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1. Configurazione accademica della teologia pastorale

È necessaria la teologia pastorale? Dal momento che si tratta di una scienza relativamente giovane, come si giustifica la sua esistenza come disciplina autonoma? La teologia pastorale, a nostro avviso, esiste perché tra la pastorale e la dottrina vi è una originaria reciproca interconnessione in quanto la pastorale dipende dalla dottrina, ma la dottrina, a sua volta, viene modulata dalla pastorale.

E il fondamento di questa interconnessione è il carattere teorico-pratico del fatto cristiano.

Dovremmo dire, per l’esattezza, che la teologia pastorale è sempre esistita, sebbene in forma implicita. La teologia “non si fa mai a tavolino”: quando un buon teologo riflette sulla fede lo fa sempre muovendo dalla sua esperienza di fede e dalla fede della comunità. Quando riflette sul sacramento della riconciliazione non si limita a collegare tra loro affermazioni logiche, ma si richiama alla sua esperienza del sacramento. Questioni vive e vissute come il pentimento, il perdono liberatore, l’incontro con Dio, il senso del peccato, il collegamento tra la confessione e l’eucaristia, sono implicitamente alla base di ogni buona riflessione teologica.

Ma perché, improvvisamente, questa teologia pastorale implicita diventa esplicita? A completamento della nostra tesi di partenza, possiamo affermare che la teologia pastorale diventa esplicita ogni qualvolta, nella storia, si produce una frattura tra cristianesimo e società, tra fede e vita.

Frattura che costringe il teologo e la comunità credente a uno sforzo di riflessione, per quanto possibile pratica, che consenta di ripristinare il legame interrotto. Da simili congiunture emerge infatti la necessità di un metodo che consenta di comprendere perché la vita e la storia sembrino diventate refrattarie alla fede: la teologia pastorale diventa, così, esplicita.

1.1 L’interesse politico: l’abbate Rautenstrauch

La teologia pastorale nasce a Vienna nel 1774 per motivi essenzialmente politici.

L’imperatrice Maria Teresa d’Austria aveva avviato una riforma degli studi universitari per «rendere lo studio fruttuoso in ordine agli interessi dello stato»24. Riguardo alle discipline teologiche, il compito di attuarla fu affidato all’abate Rautenstrauch, il cui intento era di assecondare gli interessi statali, senza però trascurare quelli della Chiesa. Rautenstrauch riteneva che la scissione avviata dalla modernità e la conseguente progressiva divaricazione tra Chiesa e società, potessero essere superate attraverso la formazione di preti, sacerdoti e parroci in grado di ricostituire l’antica unità attorno alla

24 S.LANZA, Introduzione alla teologia pastorale, 38.

37 parrocchia. Il compito dei pastori diventava dunque prezioso per lo Stato perché formare buoni cristiani significava garantire all’impero cittadini onesti su cui contare.

Nel nuovo programma degli studi fu così introdotta una nuova disciplina: la teologia pastorale, il cui carattere era, insieme, teologico e pratico. Essa era intesa come prolungamento del mistero di Cristo. Il pastore, in altre parole, prolungando l’agire di Cristo nella storia, partecipa dei suoi tria munera. I suoi compiti e ambiti d’azione - insegnare, santificare e edificare - erano individuati sulla base di un procedimento deduttivo, e conferivano alla teologia pastorale la struttura tripartita che l’ha caratterizzata fino ai giorni nostri. Questa teologia pastorale è stata riprodotta dai Manuali di teologia pastorale praticamente fino ai nostri giorni. Tuttavia, a nostro avviso, essa è carente in due punti:

a) deduttivismo: la subordinazione della teologia pastoralealla cristologia limitava il carattere pratico della nuova disciplina, la cui riflessione, in fin dei conti, derivava per via deduttiva dal dogma cristologico. Per tale motivo si rimane troppo legati ad una divisione tripartita della pastorale troppo schematica con il rischio di non saper vedere quali siano i problemi che essa debba studiare.

b) pragmatismo: questa prospettiva alimentava una visione pragmatica della pastorale. Se viene intesa come azione di aiuto del pastore al singolo, la teologia pastorale si riduce a semplice trasmissione di esperienze collaudate. Pur non essendo ciò di per sé sbagliato, non permette di dire che la pastorale sia una disciplina teologica: sarebbe piuttosto un sapere pragmatico ed esperienziale, concentrato sulla trasmissione di alcune regole pratiche destinate alla guida dei singoli (elementi di spiritualità cristiana, di prudenza, di buon governo, ecc.).

Bisogna, in ogni caso, riconoscere a Rautenstrauch il merito di aver sottolineato la necessità di una proposta del Vangelo più attenta alle circostanze e al destinatario e, quindi, agli aspetti metodologici e pedagogici della pastorale. A differenza della manualistica precedente, la nuova materia di studio non si limitava a fornire un semplice prontuario di consigli pratici, ma costituiva una vera e propria disciplina teologico-pratica che, per determinare l’azione del pastore, si ispirava direttamente all’agire di Gesù: un impianto metodologico ancora acerbo, che ha intrapreso, però, la strada giusta.

Occorre aggiungere che, dietro l’interesse politico che portò alla nascita della teologia pastorale, vi era, in realtà, una motivazione più profonda. Agli occhi dei cristiani era sempre più evidente la portata storica della progressiva separazione fra religione e società, che era tuttavia imputata a motivazioni forse non del tutto esatte: minore presenza sociale della Chiesa, perdita di influsso culturale, ecc. Non deve meravigliare, ad ogni modo, che con la riforma degli studi teologici l’istituzione ecclesiale abbia assecondato l’equazione buon cristiano = buon cittadino tipica del

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“giuseppinismo”. La situazione di incertezza e di crisi spingeva a trovare nuove vie per riportare la fede nella vita delle persone e a ricercare le forme pastorali più adeguate. È senz’altro apprezzabile l’impegno profuso dal Concilio di Trento per il miglioramento del clero, ma serviva qualcosa in più:

serviva una formazione pratica adeguata ai tempi. Tutto ciò conferma la nostra tesi di partenza secondo la quale, quando in una società fede e vita si separano, riemerge sempre con forza, tradotta in domande apparentemente elementari (come evangelizzare? Cosa deve fare la Chiesa oggi?), la questione pratica della fede.

Gli effetti della riforma non si fecero attendere, soprattutto nelle aree in cui maggiore era l’influenza austro-asburgica, nelle quali si impose la figura del parroco-pastore che, da un lato, esercitava una funzione di controllo sociale (attraverso la parrocchia si trasmettevano gli editti imperiali; essa, inoltre, curava la compilazione dei registri anagrafici, ricordava i doveri dei buoni cittadini, proponeva il seminario come “agenzia educativa” per i giovani, ecc.) e, dall’altro, garantiva e rafforzava la vita ecclesiale. È stato, questo, l’apogeo della cultura e della “civiltà parrocchiale”, in cui l’assestamento della vita ecclesiale ha garantito o almeno promosso il consolidamento della vita civile.

1.2 Il radicamento ecclesiologico: F. Schleiermacher

Friedrich Schleiermacher è stato, dopo Lutero e prima di Barth, la figura dominante della teologia protestante. Dopo la distruzione dell’università da parte delle truppe napoleoniche, nel 1807 lo stato prussiano gli conferì l’incarico di dar vita a una nuova istituzione accademica. Poiché la filosofia illuminista aveva negato il carattere scientifico della teologia, era necessario motivare l’inserimento di tale disciplina nei piani di studio accademici. L’impianto di Schleiermacher è in linea con l’idealismo tedesco. Egli affermava che, accanto alla teologia filosofica (necessaria per lo sviluppo dello spirito umano) e alla teologia storica (necessaria per la fondazione della ricerca teologica), esiste anche una “teologia pratica”. Come giustificarla? In un contesto protestante non si poteva porre l’accento sulla figura del sacerdote, ma si doveva, piuttosto, far leva sulla comunità cristiana e sulla sua necessaria riorganizzazione. La teologia pratica si giustificava, dunque, come riflessione operativa sull’autoedificazione della Chiesa, ossia come riflessione sul modo di condurre la comunità.

Lo schema proposto da Schleiermacher, tuttavia, derivava dalla sua esperienza come pastore.

Allora egli aveva infatti avvertito, non senza preoccupazione, che la rilevanza sociale e culturale del cristianesimo andava scemando: non si trattava del cristianesimo istituzionale, ma di una fede che restava confinata nel ristretto ambito delle scelte individuali, mentre la società si allontanava sempre più dal paradigma cristiano. Il teologo tedesco comprese che la sfida doveva essere condotta anche

39 sul piano culturale: bisognava, cioè, rispondere a questa scarsa rilevanza sociale e culturale mediante un “metodo di pensiero” che fosse in grado di cambiare la situazione. La riflessione, il metodo e la disciplina dovevano essere pratici. Dovevano dar luogo, in altre parole, a una “teologia pratica” in grado di indicare “ciò che va fatto”, e, quindi, di offrire non principi teoretici, ma regole di comportamento da adottare nella conduzione della comunità, finalizzate all’edificazione della Chiesa, e da riformularsi, di volta in volta, secondo la situazione concreta che essa si trova a vivere.

È proprio questa la novità più importante offerta dal pensiero di Schleiermacher: la teologia pastorale o pratica – osservava il teologo – non intende dare indicazioni di valore assoluto, ma elaborare un metodo che consenta di individuare il miglior modo di procedere in ogni situazione.

Qualcosa di analogo era accaduto, in un certo senso, con il rinnovamento della teologia morale, che si sviluppò come disciplina scientifica quando, trovandosi a dover affrontare un gran numero di “casi”

particolari, dette origine a un’ampia casistica incapace, però, di comprendere tutte le situazioni.

Anche nel caso della pastorale è impensabile che si possano predisporre schemi validi per tutte le occasioni e adatti ai continui mutamenti della società. Per superare il pragmatismo della manualistica (la “logica del ricettario”) l’unica soluzione è elaborare un metodo che aiuti a individuare, di volta in volta, il comportamento o l’azione più adatti alle diverse circostanze.

Schleiermacher, tuttavia, non fu del tutto coerente con questa impostazione di fondo e forse non poteva fare altrimenti, vista la novità dell’impianto. La sua teologia pratica, infatti, non avrebbe dovuto essere un “prolungamento” deduttivo della dogmatica, e le regole non avrebbero dovuto ridursi a una semplice conseguenza delle premesse dottrinali. In realtà, invece, la disciplina resta, con lui, ancora legata alla dogmatica: non alla cristologia (come accadeva con Rautenstrauch), ma all’ecclesiologia, in quanto le modalità di autoedificazione della Chiesa (come strutturare la parrocchia, quali ministeri conferire ai laici, come predicare, come organizzare la distribuzione del clero, ecc.) sono ancora dipendenti dall’essere della Chiesa – in continuità con lo schema classico agere sequitur esse. Da allora, e fino ai giorni nostri, la dipendenza della teologia pastorale dall’ecclesiologia è rimasta invariata, e buona parte della produzione letteraria dedicata alla pastorale è in pratica un “prolungamento” del trattato ecclesiologico o, per riprendere un’espressione di Rahner, una “ecclesiologia esistenziale” ricavata dalla “ecclesiologia essenziale”. Tale impostazione si rivela però insoddisfacente perché, nel formulare i criteri pastorali da adottare, non tiene sufficientemente conto della situazione pratica determinata dal contesto.

1.3 La dimensione storica della Chiesa: A. Graf

Gli effetti positivi della riflessione scientifica di Schleiermacher si sono avvertiti anche nell’ambito della teologia cattolica. La sua influenza è evidente soprattutto nel pensiero di Anton Graf

40 (1811-1867), professore della facoltà teologica di Tubinga. Anche Graf ritiene che la teologia pastorale non possa ridursi a un mero prontuario di soluzioni pragmatiche, e che debba, invece, elaborare un metodo, una forma di pensiero teologico e pratico in grado di formulare decisioni operative. La proposta di Graf è debitrice del pensiero di Schleiermacher, ma presenta alcune importanti novità la cui portata è stata riconosciuta soltanto recentemente. La teologia, per lo studioso cattolico, è la “coscienza scientifica che la Chiesa ha di sé stessa”, e questa “autoconoscenza” si articola su tre livelli, che corrispondono alle tre dimensioni della Chiesa in quanto organismo vivente:

1. il passato, oggetto della storia della Chiesa e della teologia biblica.

2. il presente, cioè l’essenza della Chiesa, oggetto della teologia dogmatica.

3. il futuro, oggetto della teologia pastorale che si occupa della realizzazione della Chiesa.

Come già Schleiermacher, anche Graf propone una teologia pastorale dipendente dall’ecclesiologia, ma, mentre per il pensatore protestante la teologia pastoraleè semplicemente una necessità pratica (dal momento che la Chiesa deve essere condotta e organizzata, occorre una riflessione pratica), per Graf essa rappresenta un’esigenza intrinseca alla teologia stessa. È la dimensione storica della Chiesa, il suo essere un soggetto inserito nella storia che impone alla teologia (in quanto autoconoscenza scientifica della Chiesa) una riflessione di tipo pratico. Come abbiamo già anticipato e come vedremo meglio studiando in profondità il Concilio Vaticano II, il collegamento della teologia pastorale con la dimensione storica della Chiesa è fondamentale per capire che il metodo teologico-pastorale deve radicarsi non soltanto nel dato di fede (insufficienza dell’impianto deduttivo), ma anche nel dato storico. Una valida riflessione pratica sulla realizzazione della Chiesa richiede, in altre parole, lo studio e la conoscenza delle condizioni socio-culturali in cui essa vive in ogni momento. Le forme e le strutture che l’evangelizzazione deve assumere in una determinata situazione non possono, ad esempio, essere stabilite senza conoscere quella specifica e peculiare situazione (livello culturale e religioso, incidenza della secolarizzazione, ecc.).

Come Schleiermacher, anche Graf non giunge a elaborare un metodo (anche a causa di un’eccessiva dipendenza dall’ecclesiologia della teologia pastoraleda loro proposta). Riesce, però, a individuare la strada giusta, anche se purtroppo la teologia e la manualistica successive non sapranno proseguire lungo il cammino da lui indicato.

1.4 Il principio divino-umano: F.X. Arnold

Ci soffermiamo adesso sul pensiero di F.X. Arnold che, dal 1942, succedette a Graf alla cattedra di teologia di Tubinga, e le cui riflessioni mirano essenzialmente a chiarire in che senso

41 l’opera pastorale sia salvifica. Il “processo salvifico”, naturalmente, è sempre un incontro personalissimo fra Dio e l’uomo il quale si apre a Lui liberamente. Che ruolo gioca allora l’agire della Chiesa nell’evento salvifico? Gioca, afferma il teologo, un ruolo di “mediazione” (non di intermediazione!), in quanto la Chiesa si inserisce in questo processo rendendolo tangibile. Come l’Umanità di Cristo ha reso possibile l’incontro salvifico fra l’uomo e Dio (attraverso la parola di Gesù, i suoi gesti, il lembo del suo mantello…, la sua saliva!), così la Chiesa lungo la storia continua ad essere mediatrice dell’evento salvifico25. Si comprende meglio, così, il disegno di Dio, che ha voluto che in tale evento fossero presenti due elementi, uno divino e l’altro umano: la grazia invisibile che si manifesta attraverso le realtà visibili, l’eternità che entra nel tempo, il dono divino e la realtà storica. La salvezza cristiana non è una realtà a-storica, non altera le normali condizioni del vivere umano perché Dio, se così si può dire, si adegua in un certo senso ad esse e rispetta la natura delle cose pur superandole infinitamente.

L’intuizione di Arnold è fondamentale per la teologia pastoralein quanto indica finalmente il principio formale su cui poggia la teologia pastorale, ossia il principio “divino-umano” o principio dell’incarnazione. Più che una riflessione sulla cura delle anime, sulla figura del Buon pastore, o sulla Chiesa che deve in qualche modo edificarsi, lo studio della pastorale con Arnold diventa innanzitutto una riflessione sull’azione salvifica. Con ciò si aprono le porte ad una considerazione teologica della situazione pratica in cui avviene l’azione ecclesiale, la quale, per essere veramente salvifica, dovrà essere anche correlata al contesto storico. Viene così definita correttamente la natura teologica della teologia pastoralee si gettano le basi per lo sviluppo coerente di un metodo teologico-pastorale. Con Arnold l’identificazione dello statuto epistemologico della teologia pastoraleintraprende finalmente la strada giusta.

1.5 Il Concilio Vaticano II: Dei Verbum e Gaudium et spes

Il Vaticano II fu un “concilio pastorale”. I concili che lo hanno preceduto sono stati perlopiù convocati per affrontare problemi dottrinali o dogmatici, o per riaffermare l’ortodossia della fede di fronte all’eresia: il Concilio di Trento, ad esempio, fu indetto per contrastare la riforma luterana; il Vaticano I fu convocato per rispondere ad alcune teorie erronee sul primato e sull’infallibilità del papa e per confutare alcune tesi riduzioniste formulate dal razionalismo soprattutto riguardo alla rivelazione. Il Vaticano II, invece, non aveva alcun problema dogmatico da affrontare, ma intendeva essere, come affermò lo stesso Giovanni XXIII (e confermò successivamente Paolo VI), un “concilio

25 Il Concilio Vaticano II non aveva ancora definito la Chiesa “sacramento universale di salvezza”, né aveva stabilito l’analogia fra il Verbo incarnato e l’organismo sociale della Chiesa (cfr. LG 8), ma il contesto ecclesiologico in cui si muove Arnold è quello.

42 pastorale” (cosa il Papa intendesse con questa espressione lo vedremo in seguito). Il termine

“pastorale” indica tutto ciò che la Chiesa fa in rapporto alla sua missione nel mondo. Alla vigilia del Concilio Papa Roncalli si chiedeva come la Chiesa potesse realizzare la missione affidatale in un mondo tanto velocemente e profondamente cambiato. I fermenti di riforma erano ormai universalmente diffusi: di fronte a un mondo in rapida e continua trasformazione occorreva un rinnovamento profondo. Ma in quale direzione? Giovanni XXIII offrì un’indicazione programmatica nella bolla di indizione del Concilio: «Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale»26. Si percepiva che la Chiesa stava rimanendo esclusa dalla costruzione del mondo moderno, e si avvertiva la necessità e l’urgenza di reinserirla nella vita degli uomini e della cultura. Rimettere l’uomo contemporaneo in contatto con il Vangelo: questo era l’intento pastorale del Concilio.

La volontà rinnovatrice del Vaticano II appare evidente sotto molti punti di vista: lo stile e il linguaggio dei documenti, la riflessione su tematiche emergenti, la rigenerazione della teologia con il ritorno alle fonti, il rinnovamento liturgico, ecc. Ma per garantire il buon esito della riforma e di tutte le eventuali riforme future occorrevano anche prospettive capaci di cogliere i fermenti di rinnovamento teologico che venivano proposte da più di un secolo (movimento biblico, liturgico, ecc.). Prenderemo in considerazione le costituzioni Dei Verbum e Gaudium et spes.

a) Dei Verbum

La crisi modernista della fine dell’Ottocento potrebbe essere considerata, in un certo senso, la reazione di fronte ad una teologia troppo condizionata dal razionalismo cartesiano, ridotta a volte ad una elaborazione a partire dalla ragione più che dalla fede. Di conseguenza, risultava una teologia troppo astratta. Purtroppo, la necessità di contrapporsi al modernismo intensificò ancora di più la tendenza della teologia a cercare sicurezza riducendosi ad un commento del magistero.

In questo contesto, sotto la spinta dell’ondata di rinnovamento teologico, il Concilio capì che erano giuste le esigenze di dare più spazio al dato biblico nella riflessione teologica e nella comprensione stessa del concetto di rivelazione. La costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione volle ricordare che la rivelazione non è un in primo luogo un corpo dottrinale, ma un avvenimento storico e una Persona.

26 GIOVANNI XXIII, Gaudet Mater Ecclesia (Discorso di apertura del concilio Vaticano II), 11.10.1962, 6

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«Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4).

Con questa Rivelazione, infatti, Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé»27.

La rivelazione, quindi, non deriva da proposizioni atemporali su cui si riflette, ma avviene nella storia, attraverso «eventi e parole»28 che la contengono simultaneamente. Essa, prima di tutto, possiede una dimensione storica e solo dopo una dimensione noetico-concettuale. Dimensione storica non vuol dire solo che la rivelazione avviene in precise coordinate spazio-temporali e nemmeno che gli avvenimenti storici servono a capire meglio il messaggio rivelato. È molto di più, significa che la rivelazione procede attraverso una storia che Dio guida. Dio è entrato nella storia, inaugurando una nuova vita che procede verso il suo compimento escatologico, come il piccolo seme che cresce fino a diventare albero. È giusto dire che la rivelazione si è conclusa in Cristo, ma è anche giusto dire che

La rivelazione, quindi, non deriva da proposizioni atemporali su cui si riflette, ma avviene nella storia, attraverso «eventi e parole»28 che la contengono simultaneamente. Essa, prima di tutto, possiede una dimensione storica e solo dopo una dimensione noetico-concettuale. Dimensione storica non vuol dire solo che la rivelazione avviene in precise coordinate spazio-temporali e nemmeno che gli avvenimenti storici servono a capire meglio il messaggio rivelato. È molto di più, significa che la rivelazione procede attraverso una storia che Dio guida. Dio è entrato nella storia, inaugurando una nuova vita che procede verso il suo compimento escatologico, come il piccolo seme che cresce fino a diventare albero. È giusto dire che la rivelazione si è conclusa in Cristo, ma è anche giusto dire che

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