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Per la rigorizzazione: procedere riscattando e dimostrando

IL METODO DI BONTADIN

2.1 Per la rigorizzazione: procedere riscattando e dimostrando

La metafisica dell’esperienza, a partire dalla mediazione di quell’essere immediato che è colto nell’UdE, è uno sforzo teoretico che si configura anche come esperienza vissuta: avvalendosi della terminologia tedesca, Bontadini precisa questa distinzione con i concetti di Erlebnis – per ciò che concerne l’esperienza come presenza immediata – e di Erfahrung – per ciò che riguarda l’esperienza individualmente vissuta. Mentre la prima accezione di esperienza implica una conoscenza di tipo immediato, la seconda esprime un processo di accrescimento della conoscenza, che si configura, perciò, come conoscenza mediata9. Chiarita questa distinzione, dal momento che la metafisica è, per Bontadini, mediazione dell’esperienza, egli descrive la stessa metafisica come una forma di esperienza; nello specifico, come «l’esperienza (processo vissuto) del tentativo di trascendere l’esperienza (conoscenza immediata)»10.

Si vede così che lo sforzo teoretico con cui si cerca di andare oltre l’immediatezza dell’esperienza si dispone come «intreccio o circuminsessione del mediato e dell’immediato: l’avere esperienza della mediazione dell’esperienza»11. In queste parole di Bontadini notiamo una carica retorica nell’uso del termine “esperienza”, volta a

8

Cfr. G. Bontadini, La funzione metodologica dell’Unità dell’Esperienza, in Conversazioni di

metafisica, vol. I, p. 55. 9

«Esperienza, come il greco ιστορια, ha duplice significato; duplice e persino opposto: significa, da una parte, conoscenza immediata, dall’altra il processo di costituzione della conoscenza, e della sapienza!, ossia la stessa mediazione [...] Il tedesco, con i due vocaboli di Erfahrung e di

Erlebnis, ha esplicitato la distinzione» (cfr. G. Bontadini, Esperienza e metafisica [1949], in Dal

problematicismo alla metafisica, cit., p. 149). 10

Cfr. ibidem. 11

sottolineare lo stretto legame che intercorre tra la metafisica e la vita di ciascuno. Da dove venga questo legame, egli lo chiarisce già in apertura del giovanile Saggio: «se si tratta, dunque, di concepire i rapporti tra la Vita e l’Assoluto, […] la filosofia è dunque determinata come Metafisica della Vita. Ma intanto la vita […] diventa l’oggetto

immediato da cui muove l’indagine filosofica […]: la Vita è presa come esperienza, e la filosofia è determinata come Metafisica dell’Esperienza»12.

Il problema filosofico si fa “problema della vita”, in quanto riflessione sul valore della vita come capacità di realizzarsi in funzione di un fine ultimo; ma la vita, a sua volta, necessita della mediazione dell’Assoluto per indagare sul suo valore, facendo del problema filosofico il “problema dell’Assoluto”. Afferma infatti Bontadini che «la Vita si pone come problema di se stessa per la mediazione del concetto dell’Assoluto»13; il valore, ossia il fine che indirizza la vita di ciascuno, deve necessariamente rinviare all’Assoluto: poiché la vita si compie in un certo ordine di realtà, questo medesimo ordine sarà il parametro per misurare il valore della vita. Quello che rimane da scoprire, allora, è se questo ordine debba a sua volta confrontarsi con un ordine superiore, dal quale sarà perciò condizionato, o se non sia piuttosto esso solo ad esaurire la totalità del reale14.

Il problema filosofico, che è stato posto come problema della vita in relazione all’Assoluto, si articola ulteriormente come “problema della razionalità del reale”, che è costituito dall’interrogativo sulle condizioni reali che permettono la realizzazione del fine della vita e sulle caratteristiche che denotano l’Assoluto affinché sia garantita la razionalità della realtà. La coscienza umana, infatti, non si accontenta di individuare il valore della vita - che, anche se consistesse nel rovinare sé stessi, sarebbe ugualmente sempre affermato come valore – ma pretende di giudicarlo, distinguendo nei valori diversi gradi di perfezione. Bontadini, a riguardo, parla di una esigenza di una valutazione della realtà: «la coscienza […] pretende di valutare, in rapporto alla vita stessa, anche l’ordine assoluto in cui la vita rientra ed in cui è segnato il suo destino: pretende di giudicarlo come buono o cattivo, razionale od irrazionale»15.

12

Cfr. G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza, p. 38. 13

Cfr. ibi, p. 17. 14

Cfr. ibi, cap. I, § II, 1. 15

Il problema filosofico, infine, strutturandosi inizialmente come “problema della vita” e concependo la vita come esperienza di ciò che immediatamente si offre alla nostra conoscenza, può quindi essere definito “problema della metafisica dell’esperienza”16. Bontadini, dunque, individua la via che conduce alla metafisica a partire dalla esperienza semplicemente data: quell’esperienza che si offre a tutti non solo come unitaria presentazione dell’essere, ma anche come vita vissuta, la quale, perciò, almeno in un primo momento della speculazione bontadiniana, si configura anch’essa come risorsa con cui poter indagare sulle condizioni di pensabilità dell’Assoluto.

Ci siamo dunque incamminati nella via che conduce alla metafisica, a partire da un

topos bontadiniano: la distinzione tra filosofia e metafisica. Ogni uomo è una filosofia, sostiene Bontadini, perché ogni vita è guidata dalla tensione ad un fine, e questo avviene già a partire dalla presupposizione della razionalità del reale quale condizione del proprio agire: «se per “razionalità del reale” intendiamo il sistema delle condizioni reali della realizzazione del fine della vita», spiega infatti Bontadini, «è manifesto che la determinazione della razionalità - in che cosa essa determinatamente consista – presuppone la posizione del fine, o del valore come fine»17.

Osserviamo quindi che, nel Saggio, Bontadini innesta il discorso metafisico a partire dall’esigenza umana di concepire il reale come razionale, e che da qui egli trae lo stimolo per riuscire a formulare un sapere metafisico tale da soddisfarla. Con questo proposito, egli introduce la distinzione tra due livelli di interpretazione del reale, costituiti dal concetto di razionalità e da quello di intelligibilità: «un ordine assoluto in cui è contenuto il valore della vita, lo chiamiamo un ordine razionale. La razionalità deve essere, per assunto, distinta dalla semplice intelligibilità: poiché, mentre questa importa soltanto che una certa realtà possa essere oggetto di intellezione [...] la prima esige certe determinazioni specifiche della realtà stessa ad esclusione di altre, che pure possono essere parimenti intelligibili»18.

Poiché non può darsi un pensiero determinato che intenzioni qualcosa di contraddittorio, nell’opera bontadiniana l’intelligibilità del reale si configura come non contraddittorietà; l’esistenza delle condizioni dell’intelligibilità-incontraddittorietà di

16

Cfr. ibi, cap. I, § I-IV. 17

Cfr. ibi, p. 26. 18

ciò che si dà, invece, assume il significato di razionalità. Il reale è razionale: è questo il postulato da cui partire per procedere con l’inferenza metempirica.

Occorre postulare la razionalità del reale per poi mostrare, in sede metafisica, la verità di quelle condizioni di incontraddittorietà. Bontadini, infatti, consapevole che una razionalizzazione del reale che si basasse su un discorso metafisico di impianto postulatorio, limiterebbe la sua parola al dominio della doxa e richiederebbe un’accettazione di tipo fideistico, rivolge i suoi sforzi al raggiungimento dell’autentico discorso metafisico: un sapere incontrovertibile che fa leva sulla potenza della dimostrazione, anziché sulla persuasione19. L’impegno del nostro Autore, allora, si muove anche in questa direzione: partendo inizialmente dal postulato della razionalità del reale, è necessario riscattare sul piano del pensiero dimostrativo la sua consistenza incontraddittoria, attraverso un procedere rigoroso che conduce all’episteme.

Bontadini chiama “Postulato della razionalità del reale” quella credenza nella razionalità dell’essere che è connaturata alla vita stessa dell’uomo, che, con il suo agire, mostra di credere, o quanto meno di supporre, la razionalità delle sue azioni; la realtà, cioè, deve avere le caratteristiche di un ordine in grado di conservare, almeno, la vita stessa20.

Visto il rapporto che intercorre tra la vita e la metafisica, il postulato della razionalità del reale non ha solo un’importanza esistenziale, ma ha anche una rilevanza filosofica dal notevole risvolto ontologico: la fede nella conoscibilità dell’essere, essendo assunta in virtù del ruolo dell’uomo nella costituzione stessa dell’essere, pone alla filosofia la sfida di essere riscattata sul piano teoretico. Il compito che l’assunzione postulatoria della razionalità del reale pone alla filosofia consiste, infatti, nel mostrare «la pensabilità dell’essere», cosa che, afferma Bontadini, «si proverà nell’effettivo e concreto pensare»21.

Per Bontadini pensare significa pensare determinatamente, ossia dimostrativamente: «la dimostrazione», sostiene Bontadini, «non è che la imposizione

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«La metafisica è incontrovertibile, è “necessaria”; ma non è necessariamente persuasiva. È il positivo in sé, semplicemente» (cfr. G. Bontadini, Fenomenologia , filosofia, metafisica [1951], in Conversazioni di metafisica, vol. I, p. 66).

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«Il valore della vita richiede, almeno, la conservazione della vita stessa: e così razionale sarà l’ordine della realtà quando almeno non sopprima, non sommerga, non neghi la vita» (cfr. G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell'esperienza, cit., p. 20).

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assolutamente teoretica di un qualsiasi noema. Essa è una esigenza intrinseca alla

determinatezza stessa del pensiero»22. Il pensiero metafisico, perciò, in quanto fondato sulla capacità di escludere il proprio contradditorio, è quel pensiero per eccellenza in grado di ribadire proprio quella accessibilità dell’essere al pensiero che, nella storia della filosofia, era stata riguadagnata dall’idealismo, e che, nella vita vissuta, era stata assunta in modo acritico.

Si tratta allora di riscattare il contenuto del postulato, soddisfacendo quelle che Bontadini chiama «due opposte esigenze del filosofare: l’affermazione più sicura e l’affermazione più interessante»23: la prima esigenza è soddisfatta quando si dà una dimostrazione rigorosa di tutto ciò che si asserisce, mentre la seconda è soddisfatta quando il discorso filosofico pone a tema ciò che più interessa all’uomo, ossia quando si interroga sulla razionalità del reale che dà senso all’agire.

L’antitecità delle due esigenze consiste nel fatto che quanto più si cerca di affermare qualcosa di interessante per l’uomo, tanto più sarà difficile garantire questo discorso sul piano teoretico; la filosofia, però, richiede che siano soddisfatte entrambe e spinge il filosofo a cercare una forma di sapere in grado di adeguarle. Nel caso del pensiero bontadiniano, se la razionalità risponde all’esigenza dell’interesse e il postulare all’esigenza della sicurezza, possiamo affermare che il suddetto postulato soddisfa entrambe le esigenze filosofiche e si costituisce, perciò, come valido punto di avvio per la formulazione del teorema metafisico. Sottolineiamo, però, che non siamo con ciò giunti ad un’acquisizione teoretica soddisfacente, ma siamo di fronte ad uno stimolo per lo sviluppo del procedere più propriamente dimostrativo.

Bontadini ritiene che sia un buon metodo quello di pesare la potenza logica delle affermazioni filosofiche in base all’ampiezza della dimostrazione e al numero di presupposti sui quali poggiano: «il Postulato è un “minimo logico”: ed è buon metodo graduare le affermazioni filosofiche secondo la loro potenza logica, ossia secondo la maggiore o minore ampiezza della loro dimostrazione, secondo il numero o la gravità dei presupposti dai quali dipendono (presupposti che occorre, a loro volta, dimostrare»24. 22 Cfr. ibi, p. 233. 23 Cfr. ibi, p. 33. 24 Cfr. ibi, p. 34.

Bontadini qui non esplicita ulteriormente il senso di questa relazione, ma dall’analisi dei suoi testi possiamo dire che il criterio appena esposto si determina come proporzionalità inversa: quanto più è ampia la dimostrazione di una tesi filosofica e quanto più sono numerosi gli assunti che essa presuppone, tanto meno facilmente quella tesi sarà in grado di affermare un sapere in modo incontrovertibile. Bontadini, perciò, individuando nel discorso metafisico un sapere di tipo epistemico, rivolgerà i suoi sforzi all’elaborazione del teorema metafisico come “discorso breve”: la verità metafisica sarà guadagnata attraverso un percorso che parte dalla immediata constatazione di ciò che si dà nell’esperienza e che conduce direttamente, ossia necessariamente, all’individuazione di una realtà metempirica senza la quale il divenire sarebbe contraddittorio.

Secondo questo criterio il postulato della razionalità del reale si pone al livello di un “minimo logico”: «il Postulato che, per ragione del suo contenuto (la razionalità), indica il termine della filosofia, per ragione della sua forma (il postulare), designa l’inizio della filosofia, o almeno le condizioni logiche negative dell’inizio, che si riassumono nel doversi omettere ogni presupposto indimostrato»25.

La ricerca della via che consenta al pensiero di superare la forma postulatoria porta in luce la concezione bontadiniana del metodo: esso non si configura come una regola, ma va determinandosi di pari passo con lo svolgimento del sapere; esso, cioè, non consiste nell’adeguazione del dato a principi ontologici o gnoseologici che lo precedano, ma affida la sua determinazione all’attuarsi del pensiero che coglie, in prima battuta, la presenza di ciò che immediatamente consta. Il metodo bontadiniano, perciò, si riduce alla via che risale a ciò che si dà in maniera immediata, che condurrà, come vedremo, alla formulazione del concetto di Unità dell’Esperienza.

La rigorizzazione del pensiero metafisico, dunque, passa anche attraverso la ricerca di un valido punto di partenza del sapere, che sarà individuato come tale solo se viene rilevato per l’evidenza del suo darsi immediatamente, senza presupporre nulla a sé.

Nel delineare il principio di metodo della filosofia, emerge allora l’analogia con il percorso cartesiano, a cui Bontadini dedica un denso commento nell’Introduzione

25

all’edizione da lui curata del Discorso sul metodo26. Qui Bontadini riconosce nel “dubbio metodico” cartesiano «l’atteggiamento filosofico come tale», perché il suo intento, sia pure segnato dal presupposto dualistico, è quello di rivedere criticamente il sapere e di fondarlo; la ricerca di un punto di acquisizione immediata del sapere, infatti, qual è quello costituito dal “cogito, ergo sum”, altro non è, per Bontadini, che il tentativo di attuare una «radicale ed universale mediazione del sapere»27.

Oltre a presentare l’opera come “manifesto” del pensiero moderno e a valorizzarne i principi metodologici, Bontadini porta in luce gli aspetti della filosofia cartesiana segnati dal dualismo gnoseologico che caratterizzerà tutto il pensiero moderno fino a Kant. Dunque, se da un lato Bontadini valorizza il metodo cartesiano nella ricerca di un primo punto certo del sapere, dall’altro lato emerge, per contrasto, l’esigenza di un metodo più propriamente libero da ogni presupposto: «in verità il pensiero non ha bisogno di garanzie», ribadisce Bontadini, «esso è già per se stesso la garanzia del proprio valore, la propria misura, la propria fondazione. È una verità, questa, senza della quale non s’entra nel sacrario della filosofia»28.

Nel tracciare la via per un radicale ripensamento del punto di inizio della metafisica, sarà prezioso il contributo fenomenologico di Zamboni29; per suo tramite, infatti, Bontadini sfrutta l’evidenza con cui Cartesio era riuscito a cogliere l’innegabilità dell’esistenza del pensiero che dubita, per affermare, invece, la certezza con cui il pensiero pensa l’essere, a partire dal momento in cui coglie in modo immediato ciò che

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In occasione del tricentenario della pubblicazione del Discorso sul metodo di Descartes, nello stesso anno in cui viene pubblicato il Saggio di una metafisica dell’esperienza, opera che dispone il terreno in cui innestare il teorema metafisico e in cui viene delineato il concetto di UdE, esce l’edizione del volume cartesiano tradotto e curato da Bontadini (cfr. R. Cartesio,

Discorso sul metodo (1938), traduzione, introduzione e note a cura di G. Bontadini, La Scuola, Brescia 1972).

27

Cfr. ibi, § 3. Il “dubbio metodico”, afferma Bontadini, è «dubbio che significa l’intento di

ricostruire tutto il sapere con ordine» (cfr. ibi, p. 11). 28

Cfr. ibi, pp. 12-13. 29

G. Zamboni fu maestro di Bontadini negli anni di frequentazione dell’esordiente Università Cattolica di Milano (1921-1925). Scrive Bontadini a riguardo dell’eredità speculativa lasciatagli dal suo maestro: «diremo che è merito degno di memoria quello di Giuseppe Zamboni: di avere, con linguaggio scoperto modesto ed essenziale, ripulito il punto di partenza (e insieme di avere sempre grazie alla sua onestà di scrittore, lasciato chiaramente percepire quelle che sono le difficoltà da superare nel viaggio» (cfr. G. Bontadini, Gnoseologia e metafisica nel pensiero di

Giuseppe Zamboni [1957], in Conversazioni di metafisica, vol. I, p. 253). Zamboni, infatti, scardinando l’ego cartesiano dal ruolo di primum certum, ebbe il merito di aver tracciato la direzione entro cui individuare il punto di partenza del sapere.

si presenta30. L’importanza del termine “presenza” nella filosofia bontadiniana, deve infatti essere ricondotta all’uso che ne fa Zamboni nella sua filosofia: per definire un punto di partenza “puro” del sapere, egli antepone il concetto di presenza a quello di evidenza31. Non si tratta chiaramente della purezza dell’a-priori kantiano, ma di una purezza derivante da un cominciamento assoluto, completamente libero da presupposti; per questo, onde evitare l’equivoco di un’interpretazione dell’evidenza in senso soggettivistico, Zamboni si fa promotore del concetto di “presenza” e della gnoseologia intesa come “fenomenologia”.

Di poco successiva alla filosofia hegeliana, anche la filosofia di Rosmini, per il tramite di Zamboni, offre a Bontadini un contributo di notevole importanza per la formulazione di un cominciamento “puro” del sapere e di un metodo propriamente filosofico. Prima ancora della riflessione zamboniana, che riconduce l’evidenza del cogito cartesiano alla presenza, la filosofia di Rosmini, infatti, supera l’impostazione tipicamente moderna che assume la centralità del soggetto a fondamento del proprio sapere, per rivolgersi invece all’essere nella forma della sua “pura” intelligibilità iniziale.

Per Rosmini l’impostazione metodica del filosofare non può prescindere dalla considerazione degli elementi che ne sono in qualche modo presupposti: l’oggetto su cui si esercita la ricerca, il soggetto che la compie e i suoi modi conoscitivi32; l’elaborazione del metodo, secondo l’impostazione rosminiana, deve partire dalla consapevolezza del darsi unitario delle tre categorie ontologiche, unificate in quella categoria suprema che è la loro stessa pensabilità. È dunque l’universale predicabilità

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Come sosterrà anche Bontadini, Zamboni attribuisce alla conoscenza immediata la caratteristica dell’oggettività: «nella percezione immediata per presenza e manifestazione, ogni singolo caso porta con sé la sua luce oggettiva, che è appunto la presenza e manifestazione immediata» (cfr. G. Zamboni, Metafisica e gnoseologia: risposta a mons. Francesco Olgiati, La Tipografia Veronese, Verona 1935, p. 95). Nella filosofia di Zamboni, a partire dall’attestazione della presenza, emerge la concezione del processo di acquisizione della conoscenza come manifestazione delle cose stesse; cosa che apporterà un contributo importante alla concezione bontadiniana del metodo come manifestarsi del dato.

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Tuttavia, come rileva P. Pagani, la riconduzione dell’ “evidenza” alla “presenza”, così come è motivata da Zamboni, rischia di ricadere nell’errore di una riduzione della soggettività ad oggettività: un aspetto che Bontadini, invece, esclude con forza grazie all’appropriazione del risultato idealistico del superamento del dualismo gnoseologico (cfr. P. Pagani, Sentieri riaperti.

Riprendendo il cammino della “neoscolastica” milanese, Jaca Book, Milano 1990, pp. 32-33). 32

Queste tre condizioni sono identificate rispettivamente nelle categorie rosminiane della “idealità”, della “realtà” e della “moralità”.

dell’essere, ossia l’intelligibilità di tutto ciò che è, a costituire, per Rosmini, la condizione primaria ad ogni metodo.

Giacché l’essere rosminiano è caratterizzato dalla “presenzialità”, ossia dal possesso della qualità primaria della presenza, ad esso spetta di diritto la funzione di punto di partenza del sapere: «la presenzialità è così propria dell’essere», afferma infatti Rosmini, che «senza l’essere non ce n’è più il concetto»33.

In Rosmini, dunque, troviamo quella imprescindibile immanenza dell’essere al pensiero che caratterizzerà l’“idealismo essenziale” teorizzato da Bontadini, per cui non c’è nulla che possa costituirsi aldilà del pensiero: asserire l’esistenza di un essere impossibile da pensare, infatti, conduce il pensiero ad un assurdo, poiché nel momento in cui il pensiero esclude la relazione tra l’essere e la sua pensabilità, pone con quell’essere una relazione necessaria34.

Anche la proposta bontadiniana di riscattare sul piano dimostrativo l’ipotesi della razionalità del reale richiama la conformazione del metodo rosminiano, rispecchiante il carattere non assoluto del nostro pensiero: la limitatezza della mente umana costringe il pensiero ad una circolarità, che consiste nel tornare a ciò da cui si era partiti per darne giustificazione.

Il darsi immediato dell’essere, infatti, viene colto dalla finitudine del pensiero umano con un’antinomia, derivante dall’incapacità del pensiero di adeguare l’estensione infinita dell’essere: il pensiero, che rileva il darsi di un essere non pienamente