• Non ci sono risultati.

Parte seconda: Una ragione spontanea

Nel documento Kant e la filosofia come progetto (pagine 102-162)

What I cannot create, I do not understand

RICHARD P. FEYNMAN

§ 1: Miseria della filosofia

Il tentativo kantiano di rifondazione della metafisica muove, non diversamente da quello di Rousseau, da una presa d'atto dell'impotenza della filosofia delle scuole a risolvere i problemi di cui si è voluta fare carico, e del conseguente discredito in cui è ricaduta. Per Kant, che adopera toni non dissimili da quelli del pensatore ginevrino nel primo Discorso e nella professione di fede del vicario savoiardo, le tesi dei filosofi sembrano contrapporsi l'una all'altra di modo che quella si trova in posizione di attacco ha sempre la capacità di demolire la tesi posta sulla difensiva, salvo poi soccombere nel momento in cui subisce gli attacchi della medesima dottrina che prima era apparentemente riuscita a sconfiggere, e “il campo di battaglia di queste controversie senza fine si chiama metafisica” (KrV, A VIII). Secondo Kant, dal momento in cui si è assunta il compito di conoscere “le determinazioni essenziali delle cose”, la metafisica ha versato in questa situazione, come ci attestano gli abbozzi di storia della filosofia che l'autore accenna talvolta, nella Storia della ragion pura in conclusione alla prima critica, nei manoscritti sui Progressi della metafisica e nelle lezioni di Logica e di Enciclopedia filosofica. Se questi non brillano certo per attendibilità, profondità e cura filologica, tanto per lo scarso interesse di Kant nei confronti delle opinioni dei singoli autori, quanto per i pregiudizi ch'egli muta dalla sua fonte principale, la tutt'altro che critica Historia critica philosophiae (1a ed. 1742-44, 2a ed. 1766-67) di Johann Jakob Brucker, che di solito segue pedissequamente, pure ci permettono di capire quali siano i tratti comuni della filosofia dogmatica che Kant riteneva necessario superare. La metafisica tradizionale ha per Kant sempre tentato di ricondurre la totalità del reale a un principio unitario, attribuendogli ora una natura spirituale, e attribuendo all'intelletto la facoltà di conoscerlo, ora una natura materiale, di cui soltanto i sensi possono renderci la testimonianza più attendibile. Leggiamo in un passo della Logik Philippi:

I dogmatici si dividono: 1) in coloro che filosofarono dai principî della sensibilità e 2) in coloro che filosofarono dai principî della ragione. In νοούμενοι e φαινόμενοι. Eraclito fece la differenza. I νοούμενοι affermarono che i sensi fossero falsi, non indicavano come fossero le cose, ma solo

come essi fossero toccati dalle cose. Essi credevano che la filosofia si limitasse agli intelligibilia, e che tutti gli oggetti dei sensi, che stavano tutti insieme in un fiume continuo, appartenessero soltanto alla filodossia, ma che non fossero oggetti della ragione. Democrito, Leucippo, Epicuro difesero il contrario, che l'intera filosofia si limitasse ai sensibilia (XXIV-I, 327).

Prima della critica ogni filosofia per Kant non può che aver scelto uno tra soltanto due schieramenti possibili: empirismo e razionalismo. In entrambi i partiti la conoscenza ha i tratti dell'adequatio e del rispecchiamento: conoscere è cogliere un ordine che troviamo ora nell'esperienza sensibile, ora in mente Dei, e lo strumento principe della conoscenza è l'intuizione, per i primi sensibile, per i secondi intellettuale. Gli empiristi riconducono la nostra conoscenza alla sensibilità . Solo a partire da essa si costruisce la realtà concettuale, che dalla prima dipende o dovrebbe dipendere se non vogliamo ricadere nell'errore. Per gli idealisti, invece il senso è di per sé inadeguato e in esso traluce soltanto, in modo confuso e oscuro, ciò che ha la sua vera realtà in un mondo intelligibile che l'intelletto può chiarificare. La metafisica ha così sempre presentato l'opposizione di un mondo vero e di un mondo apparente204: le discordie tra le sue scuole riguardano l'identificazione di questi due mondi. Per gli empiristi il mondo intelligibile dei concetti non è che il nostro tentativo di fare ordine nel mondo sensibile, mentre a parere dei razionalisti è il mondo sensibile a a presentare confusamente quanto si presenta in modo chiaro e distinto allo sguardo dell'intelletto. I primi cercheranno un fondamento del pensiero nell'essere, gli altri un fondamento dell'essere nel pensiero (non in quello umano, si noti bene, ma in quello divino in quanto contenente le verità eterne, e al quale, conoscendo la verità, ci avviciniamo asintoticamente).

Questo scontro si apre già con gli ionici – fisici – contrapposti agli eleati, la cui proposizione fondamentale sarebbe stata “Nei sensi vi è solo illusione e parvenza, solo ed esclusivamente nell'intelletto si trova la fonte della verità (IX, L, 28). Seguono poi Platone e Aristotele. Per il primo, obiettivo del filosofo è conoscere le idee, gli archetipi

204 Cfr. F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, pp. 46 – 47. Si potrebbe intendere invece la posizione tradizionale come monista (esiste un solo mondo, di cui si può avere nozione più o meno corrispondente al vero), e caratterizzare quella kantiana come dualista in quanto distingue tra fenomeno e cosa considerata in se stessa. Pure, è la visione tradizionale, contrapponendo tra una parvenza ingannevole e un regno della verità raggiungibile dissipata la prima, a svalutare il reame dell'apparenza, come unico dominio del quale possiamo avere conoscenze, che invece riceve con Kant tutta la propria autonomia e dignità. La cosa in sé non designa per Kant una realtà sotterranea all'apparenza (soltanto Schopenhauer poteva così fraintendere), ma un concetto limite che ci ricorda che la nostra conoscenza della realtà non è indipendente dal nostro modo di conoscere, e che dunque può rivolgersi alle cose solo in quanto, e nelle condizioni in cui, esse ci si manifestano. Su come fenomeno e cosa in sé non costituiscano due distinte regioni ontologiche, ma due modi di considerare la medesima realtà, cfr. l'utilissimo e filologicamente attento lavoro di G. Prauss, Kant und das Problem der Dinge an sich.

soprasensibili delle realtà materiali:

Platone si è servito del termine idea in un modo tale che si vede chiaramente che con esso egli intendeva qualcosa che non soltanto non è mai derivato dai sensi, ma oltrepassa di gran lunga gli stessi concetti dell'intelletto – dei quali si occupò Aristotele – giacché nell'esperienza non troverà mai nulla che le si adegui. Per Platone le idee sono gli archetipi delle cose stesse, e non soltanto le chiavi di accesso a esperienze possibili, come sono le categorie. Secondo la sua opinione, esse discendevano dalla ragione somma, da dove venivano partecipate alla ragione umana, la quale non si trova più nella sua condizione originaria, bensì deve richiamare con fatica attraverso la reminescenza (che si chiama filosofia) le antiche idee ora assai oscurate (KrV, A 313/314 – B 370/371).

L'uomo deve quindi per Platone liberarsi dalle catene del mondo sensibile e assumere il punto di vista contemplante dell'intelletto archetipo, che conosce per intuizione intellettuale, senza alcun tipo di mediazione concettuale:

Ora, non potendo noi con il nostro intelletto, in quanto facoltà di conoscere per concetti, estendere a priori la conoscenza oltre il nostro concetto (cosa che, tuttavia, avviene in matematica), Platone dovette concedere a noi uomini delle intuizioni a priori che avessero la loro origine prima non nel nostro intelletto (ché il nostro intelletto non è una facoltà dell'intuizione, ma solamente una facoltà discorsiva, ossia del pensiero), bensì in un intelletto che fosse nel contempo la causa prima di tutte le cose, cioè nell'intelletto divino; intuizioni che meritavano quindi direttamente il nome di archetipi (idee). Però la nostra intuizione di queste idee divine […] ci viene assegnata solo indirettamente – come intuizione delle copie (ectypa), delle ombre, per così dire, di tutte le cose che noi conosciamo sinteticamente a priori – al momento della nostra nascita, la quale, nel contempo, comporta un oscuramento di queste idee, con l'oblio della loro origine: conseguenza del fatto che il nostro spirito (ora chiamato anima) è stato introdotto in un corpo, dalle cui catene dovrà ormai essere nobile compito della filosofia di liberarlo gradualmente (VIII, ET, 391).

Aristotele, invece, tentò di ricercare per induzione (KrV, A 81 – B 107) i concetti fondamentali dell'intelletto, che per Platone invece non potevano che essere innati, attingibili con la sola attività dell'anima:

Una parte dei filosofi afferma che noi giungiamo al mondo provvisti di conoscenze, che il loro inventario si sviluppa gradualmente e che l'anima dell'uomo è pure come una tavola scritta. Di

questi era Platone il più eccellente, ma non il primo, questo era Pitagora205. L'altra parte afferma il

contrario, che l'anima è come una tabula rasa. Aristotele appartiene a costoro (XXIX, PhilEnz, 14).

Come Locke, Aristotele non si mantenne però del tutto coerente con i propri presupposti206 e si spinse nel soprasensibile (KrV, A 854 – B 882). Più coerente, e per questo elogiato da Kant, si mostrò invece Epicuro. Gli epicurei erano, Kant ci dice, i migliori filosofi naturali dell'antichità (L, IX, 30). Dopo un intermezzo scettico207, una filosofia priva di originalità a Roma208, un aristotelismo servile presso gli Arabi e gli Scolastici209 e una fase eclettica210 durante il Rinascimento e la Riforma, l'opposizione che ha animato la filosofia speculativa antica si ripropone. Troviamo così Bacon da una parte, il quale “seguì nelle sue ricerche la via dell'esperienza e attirò l'attenzione sull'importanza e l'imprescindibilità delle osservazioni e degli esperimenti per la scoperta della verità” (IX, L, 32), e Descartes dall'altra. Questi, la cui importanza risiede nell'aver stabilito in chiarezza ed evidenza della conoscenza il criterio della verità (ibidem), ammetteva una sola proposizione empirica, il cogito (KrV, B 274), ma aveva comunque bisogno dell'esistenza di Dio (dimostrata a priori, A 602 – B 630) tanto come sua ratio essendi quanto come garanzia della verità delle impressioni sensibili che alla coscienza si manifestano.

Infine, il confronto si ripropone con Locke e Leibniz, descritti come eredi, rispettivamente, di Aristotele e Platone (KrV, A 854 – B 882). Il parallelismo non è cosa nuova, e già in questi termini lo stesso Leibniz aveva caratterizzato l'opposizione tra sé e il filosofo empirista nei Nouveaux Essais, opera che Kant conosceva:

In effetti, benché l'autore del Saggio dica mille belle cose che io approvo, i nostri sistemi sono 205 La cui dottrina è da Kant definita oscura. Pure, all'infuori della filosofia, egli è segnalato da Kant come grande matematico e in questo affine a Platone (cfr. IX, L, 29).

206 Come, del resto, la stessa interpretazione che Kant ne offre. Talvolta infatti, specie quando desidera contrapporsi alle tendenze del platonismo che egli non può che bollare come fanatiche e che stavano trovando attenzione presso il pubblico con la traduzione tedesca delle epistole platoniche curata da Johann Georg Schlosser. Aristotele diventa allora, come nello scritto, polemizzante proprio con Schlosser, “ Di un tono da signori di recente assunto in filosofia” (1796), il modello di una filosofia fondata sul lavoro anziché sull'ispirazione. Ancora, nell'Enciclopedia filosofica, troviamo Aristotele come mediatore tra Platone e Epicuro, opposto sia all'intuizione intellettuale del primo che di quella sensibile del secondo (XXIX, 14): come Kant egli sarebbe così interprete di un pensiero discorsivo. Non manca però che succeda il contrario, e Aristotele venga confinato nella semplice speculazione (IX, L, 30), e Platone lodato per l'interesse pratico che animava la sua indagine.

207 Sul ruolo dello scetticismo torneremo tra poco.

208 Cfr. IX, L, 31: “Passando in seguito dai Greci ai Romani, la filosofia non si è ampliata; i Romani, infatti, restarono sempre soltanto discepoli”.

209 Cfr. IX, L, 31: “Nell'undicesimo secolo e nel dodicesimo apparvero gli scolastici; essi commentarono Aristotele e spinsero all'infinito le sue sottigliezze”. Nel periodo successivo, il metodo scolastico è addirittura definito “pseudofilosofare”.

210 Eclettismo che seppure conserva il lato positivo di non essere imbrigliato in nessuna scuola, ha per Kant, ammiratore della sistematicità anche se conduce all'errore, il difetto della rapsodicità.

molto differenti: il suo è più affine ad Aristotele, il mio a Platone, sebbene entrambi ci allontaniamo in molti punti dalla dottrina di questi due antichi. […] Le nostre divergenze riguardano argomenti di una certa importanza. Si tratta di sapere se l'anima in se stessa è assolutamente vuota come una tavoletta su cui non sia stato ancora scritto niente (tabula rasa), come sostengono Aristotele e l'autore del saggio, e se tutto ciò che vi è impresso derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza; oppure se l'anima contiene originariamente i principî di più nozioni e conoscenze che gli oggetti esterni risvegliano soltanto in determinate occasioni, come io credo con Platone e la scuola e con tutti coloro che interpretano in questo senso quel passo di san Paolo (Romani, 2, 15) nel quale egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori (Nuovi saggi sull'intelletto umano, pp. 47 – 49).

Locke si è impegnato, benché in modo dogmatico, a scomporre le operazioni dell'animo umano. Egli è andato in cerca “dei primi tentativi della nostra capacità conoscitiva” volendo risalire “dalle singole percezioni ai concetti generali” (KrV, A 86 / B 118 – 119), facendo derivare tutti questi ultimi dall'esperienza. Leibniz invece pensò che la conoscenza fosse integralmente riconducibile a principî intellettuali: egli considerò i fenomeni come intelligibilia, oggetti dell'intelletto puro ( A 264 – B 320):

[…] il celebre Leibniz costruì un sistema intellettuale del mondo, o piuttosto credette di conoscere l'intima costituzione delle cose, in quanto paragonò tutti gli oggetti solo con l'intelletto e con i concetti formali astratti del suo pensiero. […] Egli paragonò tutte le cose fra loro semplicemente mediante concetti e scoprì com'era naturale che non vi fossero altre differenze se non quelle tramite cui l'intelletto distingue i suoi concetti puri tra di loro (KrV, A 271 – B 326).

e, al contempo, ridusse la sensibilità a una percezione oscura e confusa di quanto invece appariva o poteva apparire chiaro e distinto all'intelletto:

Le condizioni dell'intuizione sensibile non le considerò come originarie; infatti la sensibilità era per lui una specie di conoscenza confusa e non una particolare sorgente delle rappresentazioni; fenomeno per lui era la rappresentazione della cosa in se stessa, sebbene distinta dalla conoscenza intellettuale secondo la forma logica, poiché, secondo la consueta mancanza di analisi, il fenomeno introduce nella cosa una certa mescolanza di rappresentazioni collaterali, che l'intelletto saprà eliminare (KrV, A 270 – 271 / B 326 – 327).

Il prezzo pagato da Leibniz fu però, per svolgere coerentemente una simile operazione, di dover assegnare a ogni sostanza una capacità rappresentativa e negare ogni influsso fisico reale tra le sostanze. Non esiste reale percezione dell'esterno, bensì tutto si svolge dentro

alla singola monade, che con le altre monadi si accorda in virtù soltanto di un'armonia prestabilita da Dio:

Ma nelle sostanze semplici solo un’influenza ideale di una monade sull’altra può avere il suo effetto unicamente attraverso l’intervento divino, in quanto nelle idee di Dio una monade chiede, con ragione, che Dio, ordinando le altre al principio delle cose, la consideri. Perché, siccome una monade creata non può influenzare fisicamente l’interno dell’altra, è solo per quel medio che l’una può dipendere dall’altra. Ed è per questo che le azioni e le passioni tra le sostanze sono reciproche. Dio infatti, mettendo a confronto due sostanze semplici, trova in ciascuna dei motivi che lo obbligano ad adeguarla all’altra. Di conseguenza ciò che è attivo secondo un certo rispetto, è passivo secondo un altro: attivo in quanto ciò che in esso si conosce distintamente serve a rendere ragione di ciò che accade in un altro, e passivo in quanto la ragione di ciò che accade in esso si trova in ciò che, in un altro, è conosciuto distintamente. (Monadologia, §§ 51 – 52)

Ammessa la dottrina delle monadi e l'armonia prestabilita, la conoscenza trova la propria regola nei principî logici di non contraddizione, di ragione sufficiente, di identità degli indiscernibili. Dio (con la sua bontà e perfezione) è dunque fondamento e garante ultimo di ogni realtà e verità.

Locke e Leibniz sono dunque le ultime forme, rispettivamente, di empirismo e razionalismo che si incontrano nella storia della filosofia, e specificatamente su di esse Kant modella le posizioni antitetiche che passa al setaccio nella critica. Nell'estetica trascendentale, al primo viene ascritta la caratterizzazione di spazio e tempo come concetti empirici, che ci formiamo osservando la coesistenza e la successione delle cose che ci appaiono (KrV, A 23 – B 38, A 30 – B 46), il secondo come rapporti reali intercorrenti tra le sostanze (KrV, A 25 – B 39, A 31 – B 47). Nell'analitica, il sistema di Locke prevede che sia l'esperienza sensibile a essere fonte di tutti i concetti; il sistema leibniziano, invece, considera tali concetti puri come innati nella nostra mente. Nel soprasensibile, invece, abbiamo visto Locke sposare la posizione opposta a quella che avrebbe dovuto intraprendere se si fosse attenuto all'esperienza, introducendo nel suo modo di procedere argomenti di derivazione razionalista per l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. Tali argomenti si formano però, come dimostrano il capitolo primo e il capitolo terzo del secondo libro della Dialettica trascendentale, su sofismi. L'immortalità dell'anima, infatti, si assume come risultato di un paralogismo211 che equivoca il soggetto logico cui tutti gli 211 Vale a dire “Ciò che non può essere pensato altrimenti che come soggetto, non esiste anche altrimenti che come soggetto, e dunque come sostanza. Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato altrimenti che come soggetto. Quindi, esso esiste anche soltanto come soggetto, ossia

atti sono riferibili in prima persona (io penso) con una sostanza semplice (e dunque incorruttibile), sempre identica a se stessa e autonoma dalla mia dimensione corporea (KrV, B 407 – 409). Similmente, l'argomento razionalista per dimostrare l'esistenza di Dio212 ammette un passaggio del tutto illecito dal pensiero all'essere. La prova ontologica si fonda infatti sul concepire un'essenza (che ha come regola, affinché io sia autorizzato a pensarla, la sua semplice non contraddittorietà) che dovrebbe implicare la sua propria esistenza (che invece ha come condizione che io possa incontrarla nell'esperienza):

Ma la necessità incondizionata dei giudizi non è una necessità assoluta delle cose. Infatti, la necessità assoluta del giudizio è soltanto una necessità condizionata della cosa o del predicato nel giudizio. La proposizione addotta non dice che tre angoli siano assolutamente necessari, bensì che, a condizione che esista (sia dato) un triangolo, esistono necessariamente anche tre angoli (in esso). […] Se in un giudizio identico io elimino il predicato e conservo il soggetto, ne nasce una contraddizione: pertanto dico che il primo conviene necessariamente al secondo. Ma se assieme al predicato elimino anche il soggetto, non nasce alcuna contraddizione, poiché non vi è più nulla che possa essere contraddetto (KrV, A 595 – 595 / B 621 – 622).

L'esistenza, dice Kant, non è un predicato reale, vale a dire non aggiunge né toglie nulla al concetto di una cosa, né si capisce perché si dovrebbe ammettere un'eccezione per il concetto di Dio. Il fallimento di queste dimostrazioni non significa però affatto una vittoria del realista che nega l'esistenza di Dio e dell'anima: le sue argomentazioni hanno infatti valore soltanto all'interno dell'esperienza materiale e ben poco potrebbero dire su un'eventuale realtà soprasensibile. I suoi sforzi non potrebbero mai produrre una dimostrazione dell'inesistenza di una realtà spirituale, ma al più metterne in evidenza l'assenza di prove:

Ma così, se l'empirismo (come accade il più delle volte) diviene esso stesso dogmatico riguardo alle idee e nega accanitamente ciò che è sopra la sua sfera della conoscenza intuitiva, cade allora esso stesso nell'errore dell'immodestia, che qui è tanto più biasimevole, poiché con ciò viene causato un danno irreparabile all'interesse pratico della ragione (KrV, A 471 / B 621 – 621).

Quando si pretende di parlare della totalità degli enti (il mondo), lo scontro si spinge su un terreno ancora più incerto. Se infatti nel caso dell'anima e di Dio lo scontro non lascia come sostanza” (KrV, B 410 – 411).

212 Al quale Kant riconduce poi tutte le altre possibili prove in quanto tutte fondate sul concetto di un essere necessario.

vincitori né vinti, in quanto degli uni è possibile dimostrare la fallacia dell'apparato concettuale e agli altri viene impedito di potersi esprimere coerentemente al di fuori del dominio dell'esperienza, nel caso degli interrogativi cosmologici ognuna delle due parti sembra avere buoni argomenti e lo scontro si configura ad armi pari. Si tratta in questo caso di arrivare a un fondamento ultimo dell'esperienza risalendo nella serie dei fenomeni, muovendo dall'esperienza verso i suoi principî e non, come nei paralogismi e nell'ideale della ragion pura, partendo dai principî stessi. Verso una tale unità si dirige la stessa ricerca scientifica e naturalistica, aspirando a principî e leggi sempre più universali. È Kant stesso, nei Fortschritte213, a osservare la maggior legittimità e fecondità di una simile riflessione cosmologica, se non nei risultati, almeno nella consapevolezza che si può avere della ragione: se quello di prima era un salto nel vuoto, questo è un passaggio cui pure la natura

Nel documento Kant e la filosofia come progetto (pagine 102-162)

Documenti correlati