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Il padiglione russo: inizio e fine di una storia (XI Esposizione, 1914)

Nell’Esposizione del 1912 parve necessario, per ragioni ben note, restringere il campo della produzione straniera; nell’anno venturo, invece, questa sarà rappresentata con grande larghezza e varietà. Importa dunque che, di fronte al cospicuo contributo degli stranieri, l’Arte nazionale si affermi con le sue migliori virtù (Invito ASAC 1913).

Nulla meglio di questa esortazione a produrre un’arte italica e virtuosa descrive il crescente clima di competizione fra le nazioni percepito a Venezia all’alba della Prima Guerra Mondiale. Il sovrapporsi di interessi artistici a istanze di natura prettamente politica è evidente nell’attività propagandistico-oratoria di Fradeletto, affrontata non soltanto dagli scranni della Camera dei Deputati, ma anche nelle sue numerose letture pubbliche tenute negli anni pre-bellici, che gli valsero l’appellativo di “principe dei conferenzieri italiani” (Isnenghi 2001: 9). Fradeletto era socio fondatore e portavoce della Società Dante Alighieri, istituita non soltanto per promuovere la cultura italiana all’estero, ma anche per tutelare le popolazioni italiche residenti nell’area adriatica e mitteleuropea “contro lo slavismo subdolo, contro il germanesimo invadente, contro il magiarismo soverchiatore” (Fradeletto, cit. in Levi 1924: 4).

La retorica nazionalista prese così piede nei proclami che annunciavano l’Esposizione del 1914 come l’edizione con il maggior numero di artisti sia italiani che stranieri, come poi effettivamente sarebbe stato. Un intellettuale cosmopolita come Vittorio Pica, memore dei plausi ottenuti a Roma come Commissario dei paesi stranieri, se da una parte non sfuggì a una certa retorica sciovinista, dall’altra sottolineò la necessità di ritornare all’antica vocazione internazionale della manifestazione veneziana:

L’importanza eccezionale che, per numero e per qualità di opere, aveva assunta la partecipazione straniera in confronto a quella italiana, nella mostra d’arte internazionale tenutasi a Roma nel 1911 ed il momento di giustificato orgoglio nazionalista che attraversava, lo scorso anno, il nostro Paese spiegavano e rendevano anzi lodevole il proposito della Presidenza delle “Biennali” veneziane di fondare l’importanza speciale della X° esposizione sul contributo larghissimo chiesto per essa all’odierna arte italiana […] Insistere, però, in tale proposito nel 1914 sarebbe un errore […] Bisognerà dunque limitare di nuovo il numero delle sale da assegnare all’arte italiana, pur accordandogliene qualcuna dippiù di quante ne avesse nell’VIII°

235 Una parte delle informazioni e degli spunti bibliografici utili alla redazione di questo sottocapitolo

è tratta dalla relazione presentata all’Università Ca’ Foscari di Venezia il 23 maggio 2008 alla giornata di studi www.russinitalia.it l’emigrazione russa in Italia on line, e successivamente pubblicata negli atti (Bertelé 2009).

182 e nella IX° mostra, in considerazione dell’aumentato numero di padiglioni stranieri

(Pica ASAC 1913).

Nel biennio compreso fra il 1912 e il 1914 notevole fu l’impegno prodigato per l’insediamento di nuovi padiglioni e il completamento di quelli già avviati o in fase di trattativa. Per agevolare queste pratiche Fradeletto aveva investito Pica di un nuovo incarico, anch’esso del tutto inedito all’interno dell’organigramma dell’Esposizione, ossia quello di Ispettore ai padiglioni nazionali. Vedendo diminuito il proprio peso all’interno dell’Esposizione, di cui continuava comunque a coprire la carica di Vice-Segretario, Pica espresse a Fradeletto il proprio malumore:

Stavolta debbo proprio pregarti […] di non volere insistere nel proposito di relegarmi lontano dalla nostra cara città dell’esposizione a fare il sorvegliante di tre padiglioni stranieri, quasi che fossi caduto in disgrazia e non sapessi fare nulla di meglio. Sarebbe come se, all’indomani di una trionfale vittoria, ad un colonnello che vi ha contribuito per la sua parte, si desse l’incarico solitario e inusuale di guardiano di un faro su di uno scoglio lontano dal campo glorioso! (Pica ASAC 1913)

I padiglioni in fase di completamento erano tre (Francia, Germania e Svezia)236, ma in cantiere ve n’erano almeno altrettanti, ossia quelli di Spagna, Austria, Olanda e Russia, l’unico poi effettivamente portato a termine entro il 1914 (Fradeletto ASAC 1913b) 237. Nella competizione tra i padiglioni fu coinvolto anche il Palazzo dell’Esposizione, il quale per l’occasione si dotò di una nuova facciata, realizzata in pieno stile eclettico con influssi neoclassici e orientaleggianti, e di nuovi allestimenti interni, come il Salone centrale decorato da Galileo Chini con gusto spiccatamente klimtiano.

In quegli anni Fradeletto vide nell’insediamento dei padiglioni il profilarsi di nuove alleanze sulla scena internazionale. Nella penisola balcanica l’Italia conduceva una doppia politica diplomatica, per cui se da una parte era giunta a un’ importante intesa con la Russia, dall’altra rinsaldò i rapporti con l’Austria, con cui nel 1912 rinnovò il trattato della Triplice Alleanza, vanificando in buona parte gli accordi di Racconigi (Petracchi 1993: 98-99). Così a Venezia, proprio nel 1912, parallelamente al progetto oramai avviato del padiglione russo, si affacciò brevemente l’ipotesi della costruzione del padiglione austriaco (Fradeletto ASAC 1912; Pica ASAC 1912c).

236 Il padiglione svedese, dopo l’inaugurazione nel 1912, non fu rilevato dal Governo di Stoccolma e

due danni dopo venne ceduto all’Olanda. Per il cambio di proprietà fu sufficiente sostituire il nome del paese riportato sulla facciata (May 2009: 79).

237 Il documento da cui sono tratti i nomi dei paesi interessati a un padiglione è una richiesta di

stanziamento fondi inoltrata da Fradeletto al Ministro della Pubblica Istruzione. Giustificati come investimento necessario a “offrire al pubblico uno specchio fedele del movimento artistico contemporaneo” (Fradeletto ASAC 1913a), i finanziamenti vennero infine concessi (Fradeletto ASAC 1913b).

183 Fradeletto arrivò addirittura a contemplare un’espansione dell’Esposizione al di fuori dei Giardini proprio ad opera dei due paesi:

Il padiglione russo mi fa venire un’idea. Non si potrebbe costruirlo, insieme all’austriaco ed eventualmente, sull’altra sponda del canale? Sarebbe una presa di possesso di S. Elena e d’una grande, nuova attrattiva (Fradeletto ASAC 1913c) 238.

Il progetto del padiglione austriaco venne tuttavia accantonato per gli elevati costi di costruzione; l’Austria avrebbe “debuttato” a Venezia nel luglio del 1918, ben prima della ripresa dell’attività espositiva, con un’esibizione di trofei di guerra, ossia di armi sottratte dalle truppe italiane allo sconfitto esercito austro-ungarico (May 2009: 92). Questo a ulteriore conferma di quanto i sentimenti anti-asburgici, percepiti con forza maggiore nelle Tre Venezie, avessero condizionato fino all’ultimo la politica espositiva promossa dal Segretario Generale.

Fradeletto era fermamente convinto della necessità di un’alleanza con l’Impero zarista, avvertita non soltanto come “tanto più opportuna, tanto più utile” per ambizioni comuni nella penisola balcanica (Fradeletto 1915: 32), ma anche come “contro rassicurazione” utile a “proteggere uno fra gli alleati contro gli eventuali tentativi di sopraffazione dell’altro”, intendendo, con queste parole, la monarchia danubiana (ibid: 31-32). Nelle relazioni fra Italia e Russia alla fine avrebbe prevalso quello che Sergio Romano ha definito “gioco di sponda”, ossia un rapporto d’intesa motivato dalla necessità non tanto di instaurare contatti reciproci, quanto di fare fronte comune contro una potenza invisa a entrambe le nazioni (Romano 1995: 109- 110) 239.

Solo con l’intervento dell’Italia al fianco della Triplice Intesa nel maggio 1915, l’alleanza con la Russia avrebbe rivelato tutta la propria portata, soprattutto dopo il suo abbandono delle armi nel 1917 e il conseguente ritiro delle truppe degli Imperi Centrali dal fronte orientale, con ritorsioni gravissime sull’esercito italiano, di lì a poco incappato nella ritirata di Caporetto (Fradeletto 1918: 19-20). Ricorderemo che il ruolo politico cruciale avuto da Fradeletto in questi anni, non solo nella decisione di nuove linee strategiche, ma anche nella loro propagazione, gli avrebbe valso la nomina a Ministro delle Terre Liberate nel 1919.

238 La contemplata espansione dell’Esposizione sull’isola di Sant’Elena sarebbe poi stata realizzata

soltanto nel 1932, con l’insediamento di nuovi padiglioni eretti in pieno stile colonial-fascista. Nel 1934 fu inaugurato anche il padiglione austriaco, su progetto di Josef Hoffmann, uno dei padri della Secessione viennese.

239 Romano sostiene che il “gioco di sponda” è il “tipo di rapporto che ha maggiormente caratterizzato

184 La realizzazione del padiglione russo entro il 1914 si doveva quindi a un rinnovato interesse da parte italiana a ospitare l’Ambasciata delle Arti di un paese che si andava profilando come un prezioso alleato. Questo interesse era evidententemente corrisposto in Russia, al punto di sollecitare l’intervento della famiglia reale, nella persona della granduchessa Marija Pavlovna. L’Augusta Presidente dell’Accademia Imperiale di Belle Arti era rimasta favorevolmente impressionata dalla calorosa accoglienza riservata ai padiglioni russi inaugurati in sua presenza a Roma e Torino nel 1911. La granduchessa si era quindi recata a Venezia per scegliere di persona l’appezzamento di terreno dei Giardini su cui erigere il padiglione Imperiale (Russkij pavil’on’’ 1915: 180). La scelta cadde su uno dei lotti più ambiti, collocato alla fine del Viale dei Giardini e ai piedi della cosiddetta Montagnola, un rilievo artificiale sulla cui sommità si innalzavano i padiglioni di Inghilterra, Francia e Germania. Particolare non trascurabile era inoltre la vista sulla laguna.

Settimo padiglione per ordine di costruzione, quello russo sarebbe stato il primo interamente commissionato e edificato da un’istituzione posta alle dirette dipendenze di una famiglia regnante. Questo, tuttavia, senza pesare sulle casse imperiali. I fondi per l’intero progetto furono messi a disposizione da Bogdan Chanenko, membro onorario dell’Accademia di San Pietroburgo, nonché noto imprenditore, filantropo e collezionista molto attivo sul fronte degli scambi, di natura sia commerciale che artistica, con l’Europa occidentale e l’Asia (Kondakov 1914: 56) 240.

Il progetto del padiglione non decollò finché la scelta del progettista non cadde su Aleksej Ščusev, celebrato dalla stampa come “il più brillante e promettente rappresentante dell’odierna architettura russa” (Russkij Pavil’on’’ 1914: 201) 241. Ščusev, noto fino ad allora principalmente per la costruzione di chiese ed edifici ecclesiastici nello stile dell’antica Rus’, aveva ottenuto nell’ultimo lustro committenze pubbliche e riconoscimenti importanti da parte dell’Accademia

240 Durante le sue incursioni in Europa, e in particolar modo in Italia, Chanenko aveva acquistato

numerose opere d’arte, poi confluite nel museo che oggi porta il suo nome, conosciuto anche come

Kievskij Muzej zapadnogo i vostočnogo iskussstva (Museo d’arte occidentale e orientale di Kiev). Al

giorno d’oggi il museo costituisce la più importante collezione pubblica d’arte straniera in Ucraina. Noteremo che la stampa italiana, nel riportare ed elogiare il nobile gesto di Chanenko, gli aveva erroneamente assegnato la carica di ciambellano di corte.

185 Imperiale, di cui era stato nominato socio effettivo e Architetto 242. Intorno al 1910 la sua fama raggiunse anche l’Europa, grazie alla sua partecipazione ad alcune rassegne internazionali provviste di sezioni dedicate all’Architettura, come il Glaspalast di Monaco o il Padiglione russo a Roma, dove presentò schizzi e disegni dei suoi progetti, non privi di valore artistico (Illustrierter Katalog 1909: 224; Esposizione Internazionale di Roma 1911: 90).

Negli stessi anni, Ščusev si trovava a capo di un altro ambizioso progetto edilizio su suolo italiano, la Chiesa Russa di Bari con l’attigua foresteria per i pellegrini ortodossi, la cui costruzione era patrocinata, e in parte finanziata, dallo Zar in persona. Entrambi gli edifici erano ispirati all’architettura antica di Pskov e Novgorod, reinterpretata con spirito moderno ed eclettico secondo i dettami del cosiddetto “neorusskij stil’’” (“stile neorusso”). La scelta di adottare uno stile russo, o presunto tale, per un edificio in Italia, “paese classico”, poteva al primo sguardo apparire un atto “barbarico”, ma scaturiva dalla concezione di Ščusev della storia dell’architettura come una progressiva stratificazione di stili e tendenze, manifestazioni del gusto di ogni epoca. Solo con il senno di poi questa sovrapposizione poteva apparire come un insieme di “conglomerati” disomogenei, a cui tuttavia non si era sottratta nemmeno l’Italia, a partire dai suoi complessi più celebri, come piazza San Pietro a Roma o piazza San Marco a Venezia. Ščusev dall’alto della sua formazione storicistica sosteneva a proposito dell’architettura:

L’essenza non si trova in ricette estetiche e alla moda inventate precedentemente, ma nell’arte e nel gusto con cui l’artista dà forma alle idee e ai sentimenti del proprio tempo e li combina in un gruppo comune di cose appartenenti alle epoche precedenti (Ščusev 1914: 24) 243.

I progetti per il padiglione russo di Donghi e di Ščusev, l’uno italiano l’altro russo, erano quindi accomunati dall’intenzione iniziale di ispirarsi all’architettura religiosa dell’antica Rus’. Per il primo, come si è visto, questa era improntata alle forme bizantine, per il secondo, invece, si trattava di una forma già autenticamente russa, dalla quale misconosceva qualsiasi tipo di influenza esterna. L’accostamento fra architettura religiosa ed espositiva non era del tutto inappropriato nel caso russo, in quanto la visita alle esposizioni ottocentesche era stata spesso sentita e descritta

242 In vista di questa doppia nomina, a Ščusev spettò un posto d’onore nel volume edito nel 1914

dall’Accademia Imperiale in occasione del suo 150° anniversario. Nella breve biografia dell’architetto, l’unico edificio indicato è proprio il padiglione russo (Kondakov 1914: 11).

243 “Sut’ – ne v’’ zaranee pridumannych’’ estetičeskich’’ i modnych’’ receptach’’, a v’’ iskusstve i

vkuse, s’’ kotorymi chudožnik’’ osuščestvit’’ mysli i čuvstva svoego vremeni i sočetaet’’ ich’’ v’’ obščuju gruppu veščej prežnich’’ epoch’’”.

186 come un vero e proprio pellegrinaggio verso i templi dell’età moderna, come “un’erranza verso il meraviglioso, ricerca dell’inusuale e dell’esotico, viaggio esplorativo nella novità” (D’Amelia 2009: 21).

Con l’investitura di Ščusev a architetto del padiglione russo da parte del Governo committente, l’Esposizione si vide costretta a sollevare dall’incarico Donghi. Nell’autunno del 1913, l’ingegnere avrebbe avuto modo di osservare, non senza un certo rammarico, l’avvio dei cantieri:

Ho visto che stamane si posa la prima pietra del Padiglione Russo. Il mio progetto è dunque sfumato. Sarei perciò a pregarla di volermene ritornare lo schizzo per tenerlo fra i miei atti. Chi lo costruisce? Gli stessi Russi?

Mi duole assai di non aver potuto aver l’onore di costruirlo io stesso e di avere il piacere di servire ancora l’Esposizione e il Prof. Fradeletto (Donghi ASAC 1913).

L’appalto del progetto rimase comunque in mano veneziana. L’impresa di costruzioni Samassa, sotto la direzione dell’ingegnere Fausto Finzi, si occupò di realizzare per la somma di 50.000 lire il progetto di Ščusev, in conformità “al suo modello in gesso depositato presso l’Ufficio tecnico comunale” (Bazzoni 1913) 244, portato dall’architetto stesso a Venezia durante il suo primo sopralluogo 245.

Il primo gennaio 1914, a cantieri ancora in corso, entrò in vigore il contratto di locazione del padiglione, stipulato tra Grimani e l’ambasciatore russo a Genova, il principe Gagarin, in rappresentanza dell’Accademia di San Pietroburgo (Fig. 31). L’accordo prevedeva la cessione dell’immobile a un canone simbolico (10 lire) per vent'anni, durante i quali il padiglione rimaneva di proprietà dell’Accademia Imperiale, a condizione di coprirne tutte le spese, dall’allestimento delle mostre alla manutenzione ordinaria.

Nel febbraio del 1914 giunse a Venezia Petr Bezrodnyj, pittore e diplomatico, fondamentale figura di riferimento per le arti russe in laguna negli anni a venire (Bezrodnyj ASCV 1914). Il suo contributo si sarebbe rivelato indispensabile nella fase di allestimento del padiglione, all’interno del quale avrebbe anche esposto due paesaggi a soggetto italiano (Capri; Sul vecchio ponte) (Fig. 37).

244 La citazione è presa da una tesi di laurea in cui sono stati riportati numerosi documenti d’archivio

dell’ASAC, fra cui la serie Copialettere (da cui è presa la lettera in questione) oggi non consultabile per motivi di conservazione. La tesi costituisce quindi una preziosa fonte d’informazioni e va a supplire le carenze odierne dell’Archivio.

245 Il primo soggiorno di Ščusev in Italia risaliva al 1897. Si trattava di un viaggio di studi, durante il

quale ebbe modo di visitare numerose città d’arte a partire proprio da Venezia, immortalata in diversi schizzi e disegni (Družinina-Georgievskaja 1955: 18-19, 137; Sorokin 1897: 138-159).

187 Il progetto del padiglione russo di Ščusev occupava una superficie di 450 m2. Così come a Roma, anche a Venezia era l’unico, fra i vari padiglioni nazionali, dislocato su due piani. Il pianterreno, non accessibile al pubblico, era adibito a magazzino, mentre il primo piano avrebbe ospitato gli spazi espositivi, suddivisi in tre ambienti attigui di diverse altezze, ossia vestibolo, salone centrale e saletta. L’accesso era reso possibile da una scalinata addossata alla facciata principale dell’edificio, sul lato del Viale dei Giardini, che conduceva al vestibolo attraverso un’edicola. L’ampia sala centrale, priva di aperture verso l’esterno, era illuminata dall’alto da una serie di lucernari ricavati nella parte superiore del tetto. Questo, a quattro falde, era sormontato dallo stemma imperiale dei Romanov, l’aquila bicefala, mentre sulla facciata dell’edificio era riportato l’anno di costruzione (Fig. 32). Le decorazioni esterne prevedevano delle semicolonne emergenti dalle pareti e sormontate da due cornici, la seconda delle quali era posta a filo di gronda; da questa dipartiva “una teoria di archetti in stile tardo bizantino” (Mulazzani 1988: 59). Un altro unicum del padiglione, rispetto a quelli già esistenti, era costituito dalla terrazza, accessibile dal salone centrale e affacciata sulla laguna:

La terrazza con vista sulla laguna dà la possibilità al visitatore della mostra, stremato dalla contemplazione delle opere d’arte, di riposare, ammirare la natura e respirare la fresca aria marina (Russkij pavil’on’’ 1915: 180) 246.

Per l’arredo Ščusev si era avvalso della collaborazione di due artisti-artigiani moscoviti, Ja. Z. Lipatov e Leonid Pjanovskij, autore, quest’ultimo, anche del cancelletto posto all’ingresso della scalinata e decorato su disegni di Ščusev stesso (Catalogo 1914: 202; Russkij pavil’on’’ 1915: 180) 247.

Anche nella scelta dei materiali di costruzione Ščusev si era affidato al proprio gusto ecelettico, ricorrendo in parte a elementi e tecniche locali, soprattutto per i rivestimenti esterni, come “pietra d’Istria o marmo di Verona” per la scala esterna e una pavimentazione “alla veneziana a semina media” per la terrazza (Fradeletto 1913b). Nell’intento di conferire un tocco caratteristico al padiglione, con uno sguardo all’architettura ecclesiastica della Russia settentrionale, sia Donghi che Ščusev avevano pensato all’utilizzo del legno. Ma mentre l’ingegnere aveva

246 “Terrasa s’’ vidom’’ na lagunu daet’’ vozmožnost’ utomlennomu ot’’ sozercanija proizvedenij

iskusstva posětitelju vystavki otdochnut’, poljubovat’sja prirodoju i podyšat’ svěžim’’ morskim’’ vozduchom’’”

247 Non è stato possibile risalire alle generalità di Lipatov, se non alle iniziali del nome e del

patronimico. In una fonte bibliografica leggiamo che Ščusev collaborò anche con un carpentiere russo di stanza a Bari, tale D. T. Kamyškov (Russkij pavil’on’’ 1915: 180).

188 rinunciato all’idea, in ossequio alle più basilari norme anti-incendio, l’architetto era riuscito ad imporne l’utilizzo per la pavimentazione interna, realizzata “a parchetti di rovere a spinapesce”248 (Fradeletto 1913b). Altre indicazioni di Donghi vennero

comunque tenute per buone e adattate al progetto russo, come l’uso della pietra artificiale per le decorazioni esterne e il ricorso al bugnato per il rivestimento della parte inferiore dell’edificio, in corrispondenza del piano terra.

Il padiglione si presentava come una commistione di stili e materiali di diverse epoche e culture, ripresi in uno stile “nazionale” e rivisitati in chiave moderna. Proprio in questa capacità rielaborativa e inventiva consisteva, secondo i giudizi dell’epoca, la principale dote dell’architetto: “A.V. Ščusev non copia il vecchio, ma ripristina lo spirito del passato e da esso trae spunto in forme semplici, chiare e affini alla gente russa” (Russkij pavil’on’’ 1914: 202) 249.

Nella storiografia dell’Esposizione il padiglione russo si poneva quindi non sulla linea moderna, sintetica e internazionale, inaugurata dal padiglione belga, ma su quella storicistica, citazionistica e nazionale di “recupero regionalista già proposto dall’edificio dell’Ungheria” (Mimita Lamberti 1995: 46) 250.

Il rifiuto di uno stile internazionale, come poteva esserlo in chiave retrospettiva il classicismo tornato in auge in Russia all’inizio del XX secolo, era evidente per Ščusev fin dall’esclusione di stilemi “classicheggianti” dichiarata nel suo progetto per la foresteria di Bari e confermata a Venezia dalla cesura con l’estetica espositiva adottata dalla Russia nell’ultimo decennio. Il neoklassicizm (neoclassicismo) era infatti diventato il principale stile di rappresentanza all'estero della Russia, che lo aveva scelto per i padiglioni di Roma e Torino progettati da Vladimir Ščuko (Fig. 27, 28) 251. Uno stile nel quale i critici europei non avevano individuato alcuna traccia antica né internazionale, ma esclusivamente il trionfalismo zarista, tanto da essere bollato dalle cronache di allora come “Empire Russe” (Gorrini 1915: 79) o “stile impero” (Pica 1911: 121). La diffusione del

248 Anche per il progetto della foresteria della Chiesa russa di Bari, Ščusev era ricorso a materiale

locale come il tufo, dimostrando così sensibilità e apertura verso altre scuole e tecniche edili. Pure in questo caso fece un’eccezione per i pavimenti, ricorrendo al parquet (Ščusev'' 1914: 26-27).