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Le origini del Totalitarismo: la frattura dello spazio politico

HANNAH ARENDT UNA FILOSOFA “SPAZIALE”

2.2 Le origini del Totalitarismo: la frattura dello spazio politico

Premessa

L’esperienza che Arendt vive in prima persona da esule ebrea, da paria, acquisisce dunque un preciso significato a partire dagli anni Trenta del Novecento. Perché una condizione che fino a quel momento non aveva scatenato interrogativi diventa un problema? Perché essere ebrei trasforma la vita delle persone?

Attraverso questi interrogativi Hannah Arendt prende le distanze, per la prima volta, dalla sfera personale – effettuando quell’esercizio di decentramento descritto nel paragrafo precedente – e ad accogliere la consapevolezza che “l’ebraicità” aveva oramai acquisito un significato politico predominante, caduto dentro a formule dicotomiche e di natura xenofoba del noi/loro, buono/cattivo, puro/impuro.

Nella dicotomia che si era cristallizzata con l’avvento del totalitarismo, Arendt è convinta si collochi una delle domande cruciali per la riformulazione una spiegazione plausibile dell’olocausto e del Totalitarismo. L’atteggiamento filosofico e storico

dominante aveva a suo avviso trascurato di interrogare quella funzione tipicamente umana del “giudicare” e del “pensare” . Ragione per cui sopravvivevano, in quegli anni, una generica diffusione di incomprensione nelle conversazioni di maggiore senso comune, e una grande confusione interpretativa tra coloro che erano interessati a riprendere in mano un discorso filosofico pertinente alle domande che stavano emergendo.

A fianco di queste consapevolezze di ordine politico, Arendt si fa forte della sua condizione di esule politica – si trova in quegli anni negli Stati Uniti dove approda in seguito alla fuga dall’Europa – e decide di concretizzare il corpus di un libro le cui prime suggestioni erano nate negli anni ’30, subito dopo la conclusione del lavoro dedicato a Rahel.

La consapevolezza di dover dare avvio ad una sorta di parafrasi politica degli eventi, come nel caso di Rahel, comincia a prendere forme più tangibili in seguito ad un esercizio di decentramento che, questa volta, si concretizza con un allontanamento geografico dal suo mondo “natale”. La sua partenza per gli Stati Uniti non aveva segnato soltanto le sue traiettorie biografiche – l’allontanamento dagli amici, dalla vita culturale europea – ma avrebbe condizionato per tutta la sua vita l’oggetto principale del suo lavoro e del suo impegno filosofico. La distanza geografica, in altre parole, le aveva permesso in primo luogo di comprendere che il suo desiderio principale era quello di comprendere e di esercitare una speciale forma di pensiero capace di interrogare i contesti politici e pubblici. In secondo luogo, le aveva consentito di denunciare una serie dis-valori che si erano diffusi con il processo di assimilazione inibendo ogni possibilità di “rinascita” politica degli Stati occidentali – possibilità che, come vedremo, per Arendt andava riscoperta riformulando i concetti di libertà e felicità pubblica.

L’originalità del suo pensiero politico nasce dal fatto che ciò che le si rivelava fenomenicamente come qualcosa di nuovo, senza precedenti e straordinario, stava accadendo in effetti ora, in quel mondo ordinario che in precedenza aveva avuto così scarso rilievo nella sua vita riflessiva. Perciò la dimensione politica acquistò realtà ai suoi occhi non solo in quanto arena della “politica”, in cui i politici affrontano le mansioni del governo, gestendo il potere, stabilendo i fini e individuando e predisponendo i mezzi per raggiungerli, ma anche in quanto sfera in cui può venire alla luce il nuovo, sia in senso buono che cattivo, e in cui sono poste le condizioni della libertà umana, compresa la libertà di pensare, e della libertà inumana. In un modo o nell’altro da allora in poi la realtà politica orientò tutti i suoi tentativi di comprensione, persino quando, alla fine della sua vita, la sua attenzione si volse alle

attività mentali riflessive in quanto condizioni di tale comprensione.179

2.2.1 Prime questioni

“Le origini del Totalitarismo”: intitolerà così l’opera che coinvolgerà anni decisivi per la sua vita e che mette insieme tre principali argomenti: l’antisemitismo, l’imperialismo e il razzismo. 180

La sua definizione di “Sistema Totalitario” è l’esito di un lungo percorso che, nel 1945, induce Arendt a ricercare diversi significati di questi tre grandi e complessi fenomeni sociali che si sono poi tradotti in tre momenti della storia politica altrettanto complicati.

La nascita del nazismo in Germania, il suo rapido avvento nel resto dell’Europa e le adesioni che il progetto politico tedesco era riuscito a raccogliere erano tra le questioni più indagate del primo dopoguerra. Com’era potuto accadere? Cosa era sfuggito all’attenzione pubblica perché si realizzasse senza ostacoli la realtà dell’Olocausto?

L’interrogativo interessava un vasto pubblico di intellettuali che, coinvolti più o meno personalmente nella guerra e negli anni delle persecuzioni, ragionavano sulle possibile cause e origini del male sostando su domande che stavano acquisendo una connotazione sempre più universale e condivisibile.

Tra i nomi più noti coinvolti nel dibattito accanto ad Arendt troviamo il suo amico maestro Benjamin, Heidegger e qualche anno più avanti il “maitre à penser” Sartre e, non ultimo, il “controverso” Ryamond Arond181.

Le posizioni sul Totalitarismo erano le più svariate e controverse, quasi tutte condizionate da fattori biografici che spiegavano il coinvolgimento più o meno diretto di molti intellettuali in esperienze di perdite e/o di partenze improvvise. Una ragione in più che spiegava, accanto all’urgenza di trovare spiegazioni sufficientemente accettabili, la difficoltà di esprimere idee e opinioni che non fossero colme di risentimento, sfiducia e dunque spesso poco appropriate al lavoro di indagine e interpretazione richiesto dalle circostanze.

179 Kohn, J. (1993), Introduzione in Arendt, H., Essays in Understanding 1930-1954, a cura di S. Forti, trad. it di Paolo Costa,

Archivio Arendt (1) 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001, p. 14.

180 Dal primo titolo provvisorio del 1944 “Gli elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo e razzismo” e accanto alla

seconda proposta (“Storia del Totalitarismo”), passarono infine sei anni perché Arendt giungesse infine al titolo definitivo dell’opera oggi conosciuta come le “Origini del Totalitarismo”. Cfr. Bruhel, Y., Hannah Arendt 1941-1948, op. cit….

181 Sartre e Aron sono spesso così definiti per sottolineare le loro divergenze in campo politico. Stretti da un forte legame di amicizia,

La pensatrice tedesca, per contro, considerava di avere una posizione differente rispetto ai suoi coetanei ed era la sua stessa storia da esule e “paria” a consegnarle una doppia responsabilità in questo senso. Anche lei, come la minoranza degli ebrei che era riuscita a scappare, aveva dovuto abbandonare l’Europa per raggiungere gli Stati Uniti, la strada che molto probabilmente la tutelò da un altro genere di viaggio e destino consegnandole il privilegio di quel “decentramento”.

E’ il 1940, in un'atmosfera del “sauve qui peut”182, l’anno in cui Hannah Arendt e

il suo secondo marito, Blucher, lasciano dunque l'Europa per raggiungere gli Stati Uniti dove presto verranno raggiunti anche dalla madre di Hannah.

In questi anni la filosofa si dedica prevalentemente alla stesura di articoli di politica ebraica divenendo editorialista del giornale tedesco “Aufbau”, un’esperienza professionale che a poco a poco le consentirà di allargare anche alla comunità americana quesiti di carattere prevalentemente politico – e di comune dibattitto europeo. Per la coppia tedesca il tempo della stabilizzazione è un tempo abbastanza lungo: gli Stati Uniti sono un paese fresco e nuovo ma il processo di inclusione viene rallentato soprattutto da fattori linguistici. L'inglese rimane per Blucher una lingua piuttosto ostica mentre per Arendt, abituata all'esercizio dell’apprendimento – prima dell'inglese, si ritrova a leggere e a studiare in francese nel suo precedente stabilimento a Parigi – si diletta a conoscere questa nuova lingua attraverso le parole di importanti poeti che le suggeriscono una nuova forma di sonorità e ritmo. La saggistica, grazie all’opportunità giornalistica, diviene così lo strumento per migliorare la padronanza della lingua: Arendt, bisogna inoltre aggiungere, non era per niente indifferente all'insieme di contenuti culturali e storici contenuti in una lingua ed era una grande sostenitrice della potenza simbolica della “lingua madre”183 come

marchio della propria identità. In questo caso, l’apprendimento di una lingua straniera aveva un doppio valore, poiché era ciò che le avrebbe legittimato la possibilità di scrivere di un paese che l’aveva accolta nel corso della guerra e di provare a “nominare” quello che osservava attraverso un importante canale culturale come quello linguistico. La padronanza della lingua, inoltre, rinvigoriva in lei il sentimento politico della “restituzione” e quindi il diritto/dovere di esprimere il proprio punto di vista di fronte alla scena politica europea. L’acquisizione della lingua e il suo spiccato senso civico e morale la convincono progressivamente della

182 L’espressione, letteralmente traducibile con un “si salvi chi può”, descrive la grande fuga di massa che interessò l’Europa con

l’inizio delle grandi Guerre Mondiali.

183 A questo interesse specifico dedicherà anche un saggio intitolato “La lingua materna”. Cfr. Arendt, H. La lingua materna,

necessità di scrivere sul Totalitarismo.

“Quando cominciò il libro, gli amici europei erano lontani, irraggiungibili anche per lettera, forse perduti per sempre; e lo terminò poco prima del suo primo ritorno in Europa nel 1949. Per tutti quegli anni la Arendt ebbe l’impressione che il destino dell’Europa fosse in bilico sul filo di un rasoio. I primi anni trascorsi in America li aveva dedicati a questioni di politica ebraica, ma con la fine della guerra si era rivolta a questioni di carattere più generale: quali principi dovranno guidare la politica, in un mondo scossa da una simile guerra? Potrà mai esservi una nuova Europa? Potrà mai esistere un’autentica comunità di nazioni?184

Tra il 1941 e il 1942, Arendt esercita ancora il suo ruolo da editorialista e “come in ogni nuovo numero di “Aufbau” faceva sapere ai suoi inorriditi lettori che i tempi andavano facendosi sempre più cupi”185. Quando espone e scrive i suoi resoconti

proponendo un’analisi dettagliata del ruolo sionista nella definizione del “problema ebraico”, Arendt si trova in realtà impegnata nella ricerca delle variabili che tendenzialmente definiscono una guerra. E tuttavia, mentre scrive, si accorge che proprio quegli elementi che genericamente caratterizzavano i conflitti, le rivoluzioni, le guerre del passato e del suo tempo non erano sufficienti a spiegare il Totalitarismo. La risposta violenta delle politiche degli Stati Totalitari si era sviluppata in modo del tutto “originale” rispetto ai conflitti del passato e aveva rappresentato alcune possibili risposte ai problemi della società moderna, portando agli eccessi alcune sfumature dei costumi e degli habita che abitavano sempre di più la scena politica europea. Il razzismo e l’antisemitismo non erano certo una novità ma, secondo Arendt, ciò che c’era di più spiazzante oltre alla progettazione di una “soluzione finale” di un intero popolo, erano le accuse rivolte a quelle speciali correnti filosofiche che avrebbero consentito la diffusione di uno specifico modo di “pensare”. Molti studiosi a lei contemporanei avevano messo in campo aspre critiche, soprattutto nei confronti della politica Marxista. Erano condivise e diffuse le opinioni secondo le quali lo stalinismo totalitario prima, e il Nazismo poco dopo, avevano trovato terreno fertile grazie e per conto delle utopie strutturali che Marx aveva messo in campo con le sue teorizzazioni.

Arendt non può dunque fare a meno di confrontarsi con l’ opera del filosofo tedesco anche in questo caso si muove in senso contrario all’opinione pubblica.

184 Arendt, H.,Young-Bruehl E., Hannah Arendt 1906-1975..., op. cit., p. 238. 185 Ivi, p. 217.

[…] Arendt prende nettamente le distanze della filiazione diretta di Stalin da Marx, le quali, più o meno esplicitamente, accusavano quest’ultimo di essere stato l’affossatore e il pervertitore dei grandi valori del pensiero occidentale. Altrettanto parimenti si distacca dall’ipotesi delle “religioni” secolari e da quei “critici di Marx che sono consapevoli delle radici [nella tradizione] del suo pensiero”, i quali per scagionare la filosofia politica classica e il cristianesimo da ogni possibile implicazione totalitaria si inventano l’ipotesi di una “speciale” corrente immanentista”, a cui Karl Marx stesso apparterrebbe senza saperlo, che sotterraneamente erode la tradizione: “un’eresia occidentale [in seno al cattolicesimo] che oggi a volte viene chiamata gnosticismo”. 186

La lettura arendtiana non condivide il punto di vista generalizzato che pone l’accento nella distanza tra Marx e la corrente filosofica tradizionale; al contrario, osserva in questa azione interpretativa il rischio di cadere nella semplificazione. Arendt rifiutava la possibilità che fosse Marx la figura “irriverente” ad aver condotto la filosofia tradizionale sul campo della scena politica sostenendo “speciali correnti immanentiste”187. Questa era l’ipotesi guidata dal senso comune, mentre si Arendt

preferiva posizionare altrove la cifra “rivoluzionaria” del pensiero marxista.

Per Hannah Arendt questa ipotesi sulla “colpa” degli effetti perversi della secolarizzazione moderna non spiega nulla; perché nulla spiega ricondurre nazismo e comunismo a due forme di quell’“immanentismo” che, eclissando la differenza tra trascendenza e mondo per realizzare il “paradiso in terra”, porta dritto all’orrore”188.

Seguendo il file rouge della critica arendtiana, la tesi della filosofa faceva luce sul fatto che si era completamente perso di vista l’obiettivo dell’opera marxista, favorendone una banalizzazione che oramai scoraggiava l’individuazione di alcuni dei principi veramente innovativi del pensiero di Marx.

Ciò che interessa Arendt, dunque, è riportare l’argomentazione su un sentiero non soltanto capace di restituire a Marx un legittimo riconoscimento, ma anche ricostruire un sentiero di parole e ragionamenti più desiderosi di ricostruire il “pensare filosofico” più che sottoporlo a un campo di accuse.

186 Forti, S., Hannah Arendt, lettrice di Karl Marx in Arendt, H. (1953), Karl Marx e la tradizione del pensiero politico. Il filo

spezzato della trazione in Forti, S. (a cura di), Karl Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, Raffaello Cortina Editore,

Milano 2016, pp. 10 e 11.

187 “In genere, ogni filosofia o corrente ideale secondo la quale non esiste un “al di là” rispetto alla realtà che conosciamo. Avere una

concezione immanente della divinità, per es., significa identificare Dio con il mondo, la natura o la storia, rifiutando quindi di concepirlo in modo 'trascendente', ossia come un'entità autonoma, separata dal mondo e avente caratteri opposti a esso (infinito, onnipotente, onnisciente e così via)”. Cfr. Treccani S.R., Dizionario della lingua italiana, Istituto italiano dell’’enciclopedia italiana, UTET, 2003, p. 137.

Se è vero che la “frattura” in campo politico era stata favorita anche dai sostenitori di una certa filosofia, era forse più interessante comprendere se l’attacco nei confronti di Marx, fosse soltanto utile a mettere in scena una forma speciale di rivincita nei confronti di coloro che si erano opposti alla concretizzazione di uno Stato Totalitario (nello specifico, lo Stalinismo). Arendt ha le idee chiare rispetto al suo dissenso e per conclamarlo pubblicamente utilizza la formula da lei preferita: si avvicina all’idea di un libro. Il suo impegno nella scrittura non sarà tuttavia interessato ad analizzare criticamente il coinvolgimento effettivo di Marx nella definizione degli stati Totalitari, né a scagionarlo o proteggerlo. Hannah è interessata al thinking innanzitutto, alla pratica del pensare, e in questo caso particolare all’interesse che Marx per primo rivolge alla relazione tra la pratica filosofica e la contingenza storica. Questo era quanto chiunque fosse interessato al mondo e alle funzioni “trasformative” della filosofia, avrebbe a suo avviso dovuto fare: riconoscere “la fine della tradizione filosofico-politica” e realizzare un nuovo modo di fare e costruire pensiero.

Le accuse che legano Marx direttamente al totalitarismo staliniano sono senza dubbio a suo parere o superficiali o ideologiche. In ogni caso – ed per lei ancor più grave – inconsapevoli: “Pochissimi […] sembrano essere consapevoli del fatto che accusare Marx di totalitarismo equivale ad accusare la tradizione occidentale stessa di terminare necessariamente nella mostruosità di questa nuova forma di governo (p.39). Perché – ed è questa l’assunzione centrale – “chiunque tocchi Marx tocca la tradizione del pensiero occidentale”. […] per lei il problema non può venire aggirato: il fatto che una determina forma di totalitarismo affermi di ispirarsi direttamente a Marx. Ne consegue che per capire che cosa non va nella “nostra tradizione filosofico-politica” sia più plausibile e utile indagare il nesso filosofia marxiana-totalitarismo – o meglio “mentalità totalitarie” – piuttosto che interrogarsi su ciò che lega “il nazismo e qualsivoglia dei suoi cosiddetti predecessori”, quali potrebbero essere Hegel o Nietzsche.189

Dentro questa cornice, Arendt è dunque coinvolta nell’indagine dei nessi tra la filosofia e la storia coinvolti nella costituzione di “mentalità autoritarie”, quelle specifiche forme di mente che, in seguito al processo di Gerusalemme, Hannah definirà come “le mentalità incapaci di esercitare pensiero”. La sua attenzione era rivolta anche in questo caso a generare comprensione piuttosto che ad avviare un processo di colpevolizzazione. Prima di ricercare i colpevoli – a patto che fosse

possibile individuarli – era a suo avviso più urgente comprendere cosa intendesse Marx mentre collocava la filosofia politica – e dunque l’impegno stesso dei filosofi – al servizio del mondo a lui contemporaneo. La domanda principale diventa così un’altra: è possibile che Marx, pur restando legato alla tradizione classica, abbia anticipato un nuovo modo di scrivere e pensare la filosofia politica?

Diversamente dai suoi contemporanei, la studiosa è interessata all’elaborazione di un nuovo metodo di comprensione che, a partire dalle esigenze storiche, sappia superare la colpevolizzazione, valorizzare il tipo di ragionamento e la lettura critica promossa dall’interpretazione marxista. Da questo punto di vista, possiamo dire che Marx, in particolare nella fase del suo lavoro di ispirazione hegeliana, è anticipatore rispetto ad Arendt di un nuovo significato della “storicità” del pensiero, e dunque di un pensiero profondamente condizionato e in qualche modo “dipendente” dal terreno materiale dell’esistenza. Ed è Arendt stessa a riconoscere a Marx questo merito.

Alla volontà di capovolgere l’ordine gerarchico della metafisica, di portare cioè finalmente in primo piano l’aspetto “basso” e materiale dell’esistenza e di abbassarne a menzogna, “a falsa coscienza”, l’aspetto “alto” e spirituale, darebbe voce programmatica il terzo, e come si vedrà, cruciale caposaldo marxiano: la famosa ultima tesi su Feuerbach, secondo cui la filosofia, da attività puramente contemplativa, deve farsi azione produttrice di mutamento.

190

Se la Francia degli anni precedenti si era presentata come un buon osservatorio dell'eredità filosofica tedesca permettendo ad Arendt di approfondire il sistema hegeliano, conoscere Nietzsche e seguire gli sviluppi del movimento fenomenologico di quegli anni, gli Stati Uniti conservavano invece una maggiore formazione empirico-pragmatica connessa proprio ai contributi della filosofia marxiana, i primi a contrastare l'eccessiva astrazione della filosofia tradizionale. Questo nuovo aspetto “basso e materiale” della filosofia, non accolto ancora in Europa con la medesima freschezza e acutezza, aveva anticipato ad Arendt quella che sarebbe da lì in poi stata una delle sue domande principali. Sotto certi aspetti, dunque, Arendt è anche “debitrice” all’azione intrapresa da Marx.

Mi domando se sia più facile dare ai tedeschi il senso della politica o agli americani una pallida idea di cosa sia la filosofia191, si chiede infatti l’autrice mentre oscilla tra le due discipline,

190 Ivi, p. 17.

nella necessità intravista di invenzione di un nuovo modo di scrivere. Nel frattempo, continuando il suo impegno nella stesura del libro, avanza le basi di un nuovo metodo di indagine che fosse anche storico oltre che filosofico, politico oltre che sociologico. Questa nuova ermeneutica, accanto alle parole chiave del suo libro – razzismo, antisemitismo, espansionismo – si proponeva di individuare le ragioni più sotterranee e meno esplorate del totalitarismo.

Di fatto, Arendt individua, per ciascuna delle tre parole chiave, le tracce di un problema reale e irrisolto: dietro l’antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato Nazionale, la rivelazione di una nuova concezione del genere umano; dietro l’espansionismo fine a se stesso, il desiderio implicito di riorganizzare un mondo che sapesse interagire con tradizioni estranee al mondo occidentale. La grande attrazione esercitata da un imperialismo pienamente sviluppato (cioè, dal totalitarismo) si fondava sulla convinzione diffusa che questa forma politica fosse in grado di dare una risposta a tali problemi, e potesse quindi

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