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nologia i turisti hanno radical-mente mutato sia il loro livello di conoscenza delle offerte tu-ristiche, sia le loro aspettative rispetto alle esperienze turisti-che turisti-che intendono vivere. Per questo è necessario un nuovo approccio al turismo italiano, che adegui le offerte alle migliori pratiche internazionali e che sia in linea con le aspet-tative dei turisti, che favorisca l’innovazione dell’offerta e che superi logiche amministrative e territoriali autoreferenziali. Il turismo è sempre più digitale e la strategia turistica dell’I-talia deve pertanto adottare strumenti di analisi, gestione e comunicazione dei flussi turistici all’avanguardia, ridefi-nendo il ruolo degli uffici turistici e dando loro la possibilità di avere in tempo reale dati su prezzi, disponibilità alberghiere e ristoranti aperti, favorendo il processo di trasformazione digitale.
Se l’Italia è il paese più bello del mondo, e lo è, non possiamo permettere che sia gestito male, lasciando
nell’in-curia luoghi e paesaggi che meritano di essere valoriz-zati al massimo. Per questo bisogna vincolare la tassa di soggiorno affinché sia utilizza-ta esclusivamente per investire nella tutela e nella valorizza-zione dei beni culturali e dei servizi turistici. Inoltre, vanno agevolati fiscalmente gli inter-venti privati nella manuten-zione del patrimonio culturale e del paesaggio, innanzitut-to eliminando la legislazione fortemente penalizzante che oggi grava sui monumenti di proprietà privata, che senza gravare sulla collettività con-tribuiscono a comporre il ricco tessuto di beni culturali che rende ineguagliabile il nostro paese. Inoltre, lo sviluppo del turismo richiede infrastrutture, specialmente al sud. Ma non basta qualunque infrastrut-tura: servono quelle giuste. Deve essere rivisto il piano degli aeroporti, per garantire efficienza e ridotta frammen-tazione dell’offerta, attirando passeggeri anche dalle tratte a lungo raggio. Devono essere completate le dorsali dell’alta
velocità, specialmente al sud, e riorganizzati i porti turistici. Devono essere utilizzati in modo efficace, con un ufficio governativo ad hoc, i fondi europei. E, più in generale, la governance delle infrastruttu-re deve esseinfrastruttu-re gestita a livello centrale, secondo priorità esplicite ed espresse nella logica del Paese nella sua interezza. Al turismo italiano, infine, servono imprese più grandi e più forti. Piccolo è bello, ma il turismo italiano soffre di nanismo, mentre per competere nel mercato globale servono competen-ze, integrazione e capacità di investimento. Per questo devono essere adottati crediti d’imposta e sgravi fiscali che favoriscano gli investimen-ti, la crescita dimensionale e l’aggregazione fra imprese, in particolare nella logica del percorso-cliente e dell’inseri-mento delle aziende italiane nei circuiti internazionali.
Il turismo, però, è anche cultura, soprattutto nel nostro Paese. E anche la cultura va liberata
da una politica che negli anni è stata troppo spesso arrogante e dirigista, ma incapace di comprendere i meccanismi e le necessità del settore. Una politica moderna deve invece scendere dal piedistallo, e affidarsi a chi ha le competen-ze tecniche per coinvolgere le vere risorse del Paese, spesso nascoste, sapendo individuare talenti e opportunità. L’Italia deve tornare a produrre cultura, a sperimentare e ad attirare talenti anche dall’e-stero che vedano il nostro Paese come una culla per la creatività. La cultura, al pari del turismo, deve diventare una competenza centrale e una chiara responsabilità del Governo, in diretta delega alla Presidenza del Consiglio. Con la consapevolezza che non è il singolo bene culturale a portare risultati e benefici, ad attirare turisti e visitatori; ma occorre costruire intorno al medesimo un intero territo-rio, con un efficiente sistema di trasporti, una struttura di accoglienza adeguata e la va-lorizzazione delle realtà locali.
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Cultura, però, è prima di tutto produzione. E l’Italia deve tornare ad essere un luogo che produce cultura, oltre che di tradizione e conservazione. La cultura serve a valorizzare le nostre radici, perché custodire è civiltà: bisogna quindi sal-vaguardare la nostra civiltà, base dell’integrazione con le altre culture, per capirle e per farsi capire. Per farlo bisogna partire “dal basso”: uscendo dalla logica austera e autore-ferenziale che aleggia ancora oggi intorno alla cultura, e invece stimolando la creatività e la passione dei tanti artisti e potenziali artisti italiani, non solo nell’arte ma nella musica, nel cinema, nel teatro, nella moda.
Per questo, in primo luogo, occorre trasformare le grandi istituzioni culturali da enti pubblici in fondazioni di diritto privato, escludendo la politica delle nomine e garanten-do la qualità della gestione, al di fuori dei corporativismi e dell’autoreferenzialità cui
siamo abituati. Occorre varare politiche fiscali chiare, indiriz-zate non a singoli settori, ma a tutte le forme di produzio-ne artistica. Occorre attuare il decentramento: i luoghi della cultura non devono più essere solo quelli istituzionali. Questo comporta la promozione di nuovi luoghi della cultura, perché proprio nelle aree periferiche insiste una forte pressione migratoria di forte identità culturale e religiosa che rischia di impattare su un terreno socialmente e cul-turalmente fragile. Occorre ripensare i modelli di recluta-mento in cultura e formazione, considerato che oggi la forma-zione dei manager culturali e il reclutamento all’interno del settore pubblico rispondono sovente a logiche ministeriali e non sempre a logiche di qualità della gestione e dell’offer-ta. E questo accade perché gli enti funzionano secondo il diritto amministrativo, mentre dovrebbero adottare istituti e procedure di diritto civile, anche sul piano finanziario: i musei devono lavorare anche
per competenza e devono redigere bilanci comprensibili. E poi: devono essere riunite tutela e valorizzazione del patrimonio culturale in capo allo stesso soggetto, per ve-locizzare tutte le procedure che lo riguardano, oggi spesso bloccate dall’esistenza di ricorsi per chiarire questioni di competenza. Devono essere semplificate e promosse le sponsorizzazioni, sia tecniche che finanziarie, legate ai beni e alle attività culturali, im-pegnandosi a costituire un efficace sistema di sgravi fiscali che renda appetibile l’investimento per le imprese e per i singoli cittadini. Devono essere affidate competen-ze e responsabilità ai singoli gestori dei musei per quanto concerne il personale e l’orga-nizzazione, superando i limiti molto stretti posti dall’attua-le ordinamento. Deve essere rivista la normativa delle con-cessioni, implementando-ne sia la durata (che deve essere di almeno trent’anni) che l’applicazione ad aspetti
centrali della gestione e valo-rizzazione del mondo dell’arte, in modo da attrarre investi-menti privati e competenze in termini di know-how ma-nageriale e imprenditoria-le. Deve essere riordinata la fiscalità nel settore dell’arte e della cultura, adottando un diritto di seguito sul modello inglese, l’applicazione dell’Iva sulle compravendite di oggetti d’arte a livello europeo, ed eli-minando tutte le storture legi-slative e tecniche che relegano ancora oggi il mecenatismo alla funzione di mero bancomat dello Stato.
Bisogna lasciarsi da parte, e al più presto, l’idea ipocrita che la cultura non abbia nulla a che fare con i suoi destinatari. È invece chi ne usufruisce, cioè il consumatore, con i suoi bisogni e i suoi desideri, che deve essere riportato al centro dell’attenzione, progettando un’offerta il più possibile vicina a questi bisogni e desideri. I beni culturali possono e devono essere intesi come mezzi di profitto e presentare quindi
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una redditività. Occorre fare della produzione di cultura una generazione di valore, reddito e impiego, secondo logiche di mercato. Con la consape-volezza che ciò non significa uccidere la cultura, ma proprio il contrario: significa darle il giusto riconoscimento.