanche intercambiabili per cui se manco io il lavoro mio sta lì, il problema è delle persone perché si fermano per cui anche lì trovare una giusta misura non è facile, non siamo un pronto soccorso non siamo in emergenza ma questa cosa l’amministrazione fa fatica a capirla.” (D.R., assistente sociale, comune di Cassano d’Adda, Lombardia)
“E’ una grandissima attività che si fa con un enorme sforzo, noi il 29 dicembre abbiamo avuto il Fondo nazionale di politiche migratorie, che deve essere impegnato entro l’anno e io il 29 dicembre sono andata via alle 9 di sera perché era finita la mia parte di lavoro poi bisognava caricare i programmi, i titoli ma i soldi sono arrivati quel giorno da impegnare entro la fine dell’anno, quindi il sistema è un po’ questo, viviamo molto nell’ombra, nel frattempo continuano a darci dei soldi, a chiedere progettazioni e programmazioni, c’è un bellissimo sistema molto poco conosciuto però molto del nostro lavoro dipende dalla forza-lavoro che ci viene data dai servizi soprattutto.” (C.D.M., funzionario, ministero del Lavoro e delle politiche sociali)
Peraltro, queste specificità possono risultare anche disincentivanti o produrre effetti opposti alle necessità dei servizi; ad esempio rafforzando una resistenza al cambiamento, quando non motivata e semmai distante dai bisogni dei lavoratori stessi:
“faccio un po’ l’avvocato del diavolo, ipotizziamo che da domani avremo tutti i servizi informatici necessari per fare bene il nostro lavoro, i Macintosh di ultima generazione, li metti sul tavolo del collega e questo per i primi sei mesi non saprà come usarli, quindi messe da parte le eccezioni c’è anche una resistenza da parte di tutti noi, è inutile insistere troppo, anche da me la media dei colleghi supera i 50 anni di età, tanti hanno mille problemi a cui stare dietro e non hanno nessuna intenzione di imparare cose nuove, è un dato di fatto ed è una fetta molto grande di persone, perché d fatto non ne hanno bisogno di imparare cose nuove.” (A.F., operatore, Prefettura Milano, Lombardia)
Nella gestione ordinaria del lavoro, gli orari di apertura al pubblico non incontrano generalmente i bisogni degli immigrati e degli utenti. Di conseguenza sono elevati i carichi di lavoro, in un cortocircuito tra disponibilità di operatori in servizio e domanda del territorio:
“Vi spiego lo stabile in cui lavoro perché in un certo qual modo racconta la storia della nostra realtà. Era una vecchia caserma abbandonata da anni e quando si è dovuto aprire l’ufficio cittadinanza hanno ristrutturato la parte interna e ci hanno portati lì, con disagi enormi dal punto di vista logistico: mancano le sale d’aspetto, la distinzione tra back office e front office, e in certe situazioni diventa particolarmente gravoso, però lavoriamo in queste condizioni. […] perché ad adibire a quel servizio sono stati presi gli ex interinali? Perché del personale normalmente in servizio presso la Prefettura non c’era nessuno e questo non solo per l’aspetto logistico di Brescia, Brescia aveva anche quest’aggravante. Abbiamo un’utenza enorme e lo sportello lo apriamo tre volte alla settimana, altro argomento che, secondo me, non incontra adeguatamente le esigenze dell’utenza.” (M.C., operatrice, Prefettura Brescia, Lombardia)
“Sicuramente siamo una delle aree più sotto pressione della Prefettura, su questo non c’è dubbio; mi dispiace dirlo, io che ci lavoro, però è così. Io ho lavorato in diverse aree della Prefettura e sicuramente non era così. Noi apriamo lo sportello 2 o 3 volte alla settimana, a seconda delle necessità, e non sappiamo mai quando si chiude, alle 14, alle 15, non lo sappiamo mai perché una volta che sono lì non li mandiamo mai via ed è una situazione unica almeno all’interno della Prefettura. Poi c’è stato il periodo degli sbarchi, ovviamente senza orari, quindi c’è un po’ la preoccupazione di venire in questa area anche perché, ripeto, sono tutti colleghi di una certa età, ed è pesante.” (S.L., operatore, Prefettura Palermo, Sicilia 2)
In qualche misura, il tema della valorizzazione professionale – non solo a proposito della mobilità, ma anche del potenziamento e della crescita delle risorse interne – rappresenta un punto critico sottolineato dai lavoratori a diversi livelli.
“Io vedo che non c’è proprio una programmazione che al Ministero ci porti ad avere una competenza professionale tale da poter non dico sostituire, ma almeno… che ne so… alle riunioni al Ministero degli Interni ci vanno gli esterni, da noi l’assistenza tecnica sono gli esterni. Io sono stata in Moldavia per definire un accordo di cooperazione, ma io affiancavo la funzionaria di Anpal Servizi.” “Si, io adesso sono in quella fase in cui ho capito come funziona e ti viene voglia di fare di più, ma se alle riunioni non ci porti i tuoi funzionari ma ci porti gli esterni è inutile. E’ importante che ci porti loro perché fanno un lavoro che noi non saremmo in grado di fare da soli adesso, però ci sono solo loro che rappresentano il Ministero, vanno a Bruxelles…” (C.D.M., funzionario ministero del Lavoro e delle politiche sociali)
“Secondo me loro le professionalità specifiche non le hanno mai cercate perché si presume che se tu hai bisogno di figure professionali specifiche all’interno di una struttura che ha 6 mila dipendenti potresti fare un interpello per sapere se c’è qualcuno che all’interno che ha le competenze che tu richiedi e ti garantisco che non l’hanno mai fatto e qualora ci fosse stato qualcuno che le avesse avute non l’avrebbero preso perché loro volevano avere la libertà di prendere chi volevano, perché comunque il contratto esterni ti consente una flessibilità soprattutto quando tu poi metti dei requisiti costruiti ad hoc intorno a determinate persone e alla fine assumi chi ti pare.” (M.P., operatrice, Ispettorato lavoro)
Viceversa, nella cooperazione sociale la spinta alla polivalenza non solo è auspicata e sostenuta, ma anche considerata necessaria per essere competitivi nell’assegnazione dei servizi e sostenibili sotto il profilo economico-finanziario.
“Alla fine, bene o male, tutti fanno un po’ tutto perché se arrivo in una casa e trovo un ragazzo che mi dice sono due giorni che non riesco a dormire perché ho questo che mi fa male, prendo la tessera sanitaria e lo porto in ospedale perché non posso aspettare due giorni se il collega non è disponibile a farlo. Quindi ci sono i compiti ma nella realtà pratica di tutti i giorni, alla fine, ci si ritrova tutti a fare un po’ di tutto.” (G.K., operatore cooperativa, Garlasco, Lombardia)
Oltre ai temi dell’organizzazione del lavoro legati al raggiungimento degli obiettivi del servizio, vi sono aspetti relativi al benessere organizzativo – inteso nel senso di condizione di maggior efficienza produttività coniugata col benessere dei lavoratori – che al contrario rimangono generalmente trascurati, con l’eccezione di alcuni servizi specialistici all’avanguardia:
“il nostro settore è abbastanza curato come organizzazione del lavoro, è logico che in alcuni momenti in cui c’è carenza di personale c’è stress, però mi pare che per quanto riguarda la sicurezza lavorativa legata all’organizzazione del lavoro, almeno per quanto mi riguarda non vedo criticità, è logico che capita che ci siano operatori che lavorano per molto tempo a contatto con la sofferenza, il servizio psichiatrico di diagnosi e cura per esempio dove noi a volte ricoveriamo molti stranieri. Chi lavora lì diventa molto competente ed esperto, fa fatica dopo 30 anni, probabilmente un ragionamento su una mobilità, che non è così semplice perché spesso i posti di lavoro sono legati ad una indennità.” (E.M., operatrice, Ausl Ferrara, Emilia Romagna)
Oltre a questi aspetti, non marginali risultano i problemi di carenza strutturale, relativi a strumenti di lavoro, forniture per gli uffici e attrezzature, che si sommano al disagio per gli ambienti di lavoro e di accoglienza già segnalati nelle pagine precedenti.
“in ufficio da me ci rubano anche le sedie, ne abbiamo pochissime, ci manca tutto, oggi in ufficio andavo alla ricerca di carta da riciclare perché dovevo stampare una cosa e non avevo un foglio di carta, nemmeno uno! Per fortuna che con le mie colleghe sappiamo ridere e scherzare, riusciamo a trovare il comico in tutte le situazioni più inverosimili e questo ci salva.” (L.C., assistente sociale, comune Palermo, Sicilia 2)
“Noi abbiamo strumenti che sono spaventosi, io ho un computer che era il computer del dirigente che da anni non c’è più, che è stato assemblato; abbiamo dei computer che a volte impieghiamo 20 minuti ad avviare. Questo è pazzesco perché non abbiamo neanche degli strumenti che servono al nostro lavoro, strumenti vecchissimi.” (G.F., operatrice, Questura Milano, Lombardia)
In questo contesto, lo stesso riconoscimento professionale viene messo in discussione, per quanto con espressioni assai diverse tra Enti pubblici e cooperazione sociale.
“Il turn over degli operatori nelle comunità è una cosa terrificante intanto perché agli enti gestori, che non hanno un’etica loro di fondo interessata veramente al sociale, non gliene frega niente «se non ci vuoi stare vattene che me ne trovo un altro», perché sul mercato c’è poco lavoro ed educatori ce ne sono tanti e il più delle volte donne e alle prime esperienze, le quali si trovano ad avere a che fare con quattordici-diciottenni che se litigano nemmeno li possono separare, che ci mettono il cuore anche se c’è gente che si fa la propria formazione, ma comunque ci devono campare famiglie. Ogni tanto ci sono cambiamenti che in qualche maniera interrompono, spezzano i percorsi e destabilizzano i ragazzi, ci sono delle comunità che nel giro di due anni hanno cambiato almeno 4-5 responsabili, senza poi contare le chiusure delle comunità. Ci sono dei poveri ragazzi che da quando sono arrivati hanno cambiato almeno 4 comunità perché di volta in volta chiudevano e bisognava trasferirli. Non si può capire…” (L.C., assistente sociale, comune Palermo, Sicilia 2)
“Siamo una categoria in cui facciamo fatica a far capire bene agli altri il lavoro che si fa, io lo vivo come un mio limite personale, io non so se al ministero è pure così, forse ce l’abbiamo come tara professionale, facciamo fatica a far passare il lavoro che noi facciamo, ci proclamiamo tecnici della comunicazione - in qualche articolo la categoria si è autodefinita così – però non sappiamo raccontare agli altri il lavoro che si fa, chi lavora a fianco a noi lo vede o lo capisce, però non sempre ci riusciamo e la categoria dirigenziale amministrativa è una categoria con cui c’è difficoltà e in questo momento storico la dirigenza del settore fa fatica.” (L.C., assistente sociale, comune Palermo, Sicilia 2)
Anche il tema della retribuzione è entrato nelle riflessioni degli operatori e delle operatrici. Per tutti i lavoratori, sia pubblici sia della cooperazione, la riflessione sulle retribuzioni si lega in ogni caso a quella sulle motivazioni personali e professionali.
“noi contrattualizzati con le cooperative sociali non è che guadagniamo milioni di euro per cui molto spesso ci sono ritardi nelle erogazioni e quant’altro, per cui se uno pensa alla propria vita privata, alle mancate soddisfazioni a livello di retribuzione, o hai un certo tipo di motivazione per cui non riesci. Anche i dipendenti pubblici che si interfacciano con noi non vengono pagati milioni di euro quindi anche per loro è una situazione molto complicata.” (F.P., responsabile CAS, cooperativa, comune Pomezia, Lazio). “io faccio un lavoro per cui sono arretrata di un anno con lo stipendio, guadagno 10 euro l’ora, sono costretta ogni 15 giorni ad andare dallo psicologo perché altrimenti vado in tilt e poi il mio vicino di casa mi dice tu ti arricchisci con gli immigrati… non è il massimo della vita, se non ci fosse un po’ di passione non lo farei.” (operatrice legale, consorzio cooperative sociali, Rieti, Lazio)
Tuttavia, la dote di motivazioni e competenze portata dai lavoratori rischia di logorarsi e, alla lunga, esaurirsi, se non valorizzata e tutelata adeguatamente.
“Io arrivo lì dopo un master in diritto dell’immigrazione, quindi inizialmente ho scelto, era qualcosa che mi interessava e che volevo approfondire, capisco anche il collega o la collega che voleva fare l’impiegato della Prefettura e si trova ad avere a che fare quotidianamente, perché gli enti fanno un filtro fortissimo, però se dopo X anni anche chi aveva delle motivazioni e delle competenze che sapeva di poter sfruttare, competenze che però si vanno affievolendo perché non c’è nessun tipo di formazione, nessun tipo di aggiornamento, di motivazione e chiaramente vanno decadendo e la motivazione va lasciata al singolo, a maggior ragione chi non aveva una motivazione specifica si trova ancora più in difficoltà e queste cose poi si vedono nel rapporto con gli utenti.” (C.C., operatore, Prefettura Piacenza, Emilia Romagna)
La carica ideale, la passione civile e le motivazioni dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte nei focus group offrono anche una nota confortante per chi, con gli strumenti della ricerca e la titolarità della rappresentanza sindacale, ha avviato questo percorso di coinvolgimento degli operatori di un settore così cruciale per il benessere e i diritti di milioni immigrati e nuovi cittadini europei.
“Poi io sono molto legata a questo impegno, motivo per cui ho fatto la notte ma ho voluto venire in tutti i modi per partecipare a questa discussione, sono anche una volontaria di Emergency, ho fatto 5 progetti con loro, ho partecipato qualche volta al “politruck” di Milano [ambulatorio mobile di Emergency, Ndr], sono stata 4 volte in Sicilia, ho fatto quindi l’esperienza del centro di prima accoglienza all’Umberto I di Siracusa, ho visto il centro di accoglienza per i bambini di Augusta che poi, grazie al cielo, hanno chiuso; ho fatto l’esperienza dello sbarco ad Augusta e l’anno scorso, a giugno per il breve tratto che è durato - io sono stata una dei due medici che hanno aperto l’esperienza - il soccorso in mare nel Mediterraneo.” (B.G., medico, Pavia, Lombardia)
“In questa consapevolezza di crescita continua devi capire che quando noi conosciamo e veniamo a contatto con queste condizioni, facciamo un viaggio anche dentro la nostra mente, dentro il nostro immaginario collettivo. Quindi il confronto con la persona che viene da fuori è un confronto continuo con la tua anima, con il tuo modo di conoscere e di crescere. E’ questo lo spirito […] completato da questo momento di impatto fortissimo che abbiamo vissuto al porto, un grande impatto di conoscenza emotiva, di scambio, di supporto con gli psicologi dell’emergenza, di comunione con gli altri in senso laico […] Quindi quello a cui abbiamo tenuto è riconoscere la persona e dirgli che qui ha gli stessi diritti, dal punto