Al termine del lavoro , è possibile tracciare un bilancio del ciclo di ricerca fin qui svolto è dare una risposta alle tematiche oggetto di studio. Nello specifico, alle questioni circa la configurabilità dell’istituto giuridico del mobbing, la ricerca dei suoi elementi costitutivi e, di conseguenza, dei suoi confini applicativi, e, infine, l’individuazione delle conseguenze giuridiche che ne discendono e dei mezzi di tutela attivabili. In ordine all’interrogativo messo in rilievo dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul se strutturare correttamente una fattispecie di mobbing quale istituto giuridico fonte di responsabilità o, comunque, di obbligazioni da fatto illecito, è necessario dapprima interrogarsi sulla necessità dell’introduzione di una nuova e specifica tutela contro le condotte mobbizzanti.
L’ordinamento fornisce al lavoratore e l e v a t i strumenti di tutela della sua persona, a partire dalla disciplina contenuta nello Statuto dei lavoratori fino ad arrivare al Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, che fanno dubitare dell’effettiva utilità
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dell’introduzione di un ulteriore fattispecie giuridica tipizzata di mobbing. Si evidenzia ,inoltre, la difficoltà immensa di tracciare i confini precisi di un fenomeno, quale quello in scrutinio, che può assumere connotati estremamente diversificati di caso in caso, rendendo l’applicazione dell’attività normativa in materia estremamente problematica al caso concreto, in quanto sottoposta al rischio di inefficacia pratica.
Il mobbing per sua natura ,secondo concorde dottrina, possiede due peculiarità che ne rendono imprescindibile l’autonoma configurazione giuridica: da un lato, è dotato di un’offensività molto maggiore della somma delle sue singole componenti, tant’è che la tutela offerta dall’ordinamento alla vittima non potrà mai considerarsi adeguata qualora non tenga conto del complessivo disegno persecutorio posto in essere dal mobber; in secondo luogo, il mobbing può pacificamente concretarsi, nella sua mutevole natura, anche attraverso condotte legittime, in sé considerate, che quindi non consentono al lavoratore l’accesso ad alcuna forma di tutela qualora la fattispecie non venga considerata nella sua unitarietà dall’ordinamento quale mobbing. Queste considerazioni evidenziano come, il mobbing, quale fenomeno atipicamente disciplinato, debba essere necessariamente valorizzato dall’ordinamento giuridico, per evitare il formarsi di preoccupanti “vuoti” di tutela e per apprestare un’appropriata protezione alle vittime di un così particolare fenomeno: l’istituto giuridico del mobbing introdurrebbe, infatti, un “valore aggiunto” alla tutela della persona del lavoratore a cui l’ordinamento non può restare indifferente.
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autonoma rilevanza giuridica al fenomeno del mobbing, però, i problemi che sorgono attengono soprattutto all’individuazione dei confini applicativi di tale istituto, ossia alla ricerca della linea di confine tra ciò che costituisce la “normale” e “fisiologica” conflittualità lavorativa e ciò che, invece, sfocia nella persecuzione mobbizzante. A tal riguardo vengono in rilievo quegli studi volti a ricercare i c.d. elementi costitutivi del mobbing, ossia gli elementi caratterizzanti la fattispecie mobbizzante che la distinguono dal mero conflitto.
La ricerca ha evidenziato come dai vari tentativi di definizione giuridica del mobbing risultino sì, da un lato, punti di accordo che possono definirsi ormai pacifici, ma anche, dall’altro, elementi dai contorni ancora non ben definiti.
Tra i primi, innanzitutto, l’elemento oggettivo del mobbing, ossia la condotta, che deve possedere i requisiti della frequenza e della durata (valutati dal giudice tenendo conto delle peculiarità del caso concreto e non in via generale ed astratta). Inoltre, anche la necessità della dimostrazione del nesso eziologico tra condotta e danno è pacifica; così come è da ritenere corretta la teoria dell’irrilevanza delle preesistenze personali della vittima per quel che riguarda l’interruzione del nesso di causalità. Tra i secondi, in particolare, suscita rilevanti dibattiti l’elemento soggettivo, ossia la rilevanza che deve assumere l’animus del soggetto attivo nella configurazione della fattispecie di mobbing. Dall’analisi effettuata in questo studio emerge che la ricostruzione più coerente con la ratio e la finalità ultima dell’introduzione della categoria giuridica del mobbing sia quella aderente alla c.d. concezione soggettiva del mobbing. Infatti, consentire la riconducibilità al mobbing di atti
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e comportamenti senza indagare sulla intenzionalità degli stessi rischia di allargare indiscriminatamente i confini della fattispecie, perdendo di vista il reale disvalore sociale che il mobbing esprime e che l’ordinamento è chiamato a reprimere. Tuttavia, per ragioni di ordine probatorio, non è coerente con il principio di effettività della tutela offerta al lavoratore vittima di mobbing subordinare la sussistenza della fattispecie alla dimostrazione del dolo specifico di estromettere il lavoratore dall’azienda o di procurargli un danno. Per tali motivi la soluzione preferibile è quella secondo cui l’elemento soggettivo del mobbing è costituito dal mero dolo generico: tale elemento funge, così, da spartiacque efficace tra ciò che costituisce mero conflitto e quindi rientra nel “normale” e “fisiologico” attrito nei rapporti interpersonali lavorativi – mancando di quella particolare potenzialità lesiva che caratterizza il mobbing – e ciò che rappresenta un sistematico comportamento persecutorio e vessatorio che, essendo volontariamente posto in essere, ha la capacità di produrre gravi conseguenze sulla vittima e integra quel disvalore sociale che viene ricondotto specificamente al fenomeno del mobbing.
Incertezze sussistono anche intorno all’elemento costituito dall’evento lesivo, la dottrina dividendosi tra coloro che ritengono influente sulla configurabilità o meno del mobbing la sensibilità personale del lavoratore vittima e coloro che, invece, ritengono tale circostanza soggettiva irrilevante. In tema si registra la possibilità di configurare il principio della c.d. tolleranza ex art. 1435 c.c. quale linea di confine tra mobbing e mero conflitto. In questo modo si consente la configurabilità del mobbing in quei casi in cui la condotta ha la capacità di
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produrre nocumento ad una persona sensata, avuto riguardo al sesso, all’età e alla condizione sociale, ossia tenendo conto delle particolari sensibilità della vittima quale appartenente ad uno specifico genere, ad una certa fascia d’età, ovvero in quanto versante in determinate condizioni sociali. In tal modo, la valutazione della sussistenza del mobbing tiene in adeguato conto le peculiarità della fattispecie concreta, anche relative alla persona del lavoratore destinatario della condotta mobbizzante, senza peraltro giungere all’estremo opposto secondo cui la sussistenza del mobbing dipenderebbe integralmente dalla sensibilità personale dell’individuo che ne è vittima.
In sostanza, il mobbing, quale istituto giuridico fonte di responsabilità, deve essere costruito in modo tale da ricomprendere esclusivamente le condotte che possiedono quello specifico disvalore sociale che lo connota, ossia la volontaria, sistematica e reiterata violazione della dignità del lavoratore che, protraendosi per un periodo apprezzabile e mantenendo intatta la sua incisività, è capace di produrre danni estremamente rilevanti alla sfera personale dell’individuo. Tale opera di delimitazione dei confini applicativi dell’istituto del mobbing deve essere finalizzata, quindi, a preservare la reale utilità dell’introduzione di siffatta categoria giuridica, riservando la protezione ai lavoratori che subiscono quel “di più” di offensività che caratterizza il fenomeno in questione, senza, però, giungere all’opposto di circoscrivere il mobbing entro confini eccessivamente ristretti, eliminando, nella pratica, ogni possibilità di tutela ai lavoratori. Il punto di equilibrio tra tali opposte esigenze deve essere ricercato tenendo conto delle caratteristiche intrinseche del mobbing e non facendosi
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dominare dal timore che la sua portata applicativa possa essere eccessiva. Le condotte riconducibili a l mobbing meritano tutela e se il mobbing è diffuso nel nostro mondo del lavoro allora diffusa dovrà essere anche la corrispondente protezione giuridica.
Stabilito che il mobbing è configurabile quale istituto giuridico ed accertati i criteri che devono guidare l’interprete – ed, eventualmente, il legislatore – nell’attività di individuazione dei suoi confini, resta da dare una risposta al quesito riguardante la tipologia delle conseguenze sul piano delle responsabilità che ne derivano. A tal riguardo, e a seguito dell’analisi di dottrina e giurisprudenza in materia effettuata in questo studio, occorre distinguere due ipotesi: quella in cui è chiamato a rispondere il collega mobber e quella in cui, invece, è invocata la responsabilità del datore. Mentre nel primo caso è pacifico che il mobbing fa sorgere una responsabilità tipicamente aquiliana ex art. 2043 c.c., nel secondo maggiori sono le incertezze riscontrate in giurisprudenza.
Chi scrive ritiene di aderire a quella che è la posizione pressoché unanime della dottrina, cioè alla tesi secondo cui la responsabilità datoriale per mobbing ha natura esclusivamente contrattuale. Il rapporto di lavoro, infatti, come da più parti viene sottolineato, è caratterizzato dall’implicazione della persona del prestatore e tale elemento di peculiarità distingue il contratto di lavoro da ogni altra forma contrattuale e ne giustifica la specifica disciplina da parte della fonte legislativa.
Ergo, essendo così forte l’implicazione della persona, nel
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prestatore, tra i quali la sua salute psicofisica, la sua dignità morale, la sua personalità, la sua professionalità, etc.. Da tale configurazione deriva che la responsabilità contrattuale del datore di lavoro è idonea a ricomprendere i danni a tali beni prodotti in ambito lavorativo, senza che il lavoratore abbia la necessità, per ottenere piena protezione, di invocare, accanto alla responsabilità contrattuale, anche la responsabilità extracontrattuale del datore. Inoltre, l’ordinamento dispone di una norma di diritto positivo quale l’art. 2087 c.c. idonea, per la sua ampiezza, ad essere invocata dalla vittima del mobbing per ottenere pieno ristoro, a titolo contrattuale, anche dei danni non patrimoniali da lesione ai beni attinenti alla sua sfera personale.
Ciò non toglie che, de iure condendo, un intervento legislativo in materia sia opportuno ed auspicabile, al fine di dare solide basi giuridiche alla tutela contro un fenomeno, quale quello del mobbing, che si sta sempre più diffondendo nel mondo del lavoro. Una disciplina legislativa ad hoc, infatti, da un lato eviterebbe le “oscillazioni di tutela” che ad oggi caratterizzano la giurisprudenza in tema di mobbing, dando certezza alla disciplina in materia, e dall’altro fisserebbe una volta per tutte gli elementi costitutivi e i presupposti alla presenza dei quali sussiste l’istituto giuridico del mobbing, aiutando gli operatori nella loro attività interpretativa.
Occorre a questo punto occuparsi del problema relativo alla tipologia di danni che possono discendere dalla fattispecie di mobbing. Mentre per quanto riguarda il danno patrimoniale, il danno morale e il danno biologico si sono raggiunti approdi stabili in dottrina e giurisprudenza, è nell’ambito del risarcimento del danno non patrimoniale c.d. esistenziale che si
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riscontrano i maggiori contrasti, soprattutto a seguito delle importanti sentenze del 2003 della Corte di Cassazione (nn. 8827 e 8828). A seguito della citata giurisprudenza, infatti, la Suprema Corte ha ammesso la possibilità di configurare una voce di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. al di fuori dei casi di reato, quando risulti leso un diritto sancito dalla Carta costituzionale. Tale danno, definito “da lesione di interessi costituzionalmente protetti”, ha aperto la possibilità di risarcimento ad una vasta gamma di ipotesi, tra le quali il tanto discusso danno esistenziale. Sebbene recentemente, con la sentenza n. 26972 del 2008, la Corte di Cassazione abbia formalmente “cassato” la definizione di “danno esistenziale”, è ancora possibile richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione di interessi costituzionalmente rilevanti, tra i quali rientrano senza dubbio la dignità morale e la personalità del lavoratore.
È opinione di chi scrive che, stando alla giurisprudenza di legittimità, non è possibile dubitare della piena risarcibilità del danno non patrimoniale da mobbing anche laddove il fatto non costituisca reato. Sarà poi compito del giudice valutare, caso per caso, se il nocumento al diritto costituzionalmente tutelato sia apprezzabile, evitando così di concedere il risarcimento dei danni c.d. “bagatellari”. Sempre il giudice dovrà provvedere alla liquidazione di siffatto danno non patrimoniale, rifacendosi, in assenza di disposizioni specifiche, ai criteri elaborati da dottrina e giurisprudenza. In materia è peraltro auspicabile, de iure
condendo, una soluzione analoga a quella adottata per la
liquidazione del danno biologico, ossia un sistema tabellare che fornisca al giudice una sorta di “valore punto” standardizzato,
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sul quale applicare, poi, le dovute variazioni che tengano conto delle peculiarità della fattispecie concreta (la c.d. “personalizzazione” della liquidazione del danno).
Per quanto attiene alla prova di una siffatta tipologia di danno, si aderisce a quella che potrebbe definirsi come la teoria “relativa” del danno in re ipsa. Tale costruzione teorica considera implicito e non bisognoso di prova il danno oggettivamente collegato alla condotta lesiva, ossia la normale conseguenza dell’offesa arrecata, mentre richiede una prova rigorosa in tutti quei casi in cui, invece, il danno sia soggettivamente collegato alla situazione personale della vittima. In tal modo, da un lato, si elimina il rischio di configurare il risarcimento del danno non patrimoniale come una sorta di “pena privata” sganciandolo da ogni dimostrazione probatoria, e, dall’altro lato, non si richiede al ricorrente il soddisfacimento dell’onere probatorio tanto gravoso quanto, sovente, inutile in considerazione della natura del bene leso in quei casi in cui il danno sia la normale conseguenza della condotta illecita.
Infine, occorre domandarsi se i mezzi di tutela apprestati dall’ordinamento per proteggere il lavoratore vittima di mobbing siano dotati del carattere dell’effettività. A tal proposito occorre rilevare che, stando all’analisi della giurisprudenza in materia, il principale rimedio concesso ai lavoratori è il risarcimento del danno per equi- valente monetario. Come si è già avuto modo di sottolineare, siffatta forma di tutela, collocandosi in un momento successivo rispetto alla produzione del nocumento in capo al titolare del diritto protetto, è inidonea ad offrire una tutela “piena”
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dell’interesse tutelato. Quest’ultimo, infatti, nei casi di mobbing è rappresentato da un diritto della persona che, come tale, non è suscettibile di reintegrazione in forma specifica una volta che abbia subito una lesione. Per questi motivi si ritiene che il risarcimento del danno per equivalente monetario dovrebbe ricoprire nell’ordinamento un ruolo residuale e dovrebbe trovare applicazione soltanto laddove i rimedi integralmente satisfattori non possano essere utilizzati.
Nel caso specifico del mobbing, peraltro, l’unico metodo per dare effettiva e piena tutela al lavoratore è quello di contrastare il fenomeno in via preventiva per evitare che si realizzi, ovvero, quando si sia comunque realizzato, integrare il rimedio risarcitorio con un’adeguata tutela inibitoria che impedisca il ripetersi dell’illecito in futuro. L’obiettivo di prevenzione può essere attuato esclusivamente tramite politiche del lavoro che consentano di raggiungere maggiore “serenità lavorativa”, cioè che eliminino (rectius, riportino entro limiti fisiologici e ragionevoli) il conflitto sul posto di lavoro tra colleghi e tra dipendenti e datore di lavoro. In tal senso, l’adozione di codici di condotta a livello aziendale o di contrattazione collettiva può essere uno strumento utile al fine di ricondurre la concorrenza e la competizione lavorativa entro i limiti della correttezza e del rispetto della persona.
In sostanza, il nostro sistema processuale riconduce la protezione del lavoratore vittima di mobbing, anche volendo percorrere la strada della tutela inibitoria, alla conversione dell’obbligo di astenersi dal comportamento illecito in un risarcimento del danno per equivalente monetario; con ciò contribuendo ad alimentare la già marcata tendenza alla
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“monetarizzazione” di ogni cosa tipica dell’epoca moderna. In linea con tale distorta concezione dei beni della persona, però, sarebbe possibile ottenere l’utile effetto di prevenire le lesioni all’integrità psicofisica e morale dei lavoratori attraverso la predisposizione di adeguate misure amministrative a carattere coercitivo di natura pecuniaria. Un sistema di questo tipo potrebbe indurre i soggetti implicati nel rapporto di lavoro, sotto la minaccia reale e preventivamente quantificata di una perdita economica, ad astenersi dal realizzare atti o comportamenti integranti mobbing (con ciò rendendone possibile la prevenzione), ovvero a conformarsi ai provvedimenti inibitori disposti dall’autorità giudiziaria (con ciò rendendo effetti- va l’esecuzione della tutela inibitoria).
Ovviamente, accanto alla tutela specifica contro il mobbing, i lavoratori dispongono altresì di quei mezzi di tutela previsti dall’ordinamento in una vasta serie di ipotesi, quali il licenziamento illegittimo, i trasferimenti illegittimi, le discriminazioni, i vizi della volontà e le fattispecie penalmente rilevanti. È altrettanto ovvio, però, che tali forme di tutela, da un lato, non sono state pensate dal legislatore alla luce delle peculiarità del complessivo disegno mobbizzante, che ne rende la lesività e il bisogno di protezione ancor più forti, e, dall’altro lato, possono essere invocate solo qualora il fatto di mobbing integri gli estremi dell’ipotesi specifica a seguito della quale sorge il diritto ad azionare il mezzo di tutela stesso.
In conclusione si ritiene che sia compito del giurista quello di trovare efficaci strumenti a garanzia della completa tutela della persona del lavoratore anche in relazione al fenomeno del mobbing e nonostante le difficoltà e le insidie che il
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riconoscimento giuridico di siffatto fenomeno sociale porta con sé. Nello svolgimento del suo fondamentale compito sociale, oltre che giuridico, infatti, il giurista non deve mai trascurare un dato di fatto incontrovertibile e di primaria importanza, ossia che il lavoro è spesso “sinonimo di vita e fonte
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