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Un percorso tra le opere 2.1 – Il laboratorio poetico del “pre-Manganelli”

Nel 2006 la pubblicazione della raccolta Poesie – fino a quel momento inedite 1 – ha rivelato un aspetto ancora sconosciuto dell'opera di Manganelli, ovvero le sperimentazioni poetiche precedenti al suo esordio letterario, nelle quali egli per la prima volta ha messo alla prova le potenzialità della parola nell'incontro/scontro tra retorica e biografia. Attraverso le prime prove poetiche, scritte tra gli anni '50 e i primi anni '60 e poi accantonate per dedicarsi interamente alla prosa (decisione sulla quale ha inciso fortemente anche l'ingombrante figura materna 2), Manganelli dà avvio alla sua indagine sul linguaggio, volta alla creazione di un sistema retorico con cui orchestrare la materia informe del senso che si espande oltre la parola, in quel complesso rapporto tra significato e significante che determina la condizione di permanente ambiguità della letteratura. I testi poetici si configurano, perciò, come incipitari esempi delle «angosce di stile» che assediano lo scrittore, ancora alla ricerca di una forma che gli dia modo di mascherare i propri turbamenti sotto il «velo» 3 della retorica, all'inseguimento di uno stile freddo ma in continuo fermento, come una sorta di lava solidificata: gelida roccia all’esterno e incandescente magma all’interno. Nell'introduzione alla raccolta il curatore Daniele Piccini sottolinea come già nei componimenti poetici Manganelli «si fabbrichi una retorica dominata […] dal gusto della sovversione, della callida iunctura: callidissima direi, fino al limite di risolvere in esercizio di stile l’assillo e la scoperta» 4.

1

G. Manganelli, Poesie, a cura di D. Piccini, Crocetti, Milano 2006. Una piccola parte dei testi era già stata pubblicata sulla rivista «Poesia», accompagnata da una nota della figlia Lietta: «Le poesie di mio padre restarono chiuse in una valigia, che lui ogni tanto riapriva per rileggerle, apportare qualche correzione, e soprattutto approntare indici per libri di versi – indici sempre simili ma leggermente differenti fra loro, che dovremmo studiare attentamente. Il libro però non vide mai la luce», Lietta Manganelli, Le poesie giovanili di Giorgio Manganelli, in «Poesia», XII, n. 130 (luglio-agosto 1999), p. 9.

2

Dichiara Lietta a proposito della madre di Manganelli, Amelia Censi: «Certamente l’amore materno per la poesia ha condizionato la giovinezza di mio padre – come denotano del resto già le prime sue poesie, quelle di stampo ellenico. In seguito fu condizionato anche dall’interesse di mia nonna – un interesse che rasentava l’ossessione – per la religione. Ebbero entrambi, sempre – madre e figlio –, una religiosità dolorosa e struggente», in Ivi, pp. 8-9.

3

A. Cortellessa, Il giroscopio dell’anima, in «Riga», p. 100. 4

D. Piccini, introduzione a G. Manganelli, Poesie, cit., p. 9; meritoria l'opera del curatore, nonostante una grave svista in relazione al componimento Ode pour l'élection de son sépulchre, segnalato come esempio di ars poetica dell'autore («testo altamente programmatico e metaletterario»), mentre si tratta

Si può parlare di poesia come “sercizio di stile”? Come palestra di retorica? Indubbiamente questi materiali esprimono la necessità di una ampia e ancora disordinata sperimentazione delle più diverse prassi poetiche, ricerca che risente in maniera determinante della viva materia biografica dell'autore, delle sue irrisolte contraddizioni personali. L’angoscia esistenziale di Manganelli domina, infatti, la scena imponendosi quale spinta fondamentale della sua scrittura: il caos biografico e quello letterario sono inscindibili, la vita e l’opera coincidono in una drammatica condizione di interne contraddizioni:

il motore del fare letteratura è per Manganelli una compensazione fantasmatica del gravame dell’esistenza, del peso del corpo; è creare uno spazio in cui la salvezza coincide con la sparizione; ma il pre-Manganelli non ha ancora tirato il sipario, e attraverso questa apertura sarebbe possibile vederlo, proprio lui. 5

La maschera, dietro la quale in seguito celerà la sua biografia, non coincide ancora totalmente con il suo volto, perciò essa lascia trasparire ancora la turbata e indifesa espressione di Manganelli, prima che la “letteratura come menzogna” ne deformi definitivamente i tratti. Nel laboratorio del cosiddetto «pre-Manganelli» le angosce espressive corrispondono a quelle esistenziali, in un connubio devastante che lacera l'animo dello scrittore e impedisce di trovare uno sfogo attraverso i travestimenti letterari.

I materiali poetici pongono un problema di notevole portata, sia dal punto di vista dell'interpretazione critica sia per quanto riguarda la loro collocazione all’interno dell’intera sua produzione, poiché essi stridono notevolmente con la maturità retorica del suo libro d'esordio, Hilarotragoedia. La ragione del discrimine tra poesia e prosa è dovuta alla marcata presenza della soggettività nei testi poetici, nei quali lo scrittore sembra non riuscire a evadere da se stesso. A questo proposito Piccini e Francucci concordano nell’individuare una certa discontinuità tra l’Io evidente del Manganelli poeta e l’Io dissimulato del prosatore, e così la differenza che si può cogliere tra i versi

di una traduzione da Hugh Selwyn Mauberley (1920) di Ezra Pound, tradotta anche da Montale nel '48. Nelle note al testo, Piccini sottolinea tutte le citazioni presenti, dal titolo tratto da Ronsard agli inserti in greco classico ripresi dall’Odissea e da Pindaro, senza mai menzionare Pound.

5

F. Francucci, Splanamento dell’angosciastico? Appunto sull’archeologia manganelliana in G. Manganelli, Poesie, cit., p. 347; sulla scrittura come compensazione ha scritto Stefano Ferrari: «la concettualizzazione e la verbalizzazione, rispetto all’urlo inarticolato, rappresentano una prima forma di elaborazione psichica, e quindi di attenuazione e controllo della tensione originaria», in Id.,

degli anni ’50 e l’opera d’esordio del '64 risiederebbe «soprattutto nell’ospitalità che le poesie garantiscono ancora ad un io parecchio ingombrante» 6. I versi si coagulano quindi attorno a quell'«io parecchio ingombrante» che occupa l'intero spazio psichico e letterario, facendo sì che i testi ruotino «attorno alla sanguinosa verità dell’esperienza individuale, a un perno esistenziale, a un’angoscia propriamente sentita che l’autore non elude affatto o mette tra parentesi, esibendola anzi, a partire dal pronome di prima persona» 7. L’abbandono della poesia coinciderebbe, perciò, con la necessità di occultare l’eccessivo protagonismo dell’Io sotto una pseudo-oggettività che gli viene fornita dal magma verbale della prosa barocca e l’impersonalità del genere trattatistico. Si determina così un processo di vera e propria «riduzione dell’io» 8, che nella poesia si trova ancora in una fase di estrema soggettività, di pervasivo dominio del soggetto, mentre nella prosa raggiungerà il massimo grado di occultamento sotto il linguaggio abbagliante e polimorfo della retorica barocca:

Scrivi, scrivi:

se soffri, adopera il tuo dolore: prendilo in mano, toccalo, maneggialo come un mattone, un martello, un chiodo, una croda, una lama; un utensile, insomma. 9

Secondo la condivisibile prospettiva d’analisi proposta da Francucci e Piccini bisogna porre maggiore attenzione sulla discontinuità, al fine di placare facili entusiasmi riguardo a un “Ur-Manganelli” 10 o “Proto-Manga” 11 inteso come miracoloso embrione dello scrittore futuro, cosicché sia possibile proteggere e ridimensionare la produzione poetica in quanto palese anticipazione tematica e formale della produzione successiva. Si tratta di una legittima preoccupazione, ma risulta opportuno non dividere nettamente la produzione dell’autore in due blocchi contrapposti, ed è quindi preferibile sottolineare le differenze nella continuità: la presenza dell’Io e del dato biografico in Manganelli, poeta e prosatore, sono la costante ineliminabile sulla quale egli costruisce

6

Ibid. 7

D. Piccini, introduzione a Po, p. 10. 8

A. Giuliani, introduzione a I novissimi, Einaudi, Torino 1961 (n.e. 1965), p. 22. 9

Po, p. 184. 10

F. Francucci, postfazione a Po, p. 344. 11

tutto il suo extravagante impianto retorico, e non una peculiarità esclusiva della produzione poetica. Sembra necessario, quindi, non forzare la definizione della scrittura poetica come fase della soggettività, «serbatoio di sanguinosa verità personale» 12, in opposizione alla scrittura in prosa come fase dell’oggettività, puntando piuttosto sulla continuità che lega le due produzioni, a partire dalla costante e mai risolta diatriba tra Io biografico e Io letterario. Tale contrapposizione si rivela fondamentale in Manganelli, ed è da considerarsi causa scatenante delle angosce di uomo e di scrittore. In questo senso risulta assai calzante la massima di Gregorio di Nazianzo, «L’Uno è in guerra civile con se stesso», a partire dalla quale Giorgio Agamben, nella prefazione alla tesi di laurea di Manganelli, costruisce una precisa definizione del rapporto tra io e scrittura: «l’ingresso nel linguaggio (nella scrittura) non è infatti un gesto neutrale, ma introduce nel soggetto un principio di divisione infinita» 13.

Leggendo le poesie – come ammette Francucci 14 – ci troviamo di fronte al Manganelli che conosciamo, ma allo stesso tempo rimaniamo spiazzati: si tratta di un Manganelli diverso, sperimentatore di molteplici soluzioni stilistiche, uno scrittore in fieri ma già rigoroso e padrone dei mezzi retorici. Il lessico presenta già elementi topici della scrittura successiva: come gli aggettivi «perplesso», «furibondo», «astratto», «esatto» che subiscono diverse variazioni semantiche a seconda del contesto; l’uso sperimentale di parasintetici come «incosmicarsi», che poi diverranno basilari nella sua prosa; l’uso ossessivo dell’ossimoro che trova qui le sue prime coagulazioni sintagmatiche, le quali compariranno quasi identiche nei testi futuri, come «dolcemente disperato», «permanenza provvisoria», «amabile demenza» o «ragionevole niente» 15. Inoltre si può rilevare la presenza già abbondante di aggettivi con la terminazione in “- oso” come «unghioso» e «pensoso»; gli iperbolici e sarcastici superlativi «divinissimo», «immoralissima», «deplorevolissima», «certissimo»; giochi di parole come l’incipitario «Abbiamo tutta una vita / da NON vivere insieme»; strutture sintattiche costruite attorno a periodi ipotetici, “ma” avversativi e domande retoriche che fingono strutture argomentative puntuali e logicamente costruite.

Nelle poesie più mature, che risalgono ai primi anni '60, il flusso della scrittura

12

D. Piccini, introduzione a Po, p. 19. 13

G. Agamben, introduzione a G. Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del

‘600 italiano, a cura di P. Napoli, Quodlibet, Macerata 1999, p. 17.

14

Il critico dichiara: «a leggere le poesie, non possiamo non provare la sensazione di esserci già stati, in mezzo a questi versi, e di riconoscere le inconfondibili fattezze, le movenze manganelliane», in F. Francucci, postfazione a Po, p. 344.

15

poetica assume un ritmo sempre più asfissiante, un’accumulazione nominale sempre più fitta: le parole infatti si giustappongono sulla pagina come «allucinazioni», senza lasciare respiro e saturando lo spazio a disposizione. In questi testi Manganelli pare sperimenta il potere «discenditivo» della parola, la potenzialità esplosiva dell’inconscio, che si manifesta attraverso la struttura a “gorgo” dei componimenti. Si vedano alcuni brani di Pezzo isterico n. 2, che sembrano descrivere la parabola «discenditiva» degli «adediretti» in Hilarotragoedia:

Giù, eccoti i cerchi concentrici esatti le tangenti dei gorghi: […]

entro i primi giri del gorgo,

quando sei ancora entro il giro della riva […]

penso che l’essere supremo potrebbe ancora in questi

gorghi iniziare una sottile

disquisizione astratta […]

Quale genere di dannazione ha escogitato

il dio che ama salvare nei giri pari e iniziali del gorgo verticale? […]

prosegue osservando che il gorgo successivo è veramente. […]

al gorgo ora si incontra qualche pesce frettoloso una aragosta maledetta con una faccia letteraria 16

Il componimento si regge sia tematicamente che formalmente sui giri del gorgo entro cui discendono le parole verso un’entità suprema che «non conosce linee così rette» 17.

16

Po, pp. 139-142. 17

La struttura a “gorgo” per organizzare i materiali che la compongono si affida al proprio vorticare, in tal modo essa resiste finché i versi continuano a ruotare: l'organizzazione compositiva del testo si mantiene sino alla fine grazie al ritmo dei legami sintattici e semantici, che si ripetono di gorgo in gorgo variando il senso complessivo. Come ha notato Piccini, non si tratta ancora della lingua «raggelata e barocca, libresca, eruditissima e fluorescente» di Hilarotragoedia, ma di certo Manganelli muove i primi passi in quella direzione proprio nei testi poetici degli anni '60, «dove piuttosto a far presentire lo sboccio di un nuovo incrocio di generi, di una nuova e formidabile (etimologicamente retorica è semmai il flusso, il getto, il ritmo verbale, in pezzi di frenetica o (per usare una definizione d'autore) sterica pullulazione, che qui non rientrano ancora in una calibratura organica» 18. In effetti l’alternanza caotica di versi di varia misura, sommata a una ridondanza fonetica generata dalla ripetizione anaforica di termini chiave, conferisce alla struttura a “gorgo” una tensione che crea unità nel testo e che tende già alle strutture ritmiche della prosa barocca:

ma ora tutti i vertici della pazzia sono ben ripuliti verniciati di fresco stanno ora nel buio ma che luce che luce che luce che luce attendono da TE Tu la possiedi così esatta punto matematico

(che nome esatto puntuale) e se non hai budella

avrai questa assenza verticale (esattamente esattamente) 19

L'iterazione ossessiva dell'elemento luminoso in contrasto con il buio dominante evidenzia la ricerca incessante di una “esattezza” biografica e letteraria (segnalata dai due aggettivi e dal doppio avverbio ravvicinato), che non può essere conquistata fino in fondo e perciò si configura come «assenza verticale», «punto matematico» che non solo tiene insieme «tutti i vertici della pazzia», ma determina anche la cancellazione totale del dato corporeo («se non hai budella / avrai questa assenza verticale»). Si coglie qui una predilezione per il chiaroscuro barocco, che determina continue oscillazioni tra

18

D. Piccini, introduzione a Po, p. 15. 19

zone luminose e zone d'ombra, producendo una continua mobile incertezza metafisica. Attraverso il recupero di elementi tipici della poesia barocca, Manganelli pone le basi per la costruzione di una teologia negativa, in cui al centro si trova la paradossale «assenza verticale» del divino, la quale determina una totale dispersione dell'Io colto nel tentativo di aggrapparsi alle infinite potenziali raffigurazioni del vuoto centrale. Così la scrittura diventa solidificazione delle immagini che affollano la psiche dello scrittore, il quale incide direttamente con l’unghia il proprio dolore, il proprio sangue, fino a svuotarsi completamente, scrivendo il proprio niente:

ecco il mio amore è già disintegrato più niente più niente più niente un’unghia io dono a questo cielo l’unghia della mia

continuità – niente, niente, niente,

un’unghia, un’unghia, eccotela, amala, sono io, io, io,

il niente.20

Manganelli sente la necessità di svuotare completamente la propria psiche, fare tabula rasa della biografia, per poter mettere in atto tutti i travestimenti possibili, svincolati dalla centralità del soggetto, perciò «la polverizzazione dell’io-autore» 21 dà spazio al «coro di voci inaudite o inaudibili» 22 che convivono dentro il medesimo Io. Solo se l’Io cessa di essere monolitico e mette in discussione la sua unicità, allora la pluralità di elementi che lo compongono può manifestarsi: infatti, secondo la definizione elaborata da Jung, l’Io si presenta come «un’immagine di moltissimi processi e del loro gioco reciproco, cioè di tutti quei processi e contenuti che compongono la coscienza» 23. Recensendo nel 1987 il libro dello psichiatra Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Manganelli afferma:

Che cosa è? Non è l’io; forse è l’anima, ma […] ciascuno di noi non è un “io”, è un “noi”; ma uno di questi “noi” appunto, è l’irriducibile. 24

20

Po, p. 207. 21

S. Pegoraro, Il “fool” degli inferi. Spazio e immagine in Giorgio Manganelli, Bulzoni, Roma 2000, p. 77.

22

G. Manganelli, Sconclusione, Rizzoli, Milano 1976, p. 80. 23

C. G. Jung, Spirito e vita (1926) in Id., Opere, VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1983; qui si cita da M. Paolone, Il cavaliere immaginale, cit., p. 65.

24

G. Manganelli, Il vescovo e il ciarlatano, cit., p. 86; cnfr O. Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie

Quindi il pronome “io” rappresenta solo una «personalità parziale», mentre nel nostro inconscio risiede «l’uomo collettivo», quell'irriducibile “noi” che tiene unite le diverse individualità attraverso la pluralità. La scrittura non si configura come un atto solitario del singolo Io, ma come un atto collettivo a cui partecipa una folla degli innumerevoli Io, secondo una prospettiva che – come ricorda lo stesso Manganelli in Letteratura come menzogna – già Yeats aveva brillantemente esposto: «Io sono una folla, sono un uomo solitario, sono nulla» 25. Al poeta irlandese Manganelli riconosceva anche un'altra prerogativa assai rilevante nella prospettiva di una scrittura che si configuri necessariamente come teologica, andando a colmare l'assenza degli dei e della propria soggettività. Infatti Manganelli afferma in uno degli numerosi articoli dedicati a Yeats:

Per un poeta, la dimensione teologica, l'organizzazione fittizia di un mondo di figure, ha la funzione di introdurre un elemento costante, una sorta di definizione geometrica, una insistenza logica; in definitiva, il poeta teologo è al riparo dal sentimento, e non teme di toccare qualsivoglia livello della fantasia, del linguaggio. La teologia non è una struttura realistica, né perfettibile: è un sistema linguisticamente coerente, esigente, qualcosa che il poeta può insieme vivere e patire, una forma assoluta cui non potrà né vorrà sottrarsi. 26

L'ambizione teologica è ciò che muove la scrittura manganelliana, verso la costante ricerca di una impostazione retorica che sia «organizzazione fittizia di un mondo di figure», attraverso la quale egli possa dissimulare le proprie angosce esistenziali e stilistiche. Ma prima di giungere a una compiuta maturazione del discorso teologico negativo, genere che caratterizza la seconda parte della sua produzione dagli anni Settanta in poi, Manganelli ha bisogno di sperimentare la parola poetica teologica – sulla scia degli amati testi di Donne e Yeats – per riuscire a organizzare «un sistema linguisticamente coerente», mettendosi «al riparo dal sentimento», dalla «insana avventura dell'esistere» 27.

Gli esiti del laboratorio poetico di Manganelli sono la riprova che in quegli anni egli sta per compiere la sofferta metamorfosi da scrittore in potenza a scrittore in atto, e

25

Citato in G. Manganelli, Il mago astuto, in Id., LCM, p. 75; si veda anche W. B. Yeats, Mythologies, Macmillan, London 1923.

26

G. Manganelli, Come parla Yeats il poeta teologo, “Corriere della sera, 11 settembre 1984; ora in Id.,

Incorporei Felini, II Recensioni e conversazioni radiofoniche su poeti in lingua inglese (1959-1987) ,

a cura V. Papetti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 39. 27

che di tale metamorfosi possiede lucida consapevolezza; come si evince da quanto egli stesso scrive nei Quaderni di appunti, in data 5/2/1955: «La penna “resiste” di più alla mano che scrive: la mano è già materia, è fuori di noi» 28. Il conflittuale rapporto con l'attività stessa della scrittura segna tutta la raccolta e si scontra con la necessità di scrivere e dare forma al nucleo della propria insanabile sofferenza. Esempio emblematico di questo doloroso processo, lungo il quale Manganelli si confronta contemporaneamente sia con la sofferenza psichica sia con l’ossessione per la scrittura, risulta essere in particolare un testo datato 23/1/1961, che si chiude con questi versi:

Usa il tuo inferno totale:

scalda i moncherini del tuo nulla; gela i tuoi ardori genitali; con l’unghia scrivi il tuo nulla: a capo. 29

Manganelli dovrà attendere ancora qualche anno prima di riuscire a scrivere davvero il «suo nulla» inciso con l’unghia, il nucleo del suo «inferno totale», poiché solo a partire dal 1964, data di pubblicazione di Hilarotragoedia, egli sarà in grado di affrontare attraverso il simulato rigore del genere trattatello le mutevoli conformazioni dello spazio infero e il destino “tanatocentrico” dell'uomo. Secondo l'acuta osservazione di Pietro Citati, Manganelli riesce a superare definitivamente il suo blocco grazie alla psicoanalisi e alle lunghe sedute con il professore Ernst Bernhard, cominciate nel ’57:

Sull’orlo della disperazione, senza speranza di vivere né di morire, aveva conosciuto Ernst Bernhard, il quale l’aveva aiutato ad attraversare le ombre dell’inconscio. Per qualche anno, aveva vissuto con loro, discorrendo soltanto di loro e con loro. Tutte le forme della sua mente erano state suscitate dal sonno in cui giacevano abbandonate e oppresse: l’analisi aveva risvegliato, in lui, lo scrittore nascosto; la letteratura l’aveva salvato dalla disperazione. 30

28

G. Manganelli, Appunti critici, a cura di A. Cortellessa, in «Riga», p. 87; come ha sottolineato Cortellessa: «Si gioca qui la partita decisiva: prima che per lo scrittore in potenza, per l'uomo in atto», in Id., Libri segreti, Le lettere, Firenze 2008, p. 193.

29

Po, p. 185. 30

P. Citati, Giorgio, malinconico tapiro, in «Riga», pp. 256-57; aggiunge Citati: «Sapeva benissimo che, dal sottosuolo, provengono i maggiori pericoli per chi scrive. Era troppo intelligente per perdere il proprio controllo. Così, in parte senza volerlo, compì una doppia trasposizione. In primo luogo, trasportò le figure dell'inconscio nella parte intellettuale della mente; così che tutti i brividi, le

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