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di Paolo Casalegno e Diego Marconi

SAUL KRIPKE, Wittgenstein su regole e linguaggio privato,

Bo-ringhieri, Torino 1984, trad. di Marco Santambrogio, pp. 152, Lit. 27.000.

Secondo G.E. Moore, Wittgen-stein disse una volta a lezione che, dopo di lui, non ci sarebbero stati grandi filosofi, ma avrebbero potuto esserci filosofi abili. Uno dei più abi-li è stato ed è certamente Saul Krip-ke, noto forse soprattutto per aver sviluppato — da idee di Carnap e, prima ancora, di Leibniz — la cosid-detta semantica "dei mondi possibi-li": una teoria formale che trova ap-plicazione in molti campi, dal chia-rimento delle nozioni filosofiche di possibilità e necessità alla costruzio-ne di modelli per le logiche modali all'analisi del significato nelle lingue naturali. Non ancora cinquantenne, Kripke ha lasciato un'impronta fonda in quasi tutti i domini di pro-blemi su cui si è esercitata la rifles-sione filosofica di tradizione analiti-ca (dominante nei paesi di lingua in-glese e ormai sempre più diffusa an-che sul continente europeo). Proble-mi classici, come quello della defini-zione del concetto di verità, del si-gnificato dei nomi propri, dell'iden-tità, del rapporto fra mente e corpo, della distinzione analitico/sintetico (e a priori/a posteriori), non sono ri-masti gli stessi dopo essere stati toc-cati da questo pensiero tagliente co-me una lama di coltello e al tempo stesso fantasioso, addirittura non ignaro della ricerca dell'effetto (Kripke è, fra l'altro, un conferen-ziere magistrale).

Se ci si pensa, è naturale che Krip-ke, gran distruttore di idola filosofici (analitici e non), scegliesse di con-frontarsi con l'autore delle Ricerche

filosofiche: cioè con un filosofo che

la tradizione analitica ha formal-mente collocato fra i propri Padri Fondatori, ma ha sostanzialmente rimosso. Con il libro di cui stiamo parlando, Kripke ha voluto affronta-re di persona, e ricordaaffronta-re al suo am-biente filosofico, la radicalità del pensiero del cosiddetto "secondo Wittgenstein": una radicalità che si era voluto così spesso smussare o di-menticare.

E non sorprende che la riflessione di Kripke si concentri sul cosiddetto "argomento del linguaggio priva-to": non solo per la sua centralità nel pensiero di Wittgenstein, ma per le sue conseguenze dirompenti, oltre che per la filosofia tradizionale, an-che per molti dogmi più o meno ta-citi della filosofia analitica. L'argo-mento del linguaggio privato (o me-glio, contro l'idea di un linguaggio privato), nella interpretazione tradi-zionale, si trova nelle sezioni 243 e seguenti delle Ricerche. Più che di una singola argomentazione, si trat-ta di una serie di riflessioni, doman-de ed esempi che tendono a dissipa-re un'immagine: quella per cui il si-gnificato di un'espressione linguisti-ca è un ente mentale (che sta in qualche modo "nella testa") e la comprensione del significato consi-ste nell'associazione all'espressione di una qualche rappresentazione mentale, o sensazione o esperienza. Se questa immagine è attendibile — argomenta Wittgenstein — dovreb-be essere possibile immaginare un linguaggio intrinsecamente privato: cioè un linguaggio che io solo posso comprendere, perché le sue espres-sioni designano sensazioni, espe-rienze ecc. soltanto mie. Per "lin-guaggio privato" Wittgenstein non intende un codice segreto, vale a di-re la traduzione in un simbolismo di mia invenzione del linguaggio che

tutti parliamo: un tale codice po-trebbe essere reso pubblico, solo che lo volessi. E nemmeno un linguag-gio è privato per il solo fatto di con-tenere nomi di mie sensazioni o esperienze: altrimenti il nostro lin-guaggio ( in cui posso parlare del mio mal di denti, o della mia emo-zione di fronte ad un Rembrandt) sarebbe già un linguaggio privato. E privato un linguaggio i cui

significa-ti sono incomunicabili per ragioni di principio: per esempio, un linguag-gio che contiene un simbolo "S" che io solo posso comprendere, perché designa una mia sensazione deter-minata, a cui solo io ho accesso.

Ma un linguaggio privato non è possibile. Per esempio, come potrei dire — io stesso — di comprenderne le espressioni? Come faccio a sapere che "S" è il nome di quella determi-nata sensazione, e quindi a control-lare la correttezza del mio uso di "S"? Si potrebbe rispondere: consul-tando una tabella mentale, in cui ad ogni simbolo è associata una sensa-zione o altra esperienza interna. Ma come farei a sapere che, in questa ta-bella immaginaria, a "S" è

effettiva-mente associata quella sensazione e non un'altra? Solo sapendo già cosa è associato a "S", cioè qual è il signi-ficato di "S". Una tabella mentale non è veramente consultabile; un controllo mentale non è un vero controllo, perché i termini del con-trollo non sono indipendenti. Sareb-be — dice Wittgenstein — come ac-quistare più copie dello stesso gior-nale per assicurarsi che le notizie in

esso contenute sono vere. E allo stes-so modo, un linguaggio privato non è un linguaggio: l'attribuzione e la comprensione del significato non so-no procedimenti privati, ma soso-no intrinsecamente connessi con proce-dimenti di controllo intersoggettivi. Questa è, più o meno e molto in breve, l'immagine tradizionale dell'argomento contro il linguaggio privato. Già in questa versione, esso ha conseguenze filosofiche di rilievo non piccolo, perché tende a scredita-re, tra l'altro, le seguenti tesi: che il linguaggio sia essenzialmente espressione di pensieri; che la cosid-detta introspezione sia una fonte privilegiata di conoscenza; che ci sia una differenza qualitativa fra la

co-noscenza che abbiamo del contenu-to della nostra mente e quella che abbiamo del contenuto della mente degli altri; che, mentre sappiamo bene che cos'è per noi avere una mente, non sappiamo altrettanto bene che cos'è per un altro avere una mente. Ma — sostiene Kripke — li-mitarsi a presentare l'argomento del linguaggio privato in questi termini è fuorviarne: in realtà, l'attacco di Wittgenstein al mentalismo non è che l'espressione di una problemati-ca ancora più fondamentale concer-nente la nozione di regola.

Il vero problema di Wittgenstein, il filo'conduttore nascosto di tutta la sua riflessione, è, secondo Kripke, il

"paradosso scettico" menzionato nel §201 delle Ricerche: "Il nostro para-dosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d'agi-re, poiché qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola". La formulazione wittgen-steiniana può suonare piuttosto enigmatica, ma la sostanza del pro-blema non è difficile da afferrare: di che cosa esattamente si tratti, Kripke ce lo spiega mediante l'esempio se-guente (che nel libro viene presenta-to con grande dovizia di dettagli). Supponiamo che in passato io abbia avuto occasione di sommare soltanto coppie di numeri molto piccoli — diciamo minori di 57 — e che oggi mi venga chiesto di calcolare 68 +

57. Pur non avendo una particolare attitudine per la matematica, ri-spondo senza esitazione che 68 + 57 fa 125. Ma come faccio ad essere sicuro che il risultato esatto è proprio questo? Se uno scettico cercasse di scalfire la mia fiducia in proposito, replicherei probabilmente che, per calcolare 68 + 57, ho applicato una certa regola: la regola che ho appreso quando a scuola mi è stato spiegato che cos'è un'addizione, e alla quale mi sono sempre attenuto tutte le volte che ho dovuto sommare due numeri. Lo scettico potrebbe però obiettarmi che proprio qui sorge la difficoltà: che cosa mi assicura che oggi, nel computo di 68 + 57, ho seguito davvero quella regola e non una regola diversa? Per ipotesi, fino a ieri ho avuto a che fare solo con numeri minori di 57. Ora, ci sono infinite regole che per numeri mino-ri di 57 danno lo stesso mino-risultato e che danno invece risultati divergenti per numeri maggiori: di conseguen-za, le somme che ho effettivamente eseguito in passato non rivelano da sole quale regola io avessi in mente. Naturalmente, posso fare riferimen-to ad un algoritmo, cioè ad un insie-me di istruzioni esplicite che mi di-cono come devo procedere ogni vol-ta che mi trovo a dover addizionare numeri. Il guaio è, però, che un al-goritmo ha bisogno di essere pretato, e il mio immaginario inter-locutore non mancherebbe certo di farmi osservare che le interpretazioni possibili sono, almeno in linea di principio, infinite. Come scegliere quella giusta? Forse ricorrendo a nuove regole? Ma è chiaro che per queste nuove regole si riproporrebbe tale e quale la medesima difficoltà. Secondo Kripke, non c'è via d'usci-ta: per quanto mi dia da fare, non riuscirò mai a dimostrare allo scetti-co che il mio metodo attuale per cal-colare somme è coerente con ciò che ho fatto in passato. Il che poi signifi-ca, in definitiva, che io non posseg-go e non ho mai posseduto alcun metodo, che non so e non ho mai sa-puto che cosa voglia veramente dire eseguire un'addizione in modo cor-retto. Questo — afferma Kripke — è il problema centrale del pensiero dell'ultimo Wittgenstein.

1 paradossi scettici fanno sempre uno strano effetto: non si sa bene co-me neutralizzarli, ma nonostante ciò — o forse proprio a causa di ciò — si è tentati di non prenderli sul serio. E come quando abbiamo a che fare con un bambino testardo che itera incessantemente i suoi "perché?" senza essere mai soddisfatto delle nostre assennate risposte: di solito in questi casi per un po' stiamo al gio-co; poi, un attimo prima che le no-stre risorse argomentative siano esaurite, decidiamo che stiamo per-dendo tempo e rinunciamo a con-vincere chi non può o non vuole ca-pirci.. Con lo scettico ci comporte-remmo allo stesso modo, se solo ci fosse consentito: ma lo scettico ci lancia una sfida, e noi non possiamo abbandonare il campo. D'altra par-te, se non riusciamo a formulare ri-sposte adeguate, dobbiamo poi dare il nostro assenso a conclusioni in-quietanti. Torniamo all'esempio con cui Kripke illustra il paradosso wittgensteiniano. E chiaro che il problema qui messo in luce non ri-guarda in maniera specifica le regole per il computo delle funzioni arit-metiche elementari: se davvero io non posso mai essere certo di associa-re al simbolo " + " un'interpassocia-retazio- un'interpretazio-ne determinata, allora è probabile che sia vittima di un'illusione chiun-que creda di afferrare compiutamen-te il significato di una parola. Anzi, il problema è ancora più generale: esso concerne non solo le regole lin-guistiche, ma le regole di ogni tipo. E la nozione stessa di "seguire una

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