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Origini e problemi terminologic

È evidente da quanto detto finora, come ad Atene, e in generale nel mondo greco, la maggior parte delle decisioni fossero prese tramite voto per alzata di mano. Talvolta, però, non era utilizzata la cheirotonia e organi come l’assemblea e il consiglio esprimevano il loro voto depositando una psephos, ossia un «ciottolo», una «pietruzza», un «sassolino», in urne che si trovavano nel luogo deputato alla votazione. Questa procedura di votazione era chiamata psephophoria, termine derivante appunto dall’utilizzo di psephoi come suffragi222.

La prima traccia a noi nota di tale modalità di votazione si ha ad Atene, ove si ammetti che le tragedie riflettano – anche in questo caso e ancorché in modo indiretto – procedure in uso nella città223, si ha nelle Eumenidi di Eschilo, tragedia che, con l’Agamennone e le Coefore, costituisce la trilogia dell’Orestea, datata al 458 a.C.

Durante il processo intentato contro Oreste, accusato di avere ucciso la madre per vendicare la morte del padre Agamennone, la dea Atena ordina ai giudici del neocostituito Areopago di deporre il loro voto in urne all’uopo predisposte224:

ὀρθοῦσθαι δὲ χρὴ καὶ ψῆφον αἴρειν.

ma è necessario alzarsi e deporre il voto.

Una volta che i giudici hanno votato, la stessa Atena dà il suo voto in favore di Oreste225:

ψῆφον δ᾽ Ὀρέστῃ τήνδ᾽ ἐγὼ προσθήσομαι

222 Chaintraine, DELG s.v. ψηφοφορία, pp. 1289. 223 Cfr. Musti 1995, p. XVI.

224 Aesch. Eum. 708-709. Per la presenza delle urne vd. infra. 225 Aesch. Eum. 735.

io aggiungerò questo voto in favore di Oreste.

Dopodiché si procede all’estrazione dei suffragi dalle urne226:

ἐκβάλλεθ᾽ ὡς τάχιστα τευχέων πάλους, ὅσοις δικαστῶν τοῦτ᾽ ἐπέσταλται τέλος.

Estraete al più presto le sorti dalle urne, o giudici cui fu affidato tale incarico. [Trad. M. P. Pattoni]

Si tratta di versi molto importanti, in quanto forniscono, il primo esempio – a noi noto – di votazione condotta con psephoi e non tramite cheirotonia.

Prima di affrontare qualsivoglia problema relativo al significato e al funzionamento della psephophoria nel mondo greco, è opportuno dedicare un’attenzione particolare alla terminologia che, tanto nelle fonti letterarie quanto nei documenti epigrafici, contraddistingue tale sistema di voto.

Come si è visto nel capitolo precedente, per indicare l’azione del votare sono utilizzati il verbo cheirotonein oppure il verbo psephizesthai: il primo, in riferimento alla procedura della cheirotonia, la votazione per alzata di mano; il secondo, alla procedura della psephophoria.

Pur consapevoli dell’esistenza di due diversi sistemi di votazione, ad Atene come nel resto del mondo greco, è inevitabile domandarsi se nell’utilizzo dei due termini –

psephizesthai, «votare con il sasso», e cheirotonein, «votare alzando la mano» – ci sia

stata una reale distinzione o se, ben presto, entrambi abbiano assunto il più generico significato di «votare», senza un necessario richiamo alla procedura seguita.

A tal proposito, Domenico Musti, discutendo dei «modi della votazione», individua nelle Supplici di Eschilo – quindi già a partire dalla prima metà del V secolo a.C. – un uso del più generico psephizesthai al posto del più specifico cheirotonein227: al v. 640 si legge, infatti, che ψῆφον δ᾽ εὔφρον᾽ ἔθεντο («deposero un voto giusto»), mentre i vv. 643 ss. riferiscono che le Danaidi οὐδὲ μετ᾽ ἀρσένων ψῆφον ἔθεντ᾽ ἀτιμώσαντες («non hanno espresso il loro voto in accordo con i maschi»). L’azione del votare, in questi due casi,

226 Aesch. Eum. 742-743. 227 Musti 1995, p. 29.

non è espressa dal verbo psephizesthai, ma da una perifrasi composta dal sostantivo ψῆφος e dal verbo τίθημι, perifrasi che, recando in sé il sostantivo psephos, renderebbe esplicito il riferimento alla procedura della psephophoria; tuttavia, ambedue i casi si riferiscono alla precedente votazione con la quale gli Argivi hanno deciso se venire in soccorso delle figlie di Danao, costrette ad andare in spose ai figli di Egitto: votazione, questa, che sappiamo essere avvenuta per alzata di mano. Di qui si è portati a concludere che a ψῆφον ἔθεντο deve quindi essere stato attribuito un valore metaforico, simbolico.

Tuttavia, non mancano casi che testimoniano di un uso ‘letterale’ di psephizesthai. Si può pensare, ad esempio, al passo di Erodoto (9, 55) in cui si parla della lite scoppiata tra alcuni capi spartani poco prima dell’inizio della battaglia di Platea, in merito alla strategia da seguire e alle posizioni da mantenere. Alcuni, affinché gli Spartani non siano esposti al pericolo, propongono una ritirata strategica: ma a questo si oppone con forza Amonfareto, al comando dell’esercito spartano, il quale, nel corso del litigio, afferrato con le mani un grande blocco di pietra, lo depone al cospetto di Pausania – re di Sparta, a capo della lega ellenica – dicendo che «con quel sasso votava di non fuggire di fronte agli stranieri» (ταύτῃ τῇ ψήφῳ ψηφίζεσθαι ἔφη μὴ φεύγειν τοὺς ξείνους)228. Il passo in questione appare significativo non soltanto per il più che evidente uso letterale del verbo

psephizesthai, nel senso cioè di votare tramite psephoi, ma anche per l’inequivocabile

riferimento alla procedura di voto impiegata, sovente, dagli Ateniesi, mentre è più che noto che a Sparta il sistema di voto utilizzato era quello per acclamazione. Si tratta certamente di un passo dalla valenza simbolica e, allo stesso tempo, iperbolica, dal momento che Amonfareto, per esprimere la propria opposizione alla ritirata pensata dagli altri capi spartani, utilizza non un sassolino, come era consuetudine per gli Ateniesi, bensì un enorme macigno. L’utilizzo, da parte di Amonfareto, di un sasso per esprimere il proprio dissenso può spiegarsi con la presenza dell’araldo ateniese – sotto i cui occhi si svolge l’intera scena –, al quale il capo spartano (forse anche Erodoto?) vuole rendere omaggio, ironizzando e mettendo in pratica una procedura di voto agli Ateniesi ben nota; la grandezza e il peso del sasso utilizzato, invece, potrebbero rappresentare la fermezza e la sicurezza con cui Amonfareto manifestava e manteneva la propria posizione riguardo al dibattito appena verificatosi. Nel passo è possibile scorgere anche una velata

contrapposizione tra i due sistemi di voto, quello spartano e quello ateniese: il macigno potrebbe rappresentare, ironicamente, la superiorità della procedura di voto ateniese, quella con le psephoi, rispetto a quella spartana, di certo più primitiva e meno garantistica. Attraverso un’attenta lettura di diverse fonti letterarie ed epigrafiche è stato possibile rilevare che, se cheirotonein è da intendere letteralmente, nel senso che con esso ci si riferisce sempre ad un voto espresso alzando la mano, il verbo psephizesthai, nella maggior parte dei casi, deve avere avuto invece un’accezione più generale: significa, in altre parole, «votare», indipendentemente dalla procedura seguita229.

Se non si può sempre sostenere con certezza il valore letterale di psephizesthai, eccetto in taluni pochi casi, la medesima cosa non si può dire per l’utilizzo di

cheirotonein.

Sebbene fosse il sistema di voto impiegato più frequentemente, la cheirotonia è sempre stata vittima di un silenzio assordante nelle fonti letterarie e, ancor più, nei documenti epigrafici. Come visto in precedenza, infatti, essa è quasi sempre solo menzionata, ragion per cui la ricostruzione del suo funzionamento ha incontrato (e incontra tuttora) diversi ostacoli230.

Esistono, tuttavia, alcune testimonianze che, pur non descrivendo nel dettaglio il funzionamento della procedura, lasciano individuare particolari che permettono di attribuire al verbo cheirotonein un valore propriamente letterale.

In aggiunta ai versi delle Supplici prima citati (relativi alla votazione cui sono tenuti gli Argivi per decidere se prestare soccorso alle figlie di Danao), dove l’accezione letterale di cheirotonein è inequivocabile, un ulteriore esempio – sul quale Hansen richiama opportunamente l’attenzione231 – possono essere alcuni versi (262-265 e 268- 271232) delle Ecclesiazuse di Aristofane, commedia portata in scena per la prima e unica volta tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del 391. Si tratta di versi tanto osceni quanto significativi! Infatti, si legge che le donne radunate in assemblea e chiamate a esprimere il proprio voto, si pongono il problema di come faranno ad alzare le mani, dal momento che sono abituate a sollevare le gambe (ταυτὶ μὲν ἡμῖν ἐντεθύμηται καλῶς

229 Musti 1995, p. 29.

230 Hansen 1977, pp. 123-124. 231 Hansen 1977, p. 124. 232 Trad. it. di Paduano 2005.

ἐκεῖνο δ᾽ οὐ πεφροντίκαμεν, ὅτῳ τρόπῳ τὰς χεῖρας αἴρειν μνημονεύσομεν τότε. Εἰθισμέναι γάρ ἐσμεν αἴρειν τὼ σκέλει). A quel punto giunge la risposta di Prassagora (vv. 268-271) che, guidandole, fa notare loro che «è un problema: ma in ogni caso bisogna votare alzando la mano, e si deve tirare fuori tutto il braccio fino alla spalla» (χαλεπὸν τὸ πρᾶγμ᾽: ὅμως δὲ χειροτονητέον ἐξωμισάσαις τὸν ἕτερον βραχίονα). In un secondo momento, sempre Prassagora aggiunge che per le donne non sarà una grande difficoltà alzare una mano, dal momento che, dice, «chissà quante volte l’avrete visto fare ai vostri mariti, quando vanno all’assemblea o escono in città» (ὥσπερ τὸν ἄνδρ᾽ ἐθεᾶσθ᾽, ὅτ᾽ εἰς ἐκκλησίαν μέλλοι βαδίζειν ἢ θύραζ᾽ ἑκάστοτε). Queste ultime parole di Prassagora sono, peraltro, indicative della frequenza con la quale veniva impiegata la procedura della

cheirotonia.

Altro caso rappresentativo del valore letterale di cheirotonein può essere il passo delle Elleniche di Senofonte (1, 7, 7), nel quale è descritta la celebre assemblea responsabile di aver condannato gli strateghi al comando della flotta ateniese nella battaglia svoltasi al largo delle isole Arginuse nel 406. I dieci strateghi erano accusati di non aver prestato soccorso ai naufraghi e, per questo, furono condannati a morte. Ci viene riferito che la seduta assembleare durò quasi un’intera giornata, così che si decise di rimandare il dibattito e la conseguente votazione al giorno successivo perché «allora era ormai tardi e le mani dei votanti non si potevano distinguere» (τότε γὰρ ὀψὲ ἦν καὶ τὰς χεῖρας οὐκ ἂν καθεώρων233).

Ancora altri esempi potrebbero essere citati, ma può già trarsi qualche breve conclusione.

Laddove si conoscano i particolari della votazione, il termine cheirotonia ha quasi sempre un valore letterale, mai traslato come accade invece sovente nel caso della

psephophoria, che può pertanto indicare la procedura corrispondente al nome o, in

maniera più generica, l’azione del «votare», indipendentemente dal sistema di voto impiegato234.

È quasi del tutto certo che il senso figurato di psephizesthai si debba soprattutto all’utilizzo generalizzato del termine psephisma nel contesto politico ateniese (e non solo), per definire una decisione presa (in altre parole il decreto, in particolar modo nel

233 Trad. it. di Daverio Rocchi 2002. 234 Musti 1995, p. 30.

linguaggio epigrafico); questo deve avere inevitabilmente contribuito alla generalizzazione del significato di psephizesthai, affiancando al valore letterale quello traslato.

A mio avviso, è poi bene riflettere ancora su un altro elemento, diretta conseguenza di quanto detto finora.

Nelle testimonianze letterarie come nei documenti epigrafici235, l’atto del ‘votare’ non è espresso sempre attraverso le sole forme verbali psephizesthai o cheirotonein. Sono infatti numerosi i casi nei quali il richiamo a una votazione avviene mediante perifrasi costruite con il sostantivo psephos accompagnato da verbi come τίθημι, δίδωμι, φέρω che, il più delle volte, esprimono il gesto della deposizione di un oggetto concreto. Chiaro è che, come nel caso di psephizesthai, anche il termine psephos avrà, poco alla volta, perso il suo significato letterale, per assumere quello ben più generico di «voto».

Ciononostante, pare ugualmente lecito domandarsi quale motivazione possa essere alla base dell’utilizzo di un lessico così diversificato – psephizesthai, cheirotonein o una perifrasi costruita sul termine psephos – per esprimere la medesima azione, considerando in particolare il caso dei testi epigrafici, dove una perifrasi avrebbe preso sicuramente uno spazio maggiore rispetto alla singola forma verbale, e dove una struttura rigida e ben standardizzata, quale può essere quella di un decreto, non parrebbe giustificare la sostituzione del verbo psephizesthai, così largamente attestato, con una espressione diversa e, in un certo senso, anche più complessa. Viene quindi da chiedersi se l’utilizzo di espressioni differenti sia da ricondurre a ragioni precise, oppure semplicemente al caso. Se nel verbo psephizesthai è da rintracciarsi un valore generico anziché letterale, l’azione del ‘votare’ espressa da una perifrasi che contenga il termine psephos potrebbe, talvolta, conferire a quest’ultimo un valore invece propriamente letterale, considerando che psephos bene si presta ad un’accezione letterale, data la sua principale traduzione in ‘sasso’, ‘pietruzza’, e l’impiego di un verbo che, sovente, sta ad indicare il gesto fisico della deposizione di un oggetto. Tuttavia, questa osservazione resta una vana ipotesi. Infatti, che si tratti di una fonte letteraria o epigrafica, non è facile riconoscere quando il termine psephos significhi un voto espresso con il ciottolo oppure, più genericamente, voto; nelle stesse iscrizioni raccolte in Tab. II, che menzionano il sostantivo psephos, è

infatti possibile attribuire ad esso un valore concreto solo in quei casi considerati di natura giudiziaria (processi, risoluzioni di controversie giudiziarie, symbola), per i quali sappiamo che era sempre utilizzata la psephophoria. Per gli altri casi, sebbene si tratti di iscrizioni spesso di importanza rilevante e dai contenuti ben noti (un esempio è la legge di Alicarnasso)236, non pare possibile, almeno finora, individuare con certezza un valore concreto o metaforico del termine psephos.

La perifrasi contenente il sostantivo psephos non è l’unica espressione che potrebbe rimandare a un’accezione letterale della procedura. In alcune iscrizioni provenienti dalla Grecia continentale, dalle isole dell’Egeo e dalla costa occidentale dell’Asia Minore (Tab. II 11, 12, 17, 19, 24, 26, 27, 29, 32, 37, 39, 40), si legge che l’atto del votare è espresso attraverso la voce verbale psephophorein – già ricorrente di rado nelle fonti letterarie – o la menzione della procedura stessa che, contrariamente a quanto accade per psephizesthai, non può che ricondurre senza dubbio alla votazione con le psephoi.

È difficile cercare di spiegarsene le ragioni, dal momento che i documenti nei quali compare questa forma verbale sono tra loro molto diversificati: parliamo di decreti onorari, dai quali si comprende chiaramente che gli onori sono stati concessi tramite un voto espresso con le psephoi; trattati di varia natura; documenti di fondazione. Non è quindi semplice individuare un contesto unico di utilizzo di questa terminologia, cosa che avrebbe consentito a sua volta l’identificazione di uno specifico campo di applicazione. Ciononostante, considerando alcuni di questi documenti in particolare, è possibile ricavarne qualcosa di più.

Proseguendo in ordine cronologico, la prima iscrizione (al di fuori di Atene, si intende) in cui compare il verbo psephophorein è il celebre symbolon stipulato tra Delfi e Pellana, rinvenuto a Delfi e datato intorno al 285-280 a.C., con il quale le due poleis giuravano di prestarsi reciproca assistenza giudiziaria237. Alle ll. 12-13 del primo frammento A 1, relativo a un possibile procedimento giudiziario contro un cittadino di una delle due poleis, leggiamo: ψαφοφορία. τοὺς δὲ δικαστῆ[ρας ψαφοφορεῖν ὑπὲρ τοῦ μὲν προτέρου λέγοντος πρότερον, τοῦ δὲ ὑ]στέρου λέγοντος ὕστερον (Votazione. I

236 Meiggs, Lewis nr. 32; Tab. II 1.

237 F.Delphes III 1, 486; Tab. II 17. Sul testo dell’iscrizione – purtroppo ancora estremamente lacunoso –

resta fondamentale, anche se datato, Cataldi 1977, pp. 459-573, cui si rimanda per l’edizione per il testo, la traduzione il commento. In generale sui symbola, si veda lo studio di sintesi di Gauthier 1972.

giudici portino il voto prima a riguardo di chi ha parlato per primo, poi a riguardo di chi ha parlato per secondo). È qui descritta la fase finale di un procedimento giudiziario, la fase della votazione – in questo caso chiamata psephophoria –, ossia quando i giudici sono chiamati a esprimere il proprio verdetto; proseguendo nella lettura di queste linee, si apprende che i giudici dovevano emettere il proprio voto prima su chi aveva parlato per primo, poi su chi aveva parlato per secondo e, per esprimere l’atto del votare, è in questo caso utilizzato, non il verbo psephizesthai, bensì psephophorein, il cui utilizzo non sorprende poi così tanto. Come già anticipato, infatti, con psephophoria si soleva definire la votazione in uso nei tribunali ad Atene (in realtà, anche nel resto del mondo greco), proprio perché l’oggetto impiegato per esprimere il voto era sempre la psephos e, di conseguenza, anche il verbo utilizzato in circostanze di tipo giudiziario era, tranne rare eccezioni, psephophorein. Trattandosi, anche in questa circostanza, di un procedimento giudiziario, è da ritenere più che appropriato l’impiego del verbo psephophorein238.

Poche altre iscrizioni, infine, menzionano il termine psephophoria o la voce verbale

psephophorein. Si tratta, per lo più, di decreti onorari (IG XII 8, 158; IMagnesia 92a e b; Alabanda 2; IG XII 4, 1, 266), nei quali i due termini sono impiegati per indicare la

votazione cui i cittadini devono sottoporsi per decidere se concedere o meno specifici onori, in primo luogo la cittadinanza e la prossenia. L’impiego dei due termini è, anche in questi casi, senza dubbio opportuno, dal momento che, come più volte detto, la concessione della cittadinanza (e forse anche della prossenia239) rientrava tra quelle questioni ep’andri che prevedevano, non solo un quorum di votanti, ma anche l’impiego della psephophoria come sistema di voto; in particolare, come si avrà modo di vedere più avanti, la concessione della cittadinanza era regolata da una legge contenuta in un passo della Contro Neera dello Pseudo-Demostene, la quale stabiliva che essa aveva luogo in due tappe e richiedeva una doppia votazione: la proposta era accolta mediante cheirotonia

238 Un caso analogo può considerarsi un altro trattato di assistenza giudiziaria, stipulato questa volta tra

Stinfalo e Demetriade e datato intorno al 234 a.C. Alle ll. 60-61 leggiamo infatti τὰ ἐπιδέκατα δὲ ἀπο[τει]σάτω [εἴ] τί κα δικάζ[ῃ τὸ] δικαστήριον. ἐπε[ὶ] [δέ κα κ]αὶ κριθῆ<ι>ἁ δίκα καὶ τὰν ψαφοφο[ρί]αν πᾶ[σαν] διαριθμήσων[ται] (devo inserire traduzione). Anche qui non sorprende che sia stato utilizzato il sostantivo psaphophorian per indicare l’atto della votazione, poiché ci troviamo dinanzi a un caso di tipo giudiziario.

239 Sull’istituto della prossenia e sulle modalità di concessione si veda il recente Culasso Gastaldi 2004.

durante una prima seduta assembleare, per poi essere ratificata mediante psephophoria, nella seconda riunione, e con la presenza di almeno 6000 votanti240. La ratifica, la decisione definitiva sulla concessione o meno della cittadinanza avveniva pertanto mediante votazione con le psephoi, ad Atene sicuramente – come si evince dal passo appena citato – ma, stando alle iscrizioni sopra menzionate, anche in diverse altre poleis al di fuori dell’Attica (ma anche su questo si tornerà più avanti).

Tra questi documenti ve n’è uno di una certa importanza. Si tratta di una iscrizione nota come Lex Fonteia, rinvenuta nell’Asklepieion di Cos e datata tra il 39 e il 33 a.C., contenente una lex tradotta in lingua greca, la quale stabilisce la concessione della cittadinanza romana e altri onori a tutti i cittadini di Cos (o, forse, solo ad alcuni)241. Subito dopo il preambolo in cui si menziona il rogator legis M. Fonteio – dal quale l’iscrizione prende il nome –, alle ll. 6-7 della parte frontale dei frammenti a e b viene descritto il momento della votazione, una volta presentata la proposta al Senato: φυλῆς Καμιλλίας [πρυτανευούσης, ὑπὲρ φυλῆς πρ]ῶτος ἐψηφοφόρησεν Γάϊος Γεμίνιος. In primo luogo, sono forniti alcuni particolari della tradizionale procedura di voto romana, viene infatti precisato qual è la prima tribù a votare e il primo votante; in secondo luogo, questa è una decisione espressa dal popolo romano mediante un sistema di voto tipicamente romano, il cui testo è tradotto in lingua greca impiegando la forma verbale

psephophorein, quando avrebbero potuto utilizzare il più noto e generico psephizesthai.

Trattandosi anche in questo caso di una concessione di cittadinanza, l’iscrizione è significativa perché testimone del fatto che, anche in piena età romana e, soprattutto, sotto il protettorato romano, la procedura di voto impiegata per decidere se concedere o meno la cittadinanza resta evidentemente la medesima.

Casi analoghi sono rappresentati da altre due iscrizioni di età imperiale romana. La prima è un decreto proveniente da Efeso e datato al 117-132 d.C.242, con il quale l’assemblea e il consiglio di Efeso stabiliscono a quali medici, operanti nel Mouseion243, spetteranno alcune agevolazioni finanziarie previste dal senatus consultum; sempre

240 Ps. Dem. 59, 89-90.

241 IG XII 4, 1, 266, Tab. II 37. Sul testo si veda Buraselis, Mpurazelēs 2000, pp. 24-29. 242 I.Ephesos 4101a, Tab. II 39.

243 Sulle associazioni e le attività dei medici che si riunivano nel Mouseion promosso da Traiano, si veda

l’assemblea, poi, si assicurerà che le decisioni del senato romano siano correttamente attuate, e il verbo impiegato per indicare le delibere, ricorrente per ben tre volte alle ll. 6- 13 è ψηφοφορηθέν. In questa circostanza, il verbo psephophorein è utilizzato al di fuori del contesto giudiziario e delle concessioni di cittadinanza, ma non si deve trascurare che si tratta comunque di una fonte di piena età imperiale.

La seconda iscrizione consiste in un documento di fondazione da parte di Attalo, proveniente da Afrodisiade e datato al 117-138 d.C., contenente un’offerta in denaro alla dea Afrodite e una promessa di costruire un tempio in suo onore244. Alle ll. 1-12, si legge: [— μηδενὶ] [ἐξέστω μήτε ἄρχοντι μήτε γραμ][ματε]ῖ μή[τε] ἰδιώτῃ μήτε μέ[ρος][μή]τ̣ε πᾶν μήτε ἀρχαίου μήτε [τό][κο]υ μεταγαγεῖν ἢ μεταπολογ[ί]σασθαι μηδὲ εἰς ἕτερον χρήσα[σ][θ]αι μηδὲν μήτε ψηφοφορίᾳ [ἰ]δίᾳ συντάσσοντι μήτε ψηφίσμα[τι μή]τε δι’ ἐπιστολῆς μήτε διὰ δόγμ[α]τος μήτε διὰ ἀπογραφῆς ἢ ὀχλ[ι]κῆς καταβαρήσεως μηδὲ ἄλλ[ῳ] τρόπῳ μηδενὶ ἢ εἰς μόνην τα[ύ][τ]ην τὴν ὑπ’ ἐμοῦ γεγραμμένην [δι]αταγήν (né un magistrato, né un segretario o un privato cittadino avrà l’autorità di trasferire parte o l’intero capitale o gli interessi, né cambiare il resoconto o utilizzare il denaro per un differente scopo, né con una votazione, né attraverso un decreto assembleare, una lettera, un decreto o una dichiarazione scritta, né mediante la violenza della folla, o in altro modo,