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La parola crea

Nel documento Macro e micro mutamenti sociali (pagine 61-67)

di Mariapia Veladiano

Non si fa tutto, solo il possibile

Il mio intervento ha per argomento la parola. Quando si fa scuola, oppure anche nella vita, credo non sia possibile “scegliere” di fare di tutto. Non so se capita anche a voi, quando si leggono tante circolari, documenti, programmi, linee guida, di avere un'apnea da lettura e ci si chiede se chi scrive le cose, da lassù, sappia di cosa parla.

Può capitare che una mattina a scuola tutto quello che viene programmato salti perché magari un bambino ha avuto un problema, c'è stata una difficoltà o un argomento che non si può rimandare, solo perché così dice il programma.

Si prende il buono di questo tipo di elenchi, come fossero una specie di orizzonte, di ideale impossibile, che però ci ricorda che il compito educativo è immenso. È infatti con i bambini che abbiamo a che fare, con una vita in cui ancora tutto può capitare.

Dico questo perché bisogna un po’ liberarsi dall'idea che dobbiamo fare tutto. Questo è il primo passo solo per stare bene con l'uso delle parole.

Noi non possiamo fare tutto, dobbiamo fare il possibile.

le parole ci fanno uguali

In tutto il possibile che mi è stato consegnato, quando sono arrivata a scuola, come insegnante, io ho deciso che la priorità, perché bisogna pur scegliere, l'avrei data alle parole.

Posto che non siamo Dio e che anche lui si troverebbe in difficoltà ad adempiere alle nostre linee guida, ho scelto che mi sarebbero interessate le parole.

Questa scelta è dovuta al fatto che nel momento giusto ho avuto la fortuna di incontrare Don Milani: è stata determinante nella mia scelta, molto precoce, una sua frase che riguarda le parole: “Finché ci sarà uno che conosce duemila parole e uno che ne conosce duecento, questi sarà oppresso dal primo. Le parole ci fanno uguali”.

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Faccio una professione di fede: io credo nella parola, in tutti i sensi, e credo che le parole possano aiutare a raggiungere l'obiettivo primo della prima educazione. L'obiettivo primo dell'educazione complessiva, secondo me, è acquisire un modello di relazione, di vita, di pensiero, proprio come habitus, non conflittuale. Questa è la premessa per una vita felice.

il conflitto ha le sue parole

Il conflitto ruba molte energie a chi lo vive; fa male a chi gli sta intorno; il suo ultimo esito è la guerra; è intrinsecamente distruttivo e, se io riesco a fare acquisire fino ai piccolissimi, ai bambini e ai figli, un modello di relazione non conflittuale, metà del lavoro è fatto. Hanno la mente libera per dedicarsi alla conoscenza, a tutto quello che vorranno, nella ragionevole speranza che una guerra, un modello conflittuale che noi stiamo dissennatamente coltivando, non distrugga tutto quello che loro hanno fatto e che noi abbiamo fatto.

Poiché qui si parla di scuola d'infanzia, ho portato un vecchio libro, che periodicamente Il Mulino ripubblica meritoriamente, che probabilmente alcuni conosceranno, “L'elogio della cortesia” di Giovanna Axia, che tra l'altro incarnava in se stessa questo modello dell'essere cortese.

L’autrice costruisce un percorso che riguarda ciò che si può imparare dai bambini piccoli della scuola d'infanzia. Tutto il libro è costruito sull'osservazione di dialoghi di bambini della scuola d'infanzia. Ne leggerò uno e da lì partirò. È il dialogo registrato in una scuola materna che coinvolge bambini di cinque anni. Si tratta di tre bambini: Jader, Paola e Romina.

un esempio di dialogo

Jader: “No no, mi serve, mi serve a me”. Lo dice a Paola, che gli ha preso un bastoncino.

Paola: “Anche a me mi serve, a fare così, ecco”.

Romina, che è amica di Paola, dice: “Ma se le serve anche a lei,

scusa…”, prende le parti per l'amichetta.

Jader: “Se vuoi te lo do”. Offre un altro bastoncino. È tipico dei bambini.

Paola: “No, questo non mi serve. Mi serve questo”, cioè il primo.

Romina, l'amica di Paola: “Ma dai, Jader”. Jader: “No”.

Romina: “Jader, per favore, se tu le dai quel bastone, io ti do

questo”. Ne offre un altro in cambio.

Jader: “Va bene, dammelo”, e accetta lo scambio.

un altro esempio

Secondo dialogo, tra due bambini di tre anni, Carlo e Umberto. Carlo: “Guarda, un serpente, tieni”, è scherzoso, evidentemente non è un serpente, è un oggetto. Lo offre a Umberto.

Umberto: “Te, lo tieni”, perché ovviamente non vuole il serpente. Carlo: “Tieni”. Umberto: “Te”. Carlo: “Tieni”. Umberto: “No”.

Carlo: “Io ti ammazzo”.

Umberto: “Anch’io ti ammazzo”.

la differenza sta nell’uso delle parole

Credo siano dialoghi che voi conoscete, nelle vostre esperienze. Cosa viene fuori da questo uso delle parole? È un conflitto che nasce, nel primo caso si scioglie, nel secondo caso, invece, si arriva alla guerra.

Cosa c'è di diverso? L'uso delle parole.

Nel caso del conflitto che si scioglie ci sono due elementi. Le parole “scusa” e “Jader, per favore”, e poi c'è una mediazione. Nell'altro, invece, tutto questo manca, c'è una frontalità, mancano tutte le parole che Giovanna Axia chiama “parole della cortesia”. Quando parliamo di cortesia purtroppo è facile che la si confonda con il bon-ton. Oggi la cortesia ha un che di farisaico, dalla letteratura in poi, cortese è un po' borghese, un po’ formale. In realtà tutto libro riconosce una base morale della cortesia, che è la benevolenza. Essere cortesi oppure no non è la stessa cosa, non è formalità, ma innesca meccanismi di benevolenza. I meccanismi di benevolenza possono essere insegnati attraverso le parole, attraverso il buon uso delle stesse. Parla proprio di agire con le parole.

Il compito della prima infanzia, come della scuola dopo, è quello di dare le parole giuste, che per cominciare sono tante, perché se le parole sono poche intrinsecamente il dialogo sarà schematico. Io lo chiamo duale: meno sono le parole, più è duale. Duale vuol dire bello e brutto, buono e cattivo, mi piace e non mi piace, ti amo e ti odio, una specie di impoverimento non solo del linguaggio ma di tutta la nostra capacità di raccontarci.

superare la dualità

Se noi ci accontentiamo e diamo ai bambini solo queste parole, che ci permettono di dirci qualcosa ma non di capirci davvero, ancora una volta prepariamo la guerra, prepariamo un mondo di dualità in cui poi la dualità successiva sarà amico-nemico, io- tu, italiano-straniero, io contro tutti eccetera. Il mondo duale è un mondo in guerra, perennemente.

Quello che noi dobbiamo fare è, soprattutto, dare tante parole, quelle che evitano il fraintendimento del conflitto. Se ho poche parole, dico quello che posso, non quello che voglio. Se vado all'estero e so poco l'inglese, non dico quello che voglio ma quello che posso.

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Qualche volta ci sono delle intuizioni per cui, ad esempio, l'Istituto di cultura italo-francese a Parigi non fa parlare gli ospiti, di qualsiasi livello siano, nella lingua francese, anche se la sanno, ma li fanno parlare nella lingua originaria, con traduttori strepitosi, madrelingua, perché dicono che loro coltivano esattamente questa capacità di comunicazione e chi parla nella lingua straniera, che non conosce magari abbastanza bene, non dice quello che vuol dire veramente, ma quello che può. Questo vale anche in italiano: se io poche parole non dico quello che vogliono ma quello che posso e, meno ne sappiamo, meno siamo in grado di raccontarci, alimentando i fraintendimenti.

conoscere le formule di cortesia

C'è un episodio a cui ho assistito, in un piccolo paese, con la cassiera di un supermercato, anche proprietaria, giovane e con dei bambini.

C'è una coda alla cassa e un signore straniero, arrivato in bicicletta, si mette in fila senza acquistare un prodotto.

Quando arriva il suo turno dice, in tono neutro, con accento straniero: “Una ricarica da € 10”. Lo dice bene. La giovane signora alla cassa lo investe di improperi, molto ripetitivi, poveri linguisticamente, tutti molto offensivi: “Da dove vieni tu? Non si domanda per favore dalle tue parti? Arrivate qui come bestie”, queste sono state le tre che sono riuscita a percepire. Lui non risponde e mi chiedo se capisca, spero di no, anche se il tono era eloquente. Sempre imprecando, lei gli dà la scheda di ricarica, lui paga, lei continua a inveire, finché lo straniero esce, non dicendo più neanche una parola.

Probabilmente lo straniero sapeva dire quelle quattro parole per chiedere la scheda, non ne sapeva dire molte di più. Al netto del pregiudizio della maleducazione e del pregiudizio della signora – che peraltro era una mia ex alunna, purtroppo, mi sono anche chiesta in cosa ho sbagliato – un episodio così mostra come sia quasi più importante dare le formule di cortesia, che non la lingua d'uso, come lingua per farsi capire. È assolutamente necessario: la formula di cortesia avrebbe disinnescato il pretesto per attaccare questo poveretto. Forse lei ne avrebbe trovato un altro.

costruire un giardino di belle parole

C'è un problema gravissimo, per voi, di contesto. Questo obiettivo di dare le parole, di costruire un mondo di belle parole, un giardino di parole coltivate – io lo definisco così, il mondo – oggi è un compito quasi completamente affidato alla scuola, perché la scuola è l’unico luogo, in questo momento, in cui i bambini sono esposti ad una buona lingua, a un buon uso delle parole, dove ancora adesso viene valorizzato l'uso delle parole come modalità di reciproca comprensione e

comunicazione e non come modalità di sopraffazione e di sopruso. Questo è un bel problema.

La scuola non sta nel deserto, i bambini stanno tanto a scuola, però poi vanno fuori e non trovano nessun modello di espressioni: non lo trovano nella televisione e non lo trovano nei social, per la necessità di un uso estremamente duale delle parole.

“Mi piace”, “Non mi piace” non hanno sfumature

Prima si parlava di Facebook, ad esempio, che è un modello straordinario di una dualità devastante nell'uso delle parole. Innanzitutto invece di chiamarli “contatti”, vengono chiamati amici, i rapporti di Facebook. In realtà lì non c'è niente dell'amicizia, perché non c'è una storia, non ci sono i corpi che si incontrano, che arrossiscono, che si guardano, che si evitano, ma se chiamo amico il contatto poi non ho più la parola giusta per chiamare l’amicizia. Per non parlare dell'abuso della parola amore o, politicamente, della libertà. L'altra lettura devastante che si può fare nell'uso duale delle parole, per quanto riguarda i social, è quella del “mi piace” e “non mi piace”. Il “mi piace” è l'unica cosa che posso fare e dietro l’assenza del “mi piace” sta il vuoto, il burrone del “non esisto, non ci sono”.

Nella realtà delle parole dette io potrei dire “mi piace un po', mi piace qualcosa sì e qualcosa no”. Dietro il fatto di non dire “mi piace” su Facebook ci potrebbe essere “mi piace poco, oppure sono distratta e non ho visto, oppure ancora vado su Facebook una volta alla settimana, mi sarebbe piaciuto ma non l'ho visto”. Sono tutte cose che non posso dire: posso solo dire “mi piace” oppure il burrone, la voragine in cui cadono i miei ragazzi, quelli grandi, se non hanno un numero sufficiente di “mi piace”.

la lingua del rispetto

Detto questo, ci si chiede come si può fare a scuola.

Ci dobbiamo togliere la sindrome dell'onnipotenza, perché è un andare controvento. Noi diamo le parole ma fuori l'uso ordinario delle parole è corrotto.

Io credo che la scuola sia veramente il luogo in cui c'è ancora questa bella esperienza di lingua. Noi lo facciamo in tutti i modi, soprattutto esponendo i bambini. I bambini apprendono per esposizione, non con le prediche. L'esperienza positiva dei rapporti possibili, con un linguaggio volutamente molto disinnescante questi meccanismi tremendi, aiuta moltissimo. Nella scuola si può, perché stanno moltissime ore a scuola, ed ecco perché, ad esempio, una delle mie lotte frontali è con quegli insegnanti che importano una relazione di tipo duale, di tipo aggressivo, per cui educano ad accettare la lingua comune. No, a scuola devono fare un'esperienza in cui disinnescare i conflitti.

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riduce la conflittualità

Scherzando dicevo che nella mia scuola prima o poi bisognerà fare dei corsi obbligatori di cortesia, ma i genitori sono stati contrari, perché sembrava un'offesa alla loro capacità educative. Termino proprio con i genitori. Una parte crescente del nostro lavoro è con loro.

Una volta c'era un'alleanza implicita con i genitori, relativa a valori più o meno percepiti in modo simile, ad esempio il valore della conquista personale oppure dell'onestà nel raggiungere i risultati. Eravamo tutti d'accordo che non bisognava copiare, adesso non è così.

Noi diciamo di non copiare e loro dicono “fatti furbo”.

Un’educazione rispettosa dell’altro: non c’è più quest’alleanza. Noi diciamo “rispetto” e loro dicono “fatti valere”.

Noi parliamo del valore dello studio, ma spesso loro dicono che non è così, perché chi studia prende meno, non occorre.

Non è colpa loro, c'è stata una devastazione a livello sociale, abbiamo consegnato ai genitori e ai bambini dei desideri sbagliati. Ciò che muove il bambino è sempre il desiderio. C'è quindi la necessità di creare una fortissima tenuta sui genitori.

il linguaggio va sorvegliato

Io dico un po' scherzando, quando facciamo il collegio di inizio anno, che metà del nostro lavoro è con i genitori e metà con i ragazzi: dobbiamo adottarli tutti.

Anche qui il linguaggio può offrirci delle opportunità, dall'Elogio della cortesia, ancora una volta, si citano delle conversazioni possibili con i genitori. Tre regole semplici che dà Axia: non imporsi, offrire sempre delle alternative, fare di tutto perché il genitore si senta a proprio agio.

Anche le parole per i genitori ci aiutano a disinnescare il linguaggio del conflitto. Il conflitto è la dimensione ordinaria del linguaggio comune e noi dobbiamo fare una sorveglianza sul nostro linguaggio, perché non sia così.

L'ultima delle cose che possiamo lasciare, come eredità emotiva, ai bambini, è la frase “Il mondo va così”, che è il peggior tradimento educativo che possiamo fare. Il mondo è come voi lo farete andare assieme e questa fiducia la dobbiamo assolutamente coltivare.

Mariapia Veladiano è laureata in Filosofia e Teologia, ha insegnato lettere per

più di vent'anni e ora è preside. Collabora con Repubblica e con la rivista Il Regno. Il suo primo romanzo La vita accanto, Einaudi Stile Libero, è stato vincitore del Premio Calvino 2010, e secondo al Premio Strega 2011. Con la stessa Casa editrice nel 2012 ha pubblicato Il tempo è un dio breve e l’anno successivo Ma come tu resisti, vita, una raccolta di minuscole riflessioni sui sentimenti; per Rizzoli ha scritto un giallo per ragazzi, Messaggi da lontano. Nel 2014 ha pubblicato Parole di scuola, edizioni Erickson.

Chiusura dei lavori

Nel documento Macro e micro mutamenti sociali (pagine 61-67)

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