Isabella Croce
La mattina del 10 febbraio 1639 Carlo Salvago 1, in un salotto del pa-lazzo ove abitava in Strada Nuova, assieme al cugino Paris 2, entrambi pro-curatori della famiglia, stipulava un contratto con l’architetto Bartolomeo Bianco per rimodernare et alsare la nuova sede dell’Albergo da Piazza dei Salvago. Nel nome del Signore ed alla presenza del notaio e di due testimoni le parti si accordano, incontrandosi su di un lungo e minuzioso capitolato, scritto per mano del Bianco stesso, secondo i desideri della nobile famiglia 3. Il palazzo sorge in quella che fu la contrada dei Salvago, nella via oggi de-nominata Vico Vegetti, al civico n. 1; vi si accede percorrendo un cortile lungo e stretto, incastrato tra il palazzo suddetto e la casa della loggia, che si affaccia sulla piazza (odierno civico n. 25 di Via San Bernardo).
L’edificio è un’antica proprietà Salvago, già appartenente al ramo di Alerame, così come il fondaco sul quale si affaccia, che però, sino a quel
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* Il presente saggio è estratto da uno studio assai più ampio, volto ad approfondire ulte-riormente alcune delle tematiche trattate nella mia tesi di laurea. Alla Marchesa Camilla Salva-go Raggi, ultima discendente della famiglia SalvaSalva-go, vanno i miei più sinceri ringraziamenti, per la disponibilità, l’interesse e l’amicizia concessami.
1 Carlo quondam Enrico all’epoca del contratto aveva quarantasette anni. Suo padre fu tra gli Ill.mi Governatori della Repubblica e grazie alla sua ricchezza e notorietà riuscì a con-quistarsi un ambito spazio di pertinenza delle famiglie e degli uomini tra i più prosperi di fama e di denaro della città, acquistando nel 1587 da Baldassarre Lomellino un palazzo in Strada Nuova (odierno civico n. 12). Ciò gli permise di avere un’immagine pubblica potente, rinsaldata dal fortunato matrimonio con Maria Livia Doria, figlia del Doge Nicolò e soprattutto sorella del-l’ancor più noto Doge Gio Stefano. I. CROCE,La Contrada dei Salvago. Nascita e sviluppo di un insediamento nobiliare nella città di Genova e in allegato Albero genealogico della famiglia Salvago, Tesi di Laurea, Facoltà di Architettura di Genova, a.a. 1996-97, rel. Prof. E. Poleggi.
2 Paris era figlio primogenito di Stefano e di Paola Pinella di Luciano; era sposato con Benedetta Spinola quondam Giacomo Maria ed era proprietario del palazzo in Via San Luca attuale civico 12. Ibidem.
3 Archivio di Stato di Genova (in seguito A.S.G.), Notai Antichi, n. 6790, notaio Gio Stefano Ceronico, 1625-1639.
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momento, era stato una pertinenza della casa della loggia. In origine il fon-daco aveva probabilmente anche un secondo accesso, per rendere più agile il traffico delle merci, attraverso un vicolo che si immetteva in via San Bernar-do. Il vicolo venne chiuso il 22 aprile 1510 4 a causa della diminuzione dei commerci e della conseguente riduzione del fluire delle merci in contrada. I magazzini o volte, come venivano chiamati gli spazi deputati alla raccolta delle mercanzie, si trovavano ovviamente nella casa della loggia. Il nostro palazzo pare, a quanto racconta il Bianco, fosse anch’esso fornito di un fon-daco, leggermente rialzato rispetto a questo e di dimensioni maggiori; infatti egli annota che il vecchio debba essere abbassato al pari del nuovo, che egli dice essere picolo, suggerendo inoltre una comunicazione tra i due. Questo secondo fondaco, oggi inesistente, confinava con la muraglia del giardino di proprietà di Paolo Sauli quondam Bartolomeo, situato proprio alle spalle della sede dell’Albergo.
La famiglia Salvago, nata dall’aggregazione di più famiglie 5, si era stabi-lita qui dal X secolo e continuò a gestire questa porzione di città sino a tutto il XVIII. La loro contrada (Fig. 1-2) fu una delle più antiche della ci-vitas, sorta ai piedi della collina del castrum, a ridosso della mano protettrice del Vescovo ed affacciata sull’asse rettilineo di Platealonga 6 che congiungeva il mercato di S. Giorgio, centro della città, alla Porta Superana. Qui la struttura urbana ed architettonica si conformò alle leggi del gruppo: vi era un centro in cui i consorti si incontravano ed una loggia ove discutevano, un fondaco in cui giungevano le merci ed i magazzini o volte in cui venivano raccolte. Inoltre tutto quello che, a seconda delle epoche, era necessario al clan (come ad esempio un pozzo, il forno, etc...) veniva costruito, modifi-cato, spostato, sempre entro quegli stessi stretti e chiusi confini, caparbia-mente. In pratica la contrada gestiva in maniera totalmente autonoma il proprio spazio e le proprie case; il maggior nato della famiglia, il
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4 Proclama relativo alla chiusura di un vicolo tra le case di abitazione di Pellegro Salvago e Marco Poternario. Archivio Storico del Comune di Genova (in seguito A.S.C.G.), Padri del Comune, Atti 1508-1511, F. 9, doc. 123.
5 Le iniziali furono quelle dei Porci, Streggiaporci, Nepitelli e Selvatici. I. CROCE, La Contrada dei Salvago, cap. I.
6 Lo stanziamento lungo Platealonga era proprio delle famiglie nobiliari più antiche e più vicine al Vescovo, così come lo erano gli Streiaporci. E. POLEGGI, Le contrade delle con-sorterie nobiliari a Genova tra il XII e il XIII secoli, in «Urbanistica», 42-43 (1965).
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re o Procuratore dell’Albergo, aveva l’obbligo ed il diritto di guidarla e lo faceva da una fabbrica preposta a tale scopo: la sede dell’Albergo.
I Salvago avevano da poco tempo deciso, probabilmente nel 1637 7, an-no che segna il primo contatto col Bianco, di privare la sede del suo anti-chissimo affaccio su piazza (Fig. 3), trasferendola a pochi metri di distanza in uno dei palazzi che chiudevano a cortina il fondaco 8 (Fig. 4). La decisione di abbandonare l’edificio, che per tanto tempo aveva accolto i Governatori della famiglia, non fu presa certo a cuor leggero.
La contrada aveva subito, dalla sua nascita 9, almeno due grandi rivoluzio-ni strutturali al suo interno. Il cuore, il luogo di incontro dei consorti, nei suoi primi secoli, era la curia Streiaporcorum o haeredum Streiaporci 10: una sorta di corte molto allungata, quasi un vicolo, incassato tra le case del clan, posto tra gli assi rettilinei della Clavica e di Platealonga e ad essi parallelo, chiuso da porte di legno alle estremità e probabilmente porticato sui due lati 11; uno spa-zio molto ben protetto, chiuso ed incastrato entro il labirinto della struttura abitativa. Qui si ergeva la domus magna del capofamiglia e la torre, posta ove oggi è l’archivolto Mongiardino. La sede governativa del gruppo si trovava in luogo o parte di esso dell’odierno civico n. 26 di piazza S. Bernardo 12.
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7 Nel capitolato, datato 10 febbraio 1639, si fa riferimento alla prima convenzione tra i Governatori ed il Bianco, avvenuta appunto nel 1637.
8 Il fondaco (dal greco πανδοκος, πανδοκευω “albergo, ospito”, dall’arabo funduk, dal lat. med. fondicus e dal genov. fondego) era uno spazio chiuso, stretto e lungo, destinato al commercio, delimitato da case e muri; in pratica una sorta di cortile interno su cui si affaccia-vano le volte (magazzini delle merci).
9 Si presume che la contrada sia nata attorno all’anno mille. Il 13 maggio 1163 Streiapor-co acquistava, per 70 lire, una casa in Platealonga : M. CHIAUDANO-M. MORESCO, Il cartolare di Giovanni Scriba, Torino 1934 (Documenti e Studi per la Storia del Commercio e del Di-ritto Commerciale Italiano, I-II), n. 1049.
10 Così viene nominata la curia il 26 agosto 1201: Giovanni di Guiberto. 1200-1211, a cura di M.W. HALL COLE-H.G. KRUEGER-R.G. REINERT-R.L. REYNOLDS, Genova 1939-1940 (Notai liguri del sec. XII, V), n. 469.
11 Come riferiscono i documenti del 1201 stipulati sub porticu Streiaporci/haeredum Streia-porci o sub porticu domus heredum StreiaStreia-porci (Guglielmo Cassinese. 1190-1192, a cura di M.W. HALL-H.G. KRUEGER-R.L. REYNOLDS, Genova 1938 (Notai liguri del sec. XII, II), n. 337;
Giovanni di Guiberto cit., nn. 167, 262, 494).
12 Giovanni Nepitella, capostipite della famiglia, aveva qui una sua proprietà che passa per fedecommesso di primogenitura maschile ai suoi diretti successori di diritto, che saranno anche i governatori di diritto. I. CROCE, La Contrada dei Salvago cit., p. 48.
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Nel XV secolo, quando la situazione politica, economica e sociale si mo-difica profondamente, la contrada si adegua ai nuovi rivolgimenti. Il centro di questa densità umana si sposta sulla piazza ove si affaccia anche la loggia del-l’Albergo (odierno civico n. 25), uno spazio voltato aperto in cui gli uomini della famiglia si fermano a discutere e nel cui retro era il fondaco con i magaz-zini (proprio lo spazio di pertinenza della nostra casa). Non si sposta però la sede del Governatore che dal sito solito si affaccia sulla piazza, dove rimarrà almeno sino al 1637 circa: una persistenza storica davvero molto forte. E allo-ra perché voler abbandonare la casa dei Governatori dopo oltre cinquecento anni di caparbio attaccamento ad un unico oggetto edilizio ed al suo sedime?
Di certo la vecchia sede risultava ormai troppo piccola, Giacomo Salvago, Governatore della famiglia nel 1550, se ne era accorto ed aveva tentato di ampliarla, con la sua richiesta ai Padri del Comune di avanzare su strada 13, ma ancor più doveva apparire tale ad un personaggio come Carlo, abituato a muoversi negli ampi e magnifici volumi della sua dimora in Strada Nuova.
Tuttavia questo motivo non pare sufficiente a giustificare uno stacco così netto dallo spazio centrale della piazza per raggiungere, per così dire, un retro lontano dal passaggio e dagli occhi di estranei, nuovamente inaccessi-bile e nuovamente chiuso.
Bisogna fare una premessa. Il ‘600 a Genova modifica lo stile di vita, nuovi rituali ed abitudini domestiche rendono inadeguati ed esigui i vecchi spazi, ma soprattutto il ‘600 è qui un’epoca introversa, di architetture invo-lute, il secolo in cui finisce ogni desiderio di “decoro” come epifania del no-bile nel mondo: il palazzo diventa una grotta preziosa entro cui rifugiarsi.
Secolo di crisi profonde e di contraddizioni insanabili, appare così il giusto ed inevitabile scenario ove ebbe inizio la dispersione del gruppo e di conse-guenza l’indebolimento dell’Albergo.
Il nobile genovese nel ‘500 aveva reagito alle gravi difficoltà economi-che, dettate dall’impoverimento del commercio marittimo sul finire del se-colo precedente, con ottimismo e fiducia, plasmando e più spesso adattando
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13 10 Febbraio 1550. Il Governatore Giacomo Salvago comunica ai Padri del Comune di aver fatto ruinar due sue case, site nella piazza dei Salvaghi, con l’intento di fabbricarne una
«a grande ornamento e onore del pubblico»; inoltre il muro della facciata rivolto su piazza è
«storto e brutto in più lochi». Per portare a termine tale intento occorrerà avanzare un poco sulla strada pubblica, ma questo non farà altro che apportare gran ornamento alla strada che conduce a Sant’Agostino. A.S.C.G., Padri del Comune, Atti 1549-1550, f. 20, doc. 117.
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abilmente le proprie attitudini migliori alle nuove richieste del mercato.
L’innata perspicacia di un popolo di commercianti sul mare indirizzò verso il mercato del denaro tutte le sue capacità e l’economia si riprese. E fu pro-prio questa loro asprezza di navigatori e mercanti, unita ad uno spirito for-temente adattabile, che mantenne inalterato, o quasi, il disegno della città, intervenendo solo ove necessario e senza mai stravolgere il paesaggio me-dievale: un arcaismo mentale, poi urbano, forse genetico, ma più probabil-mente originato dalla necessità di risolvere problemi pratici ed imminenti, dedicando poco spazio all’otium ed alla speculazione. Il mercato del denaro rese però necessario un impegno di mondanità, così che il patriziato non poté più trascurare l’aspetto di rappresentatività ed ostentazione, atto ad influenzare la richiesta di prestiti.
Una lunga serie di interventi, piuttosto isolati, ossia riferiti ad edifici di ogni singolo Albergo e non alla struttura urbanistica vera e propria, se escludiamo il caso di Strada Nuova, fu il segno di questo cambiamento, che sembrò indirizzato verso una scelta di apertura, in pratica solo apparente.
Ma nel ‘600 sopraggiunge una nuova crisi: crolla il mercato del denaro, crolla la Spagna, si riducono i traffici di metalli preziosi, gli investimenti nati e fatti per incrementare l’afflusso di denaro si mostrano fortemente svan-taggiosi e difficile e non proficuo un loro eventuale realizzo. Andrea Spi-nola lo predisse: «La parsimonia è più necessaria qui a Genova che altrove, perché essendo la maggior parte del nostro situato in quel d’altri, possiamo perderlo in un sol punto» 14.
Ci troviamo insomma di fronte ad una vera e propria crisi economica, alla quale ovviamente si accompagna anche un indebolimento politico, aiutato da un certo assenteismo della nobiltà al Governo. Non che i nobili fossero rimasti privi di sostanze; le loro rendite erano ancora elevate e permettevano di mantenere un alto tenore di vita, ma si rendevano anche conto di avere osato troppo e di essere ora di fronte ad una strettoia difficile da superare.
L’adattabilità dell’uomo genovese è figlia del suo radicato e secolare ar-caismo; un arcaismo che è immobilità, mantenuta sempre in forza del cam-biamento e d’altronde «bisogna che tutto cambi [...] Perché tutto resti com’è». L’arrivo dell’epoca moderna con il ‘500 fu un inganno per il geno-vese; ad esso parve ancora una volta di modellarsi alle nuove esigenze affin-ché la struttura non avesse da mutare ed invece con il ‘600 si accorse che
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14 G. DORIA, Nobiltà e investimenti a Genova in età moderna, Genova 1995, p. 225.
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l’ultimo adattamento aveva minato le solide basi della sua struttura arcaica ed in questo, mi pare, ha da vedersi la crisi di questo secolo, che non è solo crisi economica, ma soprattutto la crisi di identità di un popolo.
Perciò, come già detto, uno dei motivi dello spostamento della sede è sicuramente da vedersi nella ricerca di spazi maggiori, dettata dall’esigenza di nuovi rituali domestici, ma non solo. Il bisogno di recuperare la solidità della struttura primordiale sembra proprio manifestarsi con il ritorno agli spazi primitivi in cui tanta fortuna era nata, quasi un ritorno al grembo ma-terno nell’ambito familiare e quindi allo spazio urbano che lo aveva con-traddistinto, con i suoi fondaci, case e piazze. E il nuovo sito potrebbe dav-vero ricordare l’originaria piazza allungata, anche se con diverso significato, la prima curia, quella stessa labirintica riservatezza delle origini.
Questo tentativo di riappropriarsi degli antichi equilibri, riproponendo la geometria degli spazi che li conteneva, sembra essere confermata dalla scelta di una essenziale funzionalità, dimentica dei fasti mondani del ‘500, cosa che appare assai evidente dalla lettura del capitolato che illustreremo di seguito.
La scelta di Carlo e Paris di affidare l’incarico al Bianco non fu certo una scelta casuale; i Salvago conoscevano bene la sua fama di architetto, la sua abilità di capomastro, come pure la sua affidabilità, ma è anche assai probabile che i loro rapporti fossero, per così dire, già collaudati.
Il nostro architetto comacino, nato a Villa di Colderio, nella Pieve di Balerna, poco prima del 1579, giunse a Genova poco più che ventitreenne nel 1602 e venne iscritto negli elenchi dell’Arte dei muratori, tra i maestri muratori lombardi, il 20 ottobre di quello stesso anno 15. Nel 1603, il primo maggio, ascrisse il suo nome sul libro dell’Arciconfraternita della SS. Con-cezione al Monte 16, mantenendo fede a questo sodalizio durante tutto l’arco della sua vita e ricoprendovi varie cariche. Tra gli abituali frequentato-ri del convento troviamo anche i Salvago, che qui avevano una cappella non-ché dei terreni a bosco, in seguito ceduti ai padri 17. Niente di più semplice
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15 A.S.G., Notai Antichi n. 6379, notaio Lazaro e Giulio Romairone, pubblicato da A.
DIRAIMONDO - L. MÜLLERPROFUMO, Bartolomeo Bianco e Genova. La controversa paternità dell’opera architettonica tra ‘500 e ‘600, Genova 1982, p. 139.
16 Archivio dell’Oratorio della SS. Concezione di Genova, Libro dei conti, Ibidem, p. 139.
17 Il bosco, che ancora oggi appartiene ai padri di Nostra Signora del Monte, venne do-nato per i due terzi dal Doge Raffaele Adorno nel 1443, mentre il rimanente terzo da
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che il Bianco fosse una vecchia conoscenza per i Salvago al di là della fama pubblica e che, non solo la fiducia nel suo operare, ma anche l’appartenenza ad una cerchia di “vicini” stimati, influisse su tale scelta.
Qualcuno potrebbe obiettare che i maestri lombardi cercarono sempre l’indipendenza dalla vita sociale della città, chiusi nella loro corporazione, attraverso la quale si tramandavano oralmente le antiche e segrete pratiche del costruire, sempre mantenendo stretti legami con la terra d’origine nel ri-spetto delle loro tradizioni, negli investimenti e persino nel rivolgersi al Console dei lombardi, in caso di scontri con la repubblica 18; in pratica dei veri lombardi che ricusavano ogni tipo di “adozione” da parte di Genova. Il Bianco però non rispettò appieno le tradizioni, per esempio proprio nell’associarsi ad una confraternita locale 19. Tutto questo per dire che la fa-ma pubblica, soprattutto per una ristrutturazione come questa, non poteva essere, ci pare, l’unica motivazione di scelta, anche perché nel 1639 il Bianco era un uomo ormai non più giovane e nemmeno più tanto fortunato. Non che il suo nome non fosse apprezzato, tutt’altro. Bartolomeo ebbe una car-riera lunga e piena e fu stimato per le sue qualità di caput operis e di archi-tetto, come la sua fertilissima attività testimonia tutt’oggi. In breve, si può con buona ragione dire che il Bianco fu un architetto di meritato successo e che per questo motivo e per la conoscenza che abbiamo appurato debba avere avuto con i Salvago venne contattato dai Governatori; ma ancora qualche cosa merita la nostra attenzione.
Va riconosciuto che, per un committente genovese dell’epoca, affidare un lavoro al Bianco dovesse essere gratificante. Il committente genovese per attitudine genetica e tradizione secolare, legata alle difficoltà degli insedia-menti su di una terra impervia, nonché al desiderio, che si fa prepotente dal
‘500, di volere essere il vero artefice dell’opera, richiedeva all’architetto so-prattutto il rispetto di un «protocollo rigidamente codificato», con il quale
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no Salvago il 23 gennaio 1488. L’avvenimento è testimoniato da un’iscrizione del Convento. I.
CROCE, La Contrada dei Salvago cit., p. 87.
18 E. POLEGGI, Il rinnovamento edilizio genovese e i magistri Antelami nel secolo XV, in
«Arte lombarda», XI (1966), p. 64.
19 Altro simile legame fu quello della famiglia Balbi con il Bianco, loro architetto di fiducia.
Giacomo e Pantaleo Balbi erano soci della confraternita, ed anche in questo caso le relazioni professionali furono il felice esito di vincoli precedenti. A. DI RAIMONDO - L. MÜLLER -PROFUMO, Bartolomeo Bianco cit., p. 44.
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«controllare tutte le fasi della fabbrica» 20 ed ovviamente e di conseguenza, grandi doti di impresario, capo d’opera ed infine di architetto. A quest’ul-tima figura, all’interno di una maglia spesso troppo stretta e di un percorso forzato e prestabilito, spettava, se ben fornito di abilità e di genio, fare dell’opera un’architettura. In questo il Bianco, per sua natura, intelligenza ed adattabilità, fu uno degli esempi più felici in Genova. I suoi capitolati sono precisi e particolareggiati fin quasi all’eccesso, si può dire unici per questo amore del dettaglio; il suo rigore nell’operare è assoluto.
Nel ‘600 l’atto notarile, per quanto sempre importante all’interno di una città come Genova, raggiunge l’apogeo della sua manifestazione. Ogni piccolo avvenimento o idea dà inizio ad un tortuoso intrico di cartigli, di intasamenti burocratici, quasi l’effetto evocativo della parola scritta potesse sostituire l’avvenimento ed essere più fermo e solido di qualunque realtà materica. I capitolati vengono assorbiti da questo mondo cartaceo ed ai loro compilatori viene richiesta una precisione a cui attenersi, che può inchio-darli in ogni momento; insomma di creare la gabbia nella quale preferiscono essere intrappolati. Il caput operis è costretto ad essere preciso così il com-mittente lo potrà tenere in pugno e controllare; ma questa è anche la sua via di fuga: essere preciso in modo da non doversi accollare errori di altri o d’essere accusato di colpe non commesse, colpe che, nel caso, erano davvero onerose da ripagare.
Il Bianco soddisfece indubbiamente i suoi committenti, grazie alla sua naturale propensione verso un ordine metodico ed al suo vasto sapere tecnico.
Il capitolato è ‘infilato’ assieme ai disegni o modelli, come vengono chia-mati, nell’instrumentum conventionis, ossia nel documento notarile per mezzo del quale i Governatori si accordano con il Bianco: su questo sono annotati gli obblighi di entrambe le parti, con un indubbio squilibrio a sfavore del
Il capitolato è ‘infilato’ assieme ai disegni o modelli, come vengono chia-mati, nell’instrumentum conventionis, ossia nel documento notarile per mezzo del quale i Governatori si accordano con il Bianco: su questo sono annotati gli obblighi di entrambe le parti, con un indubbio squilibrio a sfavore del