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J O H N L. AUSTIN, Come fare cose con le parole,

Marietti, Genova 1987, ed. orig. 1975, trad. dall'inglese di Carla Villata, a cura di Carlo Penco e Marina Sbisà, pp. 128, Lit. 28.000.

Con questo titolo, che traduce letteralmente quello originale, e che in qualche modo richia-ma i richia-manuali per sviluppare fotografie o per imparare da soli una lingua straniera, compare una nuova edizione di uno dei libri di filosofia più belli degli ultimi quarantanni.

Austin discute, qui, delle diverse funzioni del linguaggio: di come, parlando, oltre a descri-vere come stanno le cose, compiamo tutta una serie di atti: facciamo contratti, prendiamo im-pegni, diamo ordini e avvertimenti, emettiamo

giudizi, ecc. Quando ci sposiamo ha luogo uno scambio linguistico in cui gli sposi non descrivo-no qualcosa ma sigladescrivo-no pubblicamente un con-tratto: quello che si dice durante la cerimonia non è propriamente né vero né falso, ma valido o non valido, o, nella terminologia di Austin,

felice o infelice.

Si possono distinguere gli usi linguistici con cui facciamo qualcosa da quelli con cui descri-viamo qualcosa? Austin, dopo aver proposto di-versi criteri per questa distinzione, trovando dei controesempi per ciascuno di essi, propone la tesi che parlando facciamo sempre qualcosa; an-zi, quasi sempre più cose a un tempo. La teoria che Austin elabora a partire dalla fine della settima di queste 12 lezioni che tenne a Har-vard nel 1955 è nella sostanza quella che oggi si chiama teoria degli atti linguistici. Parlando facciamo qualcosa a un primo livello, perché proferiamo suoni, che rispettano la grammatica di una lingua, e perché con questi suoni faccia-mo riferimento a qualcosa, attribuendogli pro-prietà o relazioni con altre cose. A un secondo

livello, proferendo questi suoni così, emettiamo un giudizio, esercitiamo un'autorità, prendia-mo un impegno, e così via. A un terzo livello, sortiamo eventualmente degli effetti, a volte, proprio quelli che cercavamo di produrre: un nostro consiglio persuade colui cui l'abbiamo dato.

Che il linguaggio non serva solo a descrivere si sa da sempre. Austin, però, è stato il primo ad offrirci una trattazione sistematica (e non una semplice classificazione) di tutti gli usi del lin-guaggio, e la teoria degli atti linguistici, fonda-mentalmente nella sua versione, e oggi una dot-trina universalmente accettata. L'argomento coinvolge questioni filosofiche centrali: il cetto di verità, anzitutto, e poi le regole, le con-venzioni, il soggetto (le azioni, linguistiche e non, sono sempre compiute da un soggetto), l'e-tica. Per tutto questo è già, come dicono i cura-tori, un classico. Ed e, inoltre, davvero un clas-sico per gli spunti e le possibilità di lavoro che ancora offre. Inoltre, è un classico perché smon-ta inappellabilmente la teoria di molti empiri-sti logici della prima metà del '900, per cui la funzione descrittiva sarebbe la sola funzione del

linguaggio.

La nuova edizione italiana è, complessiva-mente, quanto di meglio ci si poteva aspettare. Alla traduttrice si deve una bella Nota alla

traduzione, con qualche scelta che appare,

ine-vitabilmente, discutibile: per esempio, quella di tradurre statement talvolta con "asserzione", o

imply con "dareper implicito" anziché

"impli-care", o la traduzione, qui non segnalata, di

constative con "constativo" anziché con

"con-statativo" — comunque l'unico errore della

Nota è l'attribuirmi la cura dell'edizione

italia-na di Atti linguistici di John Searle, cura che non ho mai esercitata.

genstein formula il primo abbozzo della cosiddetta picture-theory (la teo-ria secondo cui una proposizione è un'immagine di uno stato di cose), egli annota "Credo di essere molto vicino ad una soluzione" (15.10.14); pochi giorni dopo, mentre sta af-frontando — in verità in maniera as-sai confusa — il problema delle pro-posizioni generali e del ruolo delle costanti logiche, osserva nei Diari che "i nodi vengono sempre più al pettine, ma non trovo una soluzio-ne" (17.10.14); mentre quando co-mincia a farsi luce la distinzione tra proposizioni elementari, proposi-zioni generali e tautologie, ed emer-ge la contrapposizione tra ciò che una proposizione dice e ciò che essa mostra, egli dichiara di "vederci più chiaro" (29.10.14). E così via. Perso-nalmente non ho avuto l'impressio-ne di grosse sorprese esegetiche; ma è chiaro che sara utile avere un con-fronto puntuale fra Diari e Quader-ni, e che comunque i Diari sono de-stinati a svolgere una funzione non necessariamente marginale nell'in-terpretazione del Tractatus.

Si deve quindi tanto più deplorare che questa pubblicazione sia basata su una specie di trafugamento, per la riservatezza — in realtà forse la pru-derie — degli esecutori testamentari. La difesa della privacy postuma di Wittgenstein appare fuori luogo: i soli diari veramente segreti sono quelli che l'autore brucia prima di morire. E vero che questi erano scritti in codice, ma si trattava di un codice analogo a quello che questo recensore adoperava per comunicare con i compagni di classe in quarta elementare, quindi di non impervia decifrazione; certamente introdotto per scoraggiare i commilitoni, più che i posteri.

Ma, se non ci sono ragioni di scan-dalo in questa pubblicazione, non ci sono nemmeno motivi di grande emozione. I Diari non contengono rivelazioni clamorose né sul pensie-ro, né sulla persona di Wittgenstein. Lo dimostra anche il saggio intro-duttivo di Gargani, il cui tentativo di ricostruzione della personalità etica del filosofo è basato solo in piccola

»

J. MACHADO DE ASSIS

Memoriale di Aires

pp. 180, Lire 18.500 U n bellissimo romanzo in forma di diario, estrema opera del maggiore scrittore brasiliano. Attraverso gli occhi -disincantati del consigliere

Xires, assistiamo al sottile e struggente duello che si ingaggia tra i desideri e i diritti della gioventù e la solitudine e l'abbandono della vecchiaia.

Il Quadrante Edizioni

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