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Eterotopia è termine escogitato da Michel Foucault per indicare

quei particolari luoghi inseriti in contesti spaziali che li comprendono e connettono ad altri, ma portatori allo stesso tempo di una carica eversiva, in grado di deflagrare, sospendere, neutralizzare o ribaltare la percezione di quegli stessi rapporti spaziali. Un esempio di eterotopia è costituito dallo specchio, che permette di percepire uno spazio altro e noi stessi – altri - al suo interno, in una dimensione puramente immaginale, non attingibile eppure percepibile nella sua virtualità e interconnessa realmente con lo spazio contiguo. Lo specchio è <<une sorte d’expérience mixte, mitoyenne>>382, narra il ritorno dell’immagine, introduce al contatto panico per eccellenza. Le due

facies sono rovesciate in una mai provata contiguità. Staccate dal

luogo comune, dalla prossimità consueta, le due superfici liminari sono immesse in una zona d’indeterminazione, di quesiti, di potenzialità combinatorie da sperimentare. Foucault concretizza il concetto di eterotopia modellandolo specularmente al concetto di

utopia. Non designa l’inesistente ma il variante, è il luogo

aperto su altri luoghi, il luogo che apre i luoghi, il luogo in quanto comunicazione tra luoghi. Tale comunicazione però non ha nulla della strada rettilinea, non si compie per cardi e decumani, non è iscrivibile nella sintassi geometrica del nomos. Essa avviene piuttosto per salti, per precipitazioni, sinusoidale e

plissée, si manifesta in spostamenti qualitativi che esorbitano la

misurazione quantitativa metrico-decimale. L’utopia, dice Foucault, non è localizzabile eppure rassicura, conferma tautologicamente l’illusione provvidenziale, è l’altro capo, il terminale, di ogni teleologia lineare, rappresenta la promessa che la fabula bella si compirà, i nodi e i tronchi torti saranno

382 M. Foucault, Dits et écrits, Des espaces autres (conférence au Cercle

d’études architecturales, 14 mars 1967), in <<Architecture, Mouvement,

disciolti, la Fine avvalorerà, lungo l’asse verticale dell’assiologia, tutto il pregresso. L’eterotopia no. E’ localizzabile qui e ora, occupa un frammento di spazio orizzontale, con cui si può interagire, che comunica. Non comunica conferme, non ratifica l’illusione rettificante. Lo spazio non è omogeneo. Lo spazio non ha il proprio senso in un futuro a venire. L’eterotopia comunica il trompe l’œil, complica la visione, le sottrae la sua parvenza d’immediatezza e di naturalità. Il messaggio è: C’è più di quel che appare. Perché lo spazio non è ciò che appare ma ciò che comunica. Il messaggio dell’eterotopia perturba:

Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme» […] le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi383.

Le eterotopie, per Foucault che fa riferimento a Borges, rappresentano l’attrito irriducibile alla normalizzazione, una sorta di parole che la langue non riesce a metabolizzare, che eccede la generalizzazione e inficia il sistema della lingua dominante. Le eterotopie raffigurano l’eccezione non legalizzabile che falsifica la norma e quindi apre il sistema all’altro da sé.

Bloccano le parole usuali, ne richiedono di nuove. Innescano ciò

che è dinamico e mutante nel linguaggio. Sono lo specchio, le eterotopie, che rivelano la natura delle forze in gioco nello

383 M. Foucault, 1963, trad. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle

spazio: forze comunicative, flussi di relazioni linguistiche che creano lo stesso campo riprodotto.

Essenziale è il riferimento a Borges, per quanto concerne il presente lavoro di ricerca. E’ il suo Aleph, infatti, il crisma aurorale della pratica geografica che qui si cerca di rintracciare. E’ quel gesto linguistico primordiale, iscritto per sempre come nucleo comunicativo originario e pulsante nell’alfabeto – l’uomo che indica il cielo e la terra, nesso tra l’uno e l’altro -, il luogo altro per eccellenza, il luogo che permette l’altro e fonda lo spazio della comunicazione.

Il geografo del possibile che è fondamentale per l’immaginario di tutti e tre gli autori oggetto della presente analisi – Calvino, Perec e Pynchon -, così inizia il primo racconto di Finzioni:

Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d’un corridoio in una villa di via Ganoa, a Ramos Mejia; l’enciclopedia s’intitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopedia384.

La congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia che inquieta e inganna non solo rappresenta una penetrante visione dell’eterotopia, ma pure dei progetti e delle strategie testuali prescelti da Calvino, Pynchon e Perec. Entrambe le forme simboliche eterotopiche, infatti, - lo specchio e l’enciclopedia - emergono più volte, differentemente declinate, variamente rifratte e deformate, nei romanzi dei tre autori. Lo si vedrà più analiticamente nei capitoli successivi, ma intanto si può accennare alla ricorrenza di tali eterotopie, immagini della prospettiva, degli strumenti narrativi, dei materiali e degli scopi, dei testi stessi che vogliono essere letti come mappe. Testi-mappa del mondo, che hanno l’obiettivo di rappresentare proprio quel nesso borgesiano che sta a incipit e dénoument del

384 J. L. Borges, Ficciones, Ermecé Editores, Buenos Aires, 1956, trad. it. a c.

tutto: l’universo dell’umano iscritto dentro l’aleph, l’esperienza del mondo come epifania del linguaggio.

In Calvino, per limitarsi alle macroscopiche evidenze, Isaura e Valdrada sono città speculari; nella prima delle città sottili, <<un paesaggio invisibile condiziona quello visibile>>385; nella

prima delle città e gli occhi, invece, <<il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta>>386. E’ la realizzazione, nel testo, dell’eterotopia. Il testo stesso mima la funzione dell’eterotopia:

Gli abitanti di Valdrada sanno che tutti i loro atti sono insieme quell’atto e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità delle immagini, e questa loro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istante al caso e all’oblio387.

L’eterotopia rivela la non-immediatezza, è il veicolo immaginale che mostra il processo di produzione dell’immagine stessa, materializza il meta-medium. E’ il luogo che costringe a guardare i luoghi, che evoca come un fantasma la presenza dei meccanismi linguistici sottostanti, più o meno velati, più o meno narcotizzati. <<Lo specchio ora accresce il valore alle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato>>388, ma sempre inquieta perché costringe al

confronto, perché istaura – o scopre - i nessi nascosti, le deviazioni potenziali, gli sconfinamenti imprevisti. L’eterotopia dell’immagine speculare impedisce la riduzione geometrica, <<nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico>>389, la simmetria stessa del rapporto immagine-referente è un’illusione, <<a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o un gesto

385 I. Calvino, Le città invisibili, (1972), Mondadori, Milano, 2003, p. 20. 386 Ibid., p. 53.

387 Ivi.

388 Ibid., p. 54. 389 Ivi.

inverso punto per punto>>390. Ma l’eterotopia che Calvino raffigura non è circoscritta a una, due, o tutte le sue città invisibili. Isaura e Valdrada rappresentano due frammenti frattali, due immagini ologrammatiche che includono in se stesse l’intera forma del testo. Le città invisibili sono un’eterotopia narrativa, sono cioè state scritte come una mappa il cui scopo è (non) guidare il lettore alla scoperta fondamentale, deviarne lo sguardo al di là del percepito, suggerendogli di abbracciare l’orizzonte eterogeneo e indistinto del percepibile e dell’impercettibile. Dentro l’occhio di <<chi sta assorto e medita>>391, proprio del Kan, Calvino innesta l’occhio di Marco Polo – il viaggiatore dell’immaginario - che evoca parole e che incorpora passato e futuro. Questa è infatti la testimonianza del veneziano:

più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che aveva attraversate per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino392.

Questa è eterotopia, la meta-esperienza che spezza e aggroviglia le esperienze, l’epifania linguistica dell’aleph che mette in contatto il soggetto non con l’immagine-prodotto ma con il processo di produzione dell’immagine. L’eterotopia rappresenta la scoperta inquietante dell’altro, l’incontro che diverge da se stessi e dalle strutture consolidate della norma. Solo in questo luogo dell’altro, luogo originale dell’attrito, è possibile fare esperienza dell’atto antropico per eccellenza, praticare l’umano nella sua specificità ed essenzialità, mettere in comune il sé e l’altro. E il testo di Calvino lo fa in ciò che narra:

390 Ivi.

391 Ibid., p. 25. 392 Ibid., p. 26.

Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti393.

Lo fa cioè lungo la dimensione dei contenuti espressi; ma Le città

invisibili producono eterotopia anche nella propria struttura

narrativa, permessa e realizzata nell’incontro dei due sguardi del Kan e di Marco in un indeterminabile luogo tra la reggia del dominio e le memorie di viaggio, la continuità dell’autorità e l’intermittenza del desiderio, la scacchiera e la mappa, la prospettiva della norma e l’orizzonte dell’avventura, la mente imperiale e la mente nomade. E la struttura è allo stesso tempo l’obiettivo: fare mappa e negoziarla, rintracciare una terra di significati e metterla in comune per confutarla, contraddirla, ribaltarla, dichiararla falsa e apocrifa. Ricominciarla daccapo. Perché l’inferno <<è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo

tutti i giorni, che formiamo stando insieme>>394 nell’immobilità

del già visto, già recepito, già detto. L’inferno è l’esclusione dell’eterotopia, l’istituzione di un’omotopia assoluta, perfettamente simmetrica, indiscutibile,vergata una volta per tutte dalla cartografia euclideo-cartesiana. Il romanzo di Calvino propone un’alternativa, disegna un altroquando, esprime eterotopia:

E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà395.

In modo del tutto simile, in Perec, lo specchio è forma simbolica ricorrente e molteplicemente morfica che riproduce l’eterotopia, il luogo dell’altro, che apre la visione e mette in comunicazione

393 Ivi.

394 Ibid., p. 164. 395 Ibid., p. 27.

lo sguardo con il potenziale: paesaggi immaginabili, altri testi, mappe impreviste e perdute di significati mai percorsi o sprofondati sotto la soglia del noto. Per scorrere velocemente le occorrenze maggiormente evidenti nella Vie mode d’emploi - romans, è possibile citare <<un miroir octogonal encadré de marbre veiné>>396 che compare nel quinto capitolo, Foulerot, 1. Lo specchio arreda la stanza da bagno del quinto appartamento a destra, che in un primo tempo è definito vuoto. Eppure appare una giovane donna che dal corridoio si dirige verso il bagno. Il bagno è vuoto della sua presenza corporea ma contiene la sua immagine in movimento, grazie allo specchio. E grazie al testo che ne preannuncia, all’unisono con lo specchio, la comparsa. Lo specchio – e il testo che lo contiene a sua volta e lo mutua – complica la visione, la riflette, la smentisce, la duplica, abolendola come fatto e trasformandola in evento in fieri. L’immagine non è più detta, è in discussione. E’ discorso. La ragazza tiene in mano una rivista, <<Les lettres nouvelles>> - un alfabeto e una letteratura

nuove -, in cui è contenuto – eterotopia dentro eterotopia dentro

eterotopia -, una novella di Pirandello, <<Dans le gouffre>>. Il gorgo è un’eterotopia, è il precipitare dentro la profondità recondita, che sconcerta, fino al fondo stratificato e sotterraneo delle cose. La novella di Pirandello è un’eterotopia che squaderna la normale percezione del quotidiano, <<raconte comment Romeo Daddi devint fou>>397. La scena, come molte altre dentro La vie,

raffigura un’eterotopia a incastro, superfici speculari inscritte dentro – in profondità – altre superfici speculari, per reiterare all’infinito l’invito a scrutare più attentamente, a scoprire altri piani della scena, a scovare le tracce di spazi e tempi interconnessi. Fino a perdere la ragione, se necessario. Fino a liberarsi di una ratio imposta al soggetto da esternalità che si dichiarano imparziali e obiettive, e non lo sono. L’occhio segue sempre il tragitto che gli è stato apprestato. Le parole di Klee

396 G. Perec, La vie mode d’emploi – romans, Hachette, Paris, (1978), 2006, p.

38.

che aprono il Préambule suonano come un monito. E invece sono una dichiarazione di sincerità da parte dell’autore. Anche il suo testo, come ogni altra mappa, è il prodotto del suo particolare e intenzionale punto di vista. Ma Perec non nasconde il suo sguardo, lo esprime, rende manifesti <<les chemins>>398 architettati in

labirinto-grafie per l’occhio. Il monito di Klee è messo inoltre in relazione attiva – come succede al Kan e a Marco Polo nelle

Città invisibili - all’invito iniziale recuperato come eco da Michel Strogoff di Verne: <<regarde de tous tes yeux, regarde>>399.

Il testo rivela lo specchio che rivela il testo che rivela il mondo. Le mode d’emploi si propone, tra le altre cose, come manuale d’uso per la prassi geografica, che include – direbbe Lefebvre - la pratica spaziale, la rappresentazione dello spazio e gli spazi di rappresentazione. La mappa-testo di Perec disegna un’eterotopia contestulamente ai percorsi possibili del suo attraversamento e alle sue molteplici opportunità di incastro e corrispondenza dinamica con l’esperienza testuale e spaziale del lettore. La volontà di produrre un testo-mappa eterotopico è rivelato infatti da entrambi, Calvino e Perec, proprio nell’invito rivolto al lettore affinché entri nel romanzo, lo percorra e

cooperi alla realizzazione della sua essenza: la comunicazione

linguistica di senso. Così, infatti, Calvino parla della sua mappa-testo:

un libro (io credo) è qualcosa con un principio e una fine (anche se non è un romanzo in senso stretto), è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare un’uscita, o magari parecchie uscite, la possibilità d’aprirsi una strada per venirne fuori400.

E ancora:

398 Ibid., p. 17. 399 Ibid., p. 15.

in tutti i secoli ci sono stati poeti e scrittori che si sono ispirati al Milione come a una scenografia fantastica ed esotica: Coleridge in una sua famosa poesia, Kafka nel Messaggio dell’Imperatore, Buzzati nel Deserto dei Tartari. Solo Le Mille e una notte possono vantare una sorte simile: libri che diventano come continenti immaginari in cui altre opere letterarie troveranno il loro spazio; continenti dell’<<altrove>>, oggi che l’<<altrove>> si può dire che non esista più, e tutto il mondo tende a uniformarsi. A questo imperatore melanconico, che ha capito che il suo sterminato potere conta ben poco perché tanto il mondo sta andando in rovina, un viaggiatore visionario racconta di città impossibili401.

E qui sembra davvero che l’immagine archetipica di Borges, la sua combinatoria di specchio ed enciclopedia, sia flessa da Calvino fino a piallare la sua originale eterotopia dell’invisibile. Il suo romanzo è una mappa dell’altrove, traccia la forma nomade di un continente dell’immaginario. Se <<è un libro fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli>>402, è anche vero che Calvino si sbilancia un po’ e

rivela come il <<corsivo sugli atlanti del Gran Kan […] dal primo pezzo all’ultimo non fa che proporre varie possibili conclusioni a tutto il libro>>403. La mappa-testo eterotopica di Calvino si

presenta come un’enciclopedia di atlanti, un meta-atlante, un atlante della memoria à la Warburg, che stende una cartografia di forme simboliche, di significati, di esperienze linguistiche del mondo. Allo stesso modo, Perec, presentando il suo mode d’emploi, parte dall’arte del puzzle, individuando nel confronto costante tra mente ordinatrice e pezzo frastagliato da ordinare il nucleo basico della pratica euristica:

seule compte la possibilité de relier cette pièce à d’autres pièces, et en ce sens il y a quelque chose de commun entre l’art

401 Ibid., p. VIII. Il corsivo è mio. 402 Ibid., p. X.

du puzzle et l’art du go;404 seules les pièces ressemblées

prendront un caractère lisible, prendront un sens: considérées isolément une pièce d’un puzzle ne veut rien dire; elle est seulement question impossible, défi opaque; mais à peine a-t-on réussi, au terme de plusieurs minutes d’essais et d’erreurs, ou en une demi-seconde prodigieusement inspirée, à la connecter à l’une de ses voisines, que la pièce disparaît, cesse d’exister en tant que pièce: l’intense difficulté qui a précédé ce rapprochement, et que le mot puzzle – énigme – désigne si bien en anglais, non seulement n’a plus de raison d’être, mais semble n’avoir jamais eu, tant elle est devenue évidence: les deux pièces miraculeusement réunies n’en font plus qu’une, à son tour source d’erreur, d’hésitation, de désarroi et d’attente.405

Arte del puzzle e arte del Go hanno in comune con l’arte della narrazione e con la geografia – così come la intendono Farinelli e Lefebvre – lo stesso luogo di intersezione tra pezzi discreti, frammentari e frastagliati, che si realizza in discorso significativo solo nel momento della reciproca messa in comunione. Sono tutte arti della connessione, sono prassi di comunicazione, mappe di eterotopie che raffigurano l’enigma, il luogo della sfinge, la terra di nessuno che attende lo sguardo ricombinatore capace di far incontrare il sé e l’altro, di muovere i pezzi e tentare nuove, impreviste contiguità. E’ ciò che fa, a un tratto, il Kan:

da ogni città che Marco gli descriveva, la mente del Gran Kan partiva per suo conto, e smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti, spostandoli, invertendoli406.

404 gioco giapponese nel quale, fra due o quattro giocatori, vince chi riesce a

piazzare per primo cinque pedine in altrettante caselle consecutive orizzontali sopra una scacchiera che ne ha quattrocento [N.d.T. in Georges Perec, La vita,

istruzioni per l’uso, BUR, Milano, 2001, p. 7].

405 G. Perec, La vie, mode d’emploi, romans, cit., p. 17. 406 I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 43.

Le città invisibili, come i pezzi di un puzzle, le intersezioni del Go, i racconti e le mappa, sono morfemi di una lingua, grafemi archetipici ed eteromorfi di un linguaggio che richiede compartecipazione, che crea il luogo necessario e vitale all’uomo in quanto bios comunicante. E’ il linguaggio che disegna eterotopie, è il discorso giocato in comune a produrre mappe:

E’ delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra. [...] Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. – O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge407.

Come Calvino, inoltre, Perec permuta la forma della mappa-testo in ogni dimensione del campo comunicativo, intra, meta ed extra- testuale. La carica di potenziale significativo richiede infatti, sempre, la compresenza, la messa in relazione di sguardi, linguaggi, soggettualità. Come Calvino rilancia la sfida tra il Kan e Marco Polo al lettore, così Perec chiama in causa il lettore

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