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Paradigmi estetico-alimentari nel solco della modernità

Nel documento Premio Nuova Estetica (pagine 93-115)

di Delfo Cecchi (La Spezia)

1. Protoestetica cartesiana

Secondo Cartesio, certi suoni ci appaiono dolci perché stimolano l’orecchio in modo uniforme, a somiglianza del tipo di impressione che il tatto riceve da una superficie ben levigata 1. I suoni che definiamo dolci sono assimilabili alle impressioni che traiamo da uno «specchio perfettamente liscio», come quelli che riteniamo aspri o dissonanti lo sono all’impressione che ricaviamo dalle «parti ruvide di un sasso». In primo luogo, dunque, predicati che, come «dolce» o «aspro», ri-corrono nei nostri giudizi estetici risultano motivati dal carattere della stimolazione sensoriale; in secondo luogo, quest’ultima è concepita sul modello della stimolazione tattile. Soffermiamoci anzitutto sul primo aspetto. Ciò che vale per nozioni come dolce o aspro vale anche per quelle di gradevole o sgradevole: ci appaiono gradevoli gli oggetti che colpiscono dolcemente l’occhio, così da ricrearlo; sgradevoli, invece, quelli che lo aggrediscono 2. In Cartesio si profila dunque una fonda-zione del giudizio estetico che rinvia non solo alla sensibilità ma, più precisamente, alle sue condizioni materiali: gli oggetti ci appaiono gra-devoli o sgragra-devoli a seconda che ricreino oppure offendano l’occhio. La stessa dottrina è presente anche in Spinoza, con una postilla che riferisce il nostro giudicare le cose “belle” o “brutte” al giovamento o, viceversa, al danno che i moti nervosi da esse suscitati provocano nel nostro corpo 3. Spinoza declina dunque in un senso più espressamen-te fisiologico quell’aspetto dell’esperienza esespressamen-tetica che, in Carespressamen-tesio, si presentava legato alle condizioni materiali della ricettività degli oggetti, recuperando in ciò, peraltro, l’idea cartesiana secondo cui la sensibilità è anche un indice del funzionamento buono o cattivo della macchina del corpo 4.

Questa fin troppo rapida presentazione comparata dell’estetica di immediata derivazione cartesiana è forse sufficiente a giustificare sia il titolo del presente paragrafo, sia, indirettamente, la nostra scelta di dedicare uno studio di estetica alla modernità razionalistica non leib-niziana 5. L’interesse di quest’ultima per l’estetica consiste, in effetti, proprio nel suo valore di prototipo 6. Più che un modello fortunato, un prototipo rappresenta non di rado l’aspetto primitivo di un problema che sarà poi impostato altrimenti, e che risulta dunque fecondo più per

le sue aporie che per i suoi sbocchi. Da un punto di vista teoretico, l’aporia protoestetica consiste nell’assenza di un impianto concettuale capace di rendere ragione di quella che chiameremo provvisoriamen-te la distinzione tra il significato sensoriale e il significato esprovvisoriamen-tetico del giudizio di gusto. È questa, forse, la ragione per cui l’estetica è nata in contesto leibniziano piuttosto che cartesiano. Naturalmente, il nome stesso dell’estetica è un omaggio all’idea di sensazione; tuttavia, il senso in cui questa costituisce l’oggetto dell’estetica si specifica fin da subito nel riferimento agli aisthetà, cioè alle rappresentazioni sensibili 7. Usan-do, in luogo di aisthetòn, un termine contemporaneo che ne costituisce quasi la traduzione, si può dire che l’estetica diventa possibile quando la nozione di percetto 8 si è separata, in seno alla dimensione generale della sensibilità, dalla nozione di percezione. L’aporia della protoestetica può dunque essere individuata, più precisamente, nell’assenza di un impianto concettuale capace di rendere ragione – come accade, esem-plarmente, in Cartesio – della distinzione tra percezione e percetto. Sembra che vi sia estetica, in effetti, solo a partire dal momento in cui è possibile cogliere la differenza tra l’affermazione secondo cui il suono di un flauto stimola dolcemente l’orecchio e quella secondo cui il suono di un flauto è dolce: mentre il chiarimento del primo enunciato (che descrive una percezione) rientra nel campo della gnoseologia, il chiari-mento del secondo (che descrive invece un percetto) è materia dell’este-tica. Ma appunto questa distinzione è irreperibile nella protoestetica razionalistica, che risolve integralmente il senso del secondo enunciato in quello del primo. Un razionalismo di stampo cartesiano non può in effetti accedere alla nozione di percetto, salvo abiurare quel riduzioni-smo metodologico che vuol costituirne la garanzia di validità.

Ci volgiamo ora al secondo aspetto della protoestetica più sopra citato. Non solo l’assiologia greco-medioevale della visione non è con-divisa dal razionalismo moderno di derivazione cartesiana, ma si po-trebbe persino dire che la netta svalutazione che quest’ultimo offre del razionalismo antico trova nel primato del tattile sul visivo (e sull’acusti-co) una sorta di parola d’ordine. Espressione gnoseologica di una fisica sorretta dal concetto unico di contatto immediato, la figura cartesiana del solletico 9 costituisce in effetti anche la forma-base dell’estetica di cui la prima parte del presente testo si occupa. Il predominio del paradigma tattile può essere verificato in Cartesio, in particolare, at-traverso una sorta di prova di commutazione. Dal suo punto di vista, anche le determinazioni qualitative appartenenti alla sfera del palato risultano riducibili a impressioni di tipo tattile. È infatti dalla diversa consistenza dei corpi e dalla dinamica del loro contatto con la lingua 10

– in base alla quale, per esempio, le «parti saline» entrano «di punta» nei pori della lingua, mentre le parti d’acqua «si limitano a scivolare in superficie» – che dipendono, per Cartesio, le differenze tra i sapori. Anche nella sfera in cui dovrebbe trovare la propria origine, dunque,

la determinazione gustativa è rinviata a uno schema tattile 11. In una prospettiva cartesiana, la determinazione del sapore di un alimento non dipende da una specifica risposta dei recettori della lingua, ma da condizioni non specifiche di ricettività applicate nella fattispecie alla lingua e caratterizzabili solo in senso quantitativo 12. In altri termini, la lingua cartesiana funziona come il palmo di una mano o come un dito. Si potrebbe giungere a dire che quelle che noi classificheremmo tra le sue esperienze accidentali, come il suo poter essere irritata da qualche causa meccanica (per esempio, il dente che casualmente la fe-risce), rappresentano di diritto, in questo schema, il modello delle sue stesse esperienze gustative. Quando la lingua avverte un sapore, essa fa un’esperienza il cui contenuto qualitativo, o di informazione speci-fica, non dipende se non dal tipo di contatto subito. Per caratterizzare questa posizione non è quindi sufficiente parlare di una fondazione del giudizio di gusto sulla sensibilità; occorre piuttosto parlare di una sua fondazione sulle condizioni puramente materiali della sensibilità.

Avevamo visto, nel nostro primo argomento, come tutti i percetti nei quali compare il predicato di gusto “dolce” siano riconducibili per Cartesio a percezioni. Ma vediamo ora – secondo argomento – che anche nel contesto percettivo nel quale il predicato di gusto preso in considerazione sembrerebbe dover trovare il proprio legittimo fonda-mento, cioè nel campo del palato, la stimolazione risulta modellata sul paradigma tattile. Non solo, dunque, i percetti sono riconducibili a percezioni, ma le percezioni sono a propria volta riconducibili alla forma unica del contatto. L’accezione estetica di “dolce” è riconducibi-le al significato percettivo, ma quest’ultimo non è fornito dalla lingua, bensì dal tatto. Derivano, rispettivamente dal primo e dal secondo punto, due conseguenze che rincontreremo a più riprese. Da un lato, poiché i percetti sono riconducibili a percezioni, si profila in Cartesio un’implicita dichiarazione di non specificità dell’oggetto estetico, della quale ci occupiamo nel prossimo paragrafo. Dall’altro lato, poiché la forma-base della percezione è pensata come tattile, le qualità sensibi-li di natura non tattile si presentano in ultimo come metaforiche, e dunque il problema della descrizione del mondo sensibile può essere caratterizzato, come più avanti suggeriamo, nei termini di un percorso retorico (cioè, nella fattispecie, come percorso di giustificazione di una serie di metafore). Ma le osservazioni e gli esempi addotti profilano, in terzo luogo, quel nesso tra estetica e cibo che il nostro testo evidenzia fin dal titolo. Se la motivazione generale di tale nesso presenta già numerosi capitoli 13, la sua giustificazione in rapporto a questo scritto – che è dedicato non a “classici” dell’estetica del gusto come Hume 14

o Brillat-Savarin 15, ma a filosofi (Cartesio e Sartre in prima battuta) apparentemente meno coinvolti nelle sue tematiche – consiste nel fatto che le filosofie del cibo qui prese in esame, presentandosi come punto d’origine e come punto di fuga di una stessa tradizione, ne

rispecchia-no in modo peculiare i caratteri. Sartre è assunto qui come filosofo “nel solco della modernità” perché il “paradigma estetico-alimentare” da lui rappresentato, pur molto diverso da quello cartesiano, si con-figura anch’esso come parte integrante di una “teoria del sensibile”, anziché – per esempio – come una riflessione confinante con temi di portata ecologica o epocale. Il presente lavoro tenta quindi di rispon-dere alle seguenti domande: (1) come si presenta, negli autori tematiz-zati, il rapporto tra estetica e teoria del sensibile?, e (2) in che modo le loro filosofie del cibo contribuiscono a delineare questo rapporto? 2. Estetica e gastronomia

È stato osservato come la filosofia cartesiana della musica, indivi-duando esplicitamente il fine di quest’arte nella commozione dell’ani-mo e ponendosi pertanto nella prospettiva dell’ascoltatore, rappresenti un’indagine estetica in gran parte inedita rispetto alla sua epoca 16. D’altro canto la delectatio che Cartesio attribuisce alla musica 17 consi-ste in una sollecitazione non delle corde dell’animo, ma piuttosto – ver-rebbe da dire proprio pensando alla fisiologia cartesiana – di quelle del timpano. Non è ovvio che sia così. Se va da sé che la poesia può agire sullo spirito solo attraverso la mediazione dei sensi, non è pertanto in-sensato distinguere tra una poesia “del cuore” e una “dell’orecchio” 18; e lo stesso vale per la musica 19. È quindi tutt’altro che pleonastico segnalare come il modello musicale cartesiano sia prettamente acustico. I praenotanda che aprono il Compendium musicae stabiliscono infatti i principî di un’estetica il cui filo conduttore è la ricerca delle condi-zioni della più dilettevole ricezione dell’oggetto sonoro, condicondi-zioni che risultano soddisfatte dalle armonie che l’orecchio percepisce né troppo facilmente, né troppo difficilmente 20. Il modello di Cartesio è, secondo gli interpreti, la canzone da ballo 21, genere la cui ricezione non va incontro né alla noia di un’eccessiva regolarità, né alla fatica di un’ec-cessiva complessità. L’oggetto della musica non è il bello, ma il grade-vole; la musica è la scienza delle armonie che piacciono all’orecchio. Il senso, però, nel quale il bello, escluso dal campo dell’orecchio, viene invece a essere riferito da Cartesio a quello dell’occhio, è niente più che nominale: con gli oggetti della vista le cose stanno come con quelli dell’udito, ed è solo per proprietà di linguaggio che i primi sono detti belli anziché gradevoli 22. Se dunque, da un punto di vista filologico, la caratteristica della posizione di Cartesio sta nel dirimere vista e udito, da un punto di vista filosofico (interessante anche storicamente, per il modo in cui il problema del gusto ne riceve l’impronta 23) sta, piutto-sto, in una nozione non specifica del pulchrum, secondo la quale le cose belle, siano esse naturali o prodotte dall’arte, sono in generale quelle che danno piacere ai sensi. Come già annunciato, queste osservazioni intendono muovere in una direzione peculiare. Vorremmo cioè mo-strare come la non specificità del bello che caratterizza la protoestetica

cartesiana sia accompagnata da un’altrettanto decisiva negazione della specificità del buono, e come tale negazione trovi un’espressione em-blematica in una nozione non specifica dell’alimento. All’associazione anche storica, opportunamente sottolineata 24, tra estetica e gastronomia si somma a nostro avviso la congiunzione tra protoestetica razionalistica e “disconoscimento” cartesiano del cibo. Una stessa lezione di metodo sembra in effetti tenere a battesimo un riduzionismo estetico e una sorta di gastronomia riduzionista.

In almeno due luoghi della sua opera, per tacere di altri in cui il nesso è indiretto o retorico 25, Cartesio stabilisce un paragone diretto tra le sensazioni e i cibi. Nel giovanile studio sulla musica, l’ottava tra le consonanze armoniche è paragonata al pane, in opposizione alla similitudine tra le armonie più complesse e i cibi sofisticati 26. Ci occu-peremo di queste similitudini nel prossimo paragrafo. Al momento, ciò che ci interessa di osservare è che il dato saliente della filosofia carte-siana del cibo è rappresentato, in perfetta omologia con l’estetica, dalla riduzione del concetto di alimento alle condizioni della sua recepibilità sensoriale. Secondo Cartesio, la ragione per cui certe sostanze sono nutrienti non si distingue di diritto dalla ragione per cui determinati corpi sono gradevoli al palato. Le sole parti di cibo “perfettamente adatte” a “passare nel sangue” e a “riunirsi a tutte le membra”, scrive, sono “quelle che sollecitano la lingua moderatamente” 27. Viceversa, le sostanze troppo piccanti o troppo insipide non entrano nella com-posizione del sangue, perché “sono anche troppo penetranti o troppo molli”. Beninteso, Cartesio non afferma l’identità tra sostanze nutrienti e sostanze gradevoli al palato; afferma, però, che le sostanze adatte al nutrimento e quelle gradevoli al palato sono rispettivamente tali per la stessa ragione, ossia perché abbastanza sottili, ma anche abbastanza solide, da poter entrare nei pori (nella fattispecie, della lingua e del fegato 28) da cui i tessuti del corpo sono formati 29. Inversamente, se certe sostanze non sono adatte al nutrimento, è per la stessa ragione per cui i corpi che le compongono incidono la lingua troppo profon-damente, o viceversa in maniera troppo tenue. Siamo in presenza, di nuovo, di uno schema di tipo tattile, in cui la nozione di commesti-bilità è modellata su idee come quelle di duttilità, penetracommesti-bilità, ecc. Incontriamo la stessa non specificità che qualificava il bello, dunque, in relazione al buono: come il bello artistico era riconducibile a ciò che è ricreativo per la vista, così il buono alimentare è riconducibile a ciò che è solubile per la lingua.

Questi brani di Cartesio esemplificano il riduzionismo moderno nel modo più chiaro. Aristotele ci invita a distinguere tra ciò che è senza denti (nodòn) e ciò che non ha denti (tò mè échon odòntas), perché l’uno non li ha per natura, l’altro invece per privazione 30. Lo stesso vale per ciò che è senza vista e per ciò che è cieco, talché sarà solo per analogia che diremo, per esempio, che una pietra è cieca. Spinoza,

per parte sua, afferma in un “crudele testo” 31 precisamente l’opposto, ossia che il cieco è tale proprio e solo come lo è la pietra 32: è in sen-so perfettamente univoco, e non analogo, che entrambi sen-sono privi di vista. Ma anche Cartesio, nei brani poco sopra richiamati, si mostra perfetto antiaristotelico. A ben vedere, il suo discorso significa infatti che non in senso analogo, ma proprio in senso univoco potremmo dire indigesto un sasso. In una scena antiriduzionista come quella greco-medioevale (ma anche, sia pure per ragioni molto diverse, come quella contemporanea 33), il mondo è un tessuto di marcature, di differenze non omogenee, di processi non reversibili, dove una mela non è una cosa che potrebbe essere messa in tasca o sulla testa e che, solo tra gli altri usi possibili, potrebbe anche essere messa in bocca. Viceversa, quello della prima modernità razionalistica (ma lo stesso vale, a questo riguardo, per la scienza classica nel suo complesso 34) è un mondo senza marcature, caratterizzato da differenze omogenee e processi re-versibili, nel quale può aver senso, almeno di diritto, mettere un sasso in bocca o un limone sulla testa. Per Cartesio e per la modernità car-tesiana non può porsi – e del tutto coerentemente – quella selezione preliminare dei dominî che costituisce il fulcro sia della semantica (e della metafisica) aristotelica, sia del linguaggio comune, in base alla quale semplicemente non ha senso asserire che un sasso non è digeri-bile, o – per dirla con Wittgenstein – che una rosa non ha i denti 35. Per tutelare la purezza del metodo, la modernità razionalistica non leibniziana è costretta a negare ogni marcatura, e a tentare quindi una genesi impossibile del complesso dall’omogeneo: genesi del percetto dalla percezione o dell’estetica dalla nuda sensazione, ma anche genesi dell’alimento dal concetto fisico di corpo, genesi dell’arte dalle condi-zioni sensoriali della recepibilità degli oggetti, ecc.

3. Del bello e del buono. Un prospetto

Altro è dire (a) che, se il senso estetico fosse quello del palato, a essere bello sarebbe il pane; altro è dire (b) che, se il Senso estetico fosse il palato, a essere bello sarebbe il pane. Mentre il primo asserto considera la situazione in cui il senso estetico (inteso nell’accezione usuale del termine) espresso per antonomasia dall’occhio apparterreb-be al palato, il secondo asserto considera la situazione in cui il Senso estetico – cioè, ora, quello tra i cinque Sensi (di qui la maiuscola con-venzionale) che è preposto al giudizio estetico – non sarebbe l’occhio (o l’orecchio), ma il palato. In altri termini, da una parte si ipotizza che gli occhi siano quelli del palato; dall’altra parte si ipotizza che l’organo del senso estetico non sia l’occhio ma il palato. Entrambe le situazioni esprimono l’idea che l’inclusione del pane (che svolge qui il ruolo di alimento per eccellenza) tra le cose buone anziché tra le cose belle sia contingente, con la differenza che la prima sembra consentire, a differenza della seconda, un’interpretazione non truistica

di tale contingenza. Mentre infatti la seconda posizione sembra impli-care un collasso della distinzione bello/buono, la prima la mantiene in essere. In base a (b), infatti, la situazione controfattuale in cui noi considereremmo belli i cibi non sembra essere se non quella in cui noi

chiameremmo “belle” le cose che solitamente chiamiamo “buone”: le

ricognizioni del palato, che sarebbe ora il nostro senso estetico, sareb-bero semplicemente accompagnate dalle note bello/brutto anziché delle note buono/cattivo, per cui noi mangeremmo le solite cose buone, solo chiamandole belle. Ma sembra che, quando si postula una posizione contingentista a proposito del buono e del bello, si intenda qualcosa di più di questo, così come, da una teoria contingentista sul bello e sul brutto, ci aspettiamo qualcosa di più che la descrizione della situazione in cui noi definiremmo brutte le mani viste al microscopio, senza per questo smettere di stringerle o baciarle 36. Questo qualcosa in più è appunto reso disponibile dalla situazione (a), nella quale è ipotizzata la situazione in cui il modello del bello sarebbe fornito dagli alimenti anziché dalle statue greche o dalle sinfonie romantiche. La situazio-ne qui descritta non è grottesca, perché (a) non sembra giocoforza richiedere che gli alimenti siano conservati nei musei, ma piuttosto che il criterio del bello venga a dipendere da esperienze saggistiche piuttosto che contemplative. Nella situazione (a), in altri termini, il nostro mondo sarebbe quello in cui le locuzioni “bello come il pane” o “bello come il vino” sarebbero ben noti proverbi: quello in cui, cioè, i nostri giudizi estetici sarebbero modellati sull’apprensione di qualità interiori delle cose piuttosto che sulla contemplazione del loro aspetto esteriore. Come si vede, dunque, l’asserto (a) dà un senso plausibile e non truistico al contingentismo sul bello e sul buono, ma, proprio per questo, ci fornisce un’immagine realistica (in senso comune) o non ontologicamente pretenziosa della situazione in cui a essere bello sarebbe il pane 37.

Entrambe le posizioni descritte incarnano un punto di vista storico. In particolare la posizione (a) parafrasa, mutate le cose da mutare, una teoria illustre della storia dell’estetica. Un modo in cui questa teoria potrebbe essere espressa è il seguente: se gli occhi fossero quelli dell’anima, a essere note come belle sarebbero le cose buone. La cor-rispondenza tra l’asserto (a) e questa teoria può non essere scorta im-mediatamente, perché possono risultare sorprendenti le analogie tra il palato e l’anima e tra le cose buone in senso gustativo e le cose buone

Nel documento Premio Nuova Estetica (pagine 93-115)