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La struttura del trattato

Lontano dall’essere un semplice commentario di matrice neoplato-nica alla Poetica di Aristotele, il De Perfecta Pœsi di Sarbiewski si of-fre quale organico trattato sulla poesia, ovvero quale efficace mecca-nismo argomentativo atto a dimostrare una tesi affascinante: quella che fa dell’epica la forma massima di conoscenza per l’uomo cristiano, cioè la contemplazione divina.

È a tal fine che il gesuita chiama in causa diverse categorie appar-tenenti ad altrettante tradizioni filosofiche e le contamina in modo as-solutamente coerente: tra di esse, la tesi degli universali aristotelici; le idee eterne platoniche; la teoria ficiniana della conoscenza; e infine la tesi mutuata da Ignazio di Loyola, secondo cui è possibile “vedere” Cristo con gli occhi della mente. Una tesi, quest’ultima, che affida al-l’immaginazione la declinazione delle imagines sensibili e l’attivazione del processo che muove l’anima ad allontanarsi dal corpo per in tal modo elevarsi. Alla poesia spetta dunque di svolgere tale insostituibile ruolo anagogico, compito cui nessun’altra arte liberale potrebbe mai assolvere.

Le varie parti del trattato si organizzano in un sapiente meccani-smo argomentativo: quasi il De perfecta pœsi fosse, nella sua stessa struttura armoniosa, un esempio di quell’“organismo vivente” al quale, sulla scia del pensiero neoplatonico fiorentino, costantemente Sar-biewski si richiama per spiegare la sua idea di poema eroico. È poi ri-facendosi alla tradizione di Giulio Cesare Scaligero e Girolamo Vida che il gesuita polacco si serve di alcune importanti categorie tratte dal-la retorica (inventio, dispositio da una parte, docere, delectare, movere dall’altra), grazie alle quali la materia si articola armonicamente.

Come già si accennava, il De perfecta pœsi è diviso in nove parti o libri, nei quali una stessa idea iniziale viene vieppiù ripresa e amplia-ta. Nella prima parte è affrontata la centrale questione relativa alla natura quasi “creativa” dell’atto poetico assimilabile a quello divino, questione che viene ancòra ribadita e approfondita nel secondo libro, dedicato all’articolata e innovativa teoria sarbiewskiana dell’inventio e

quindi della dispositio del poema epico cristiano. Il tema irrazionalisti-co del furor divino che ispira la mente del poeta, si irrazionalisti-coniuga qui al te-ma razionalistico di una sapiente costruzione del poete-ma secondo rigi-de regole compositive: il termine poiesis vi viene dunque inteso sia come teoria della poesia, sia come ars pœtandi. La terza e la quarta parte sono dedicate alla principale delle quattro virtù poetiche, che è l’universalità dell’azione, nonché al modo in cui essa emani influenzan-do ogni aspetto della narrazione. Unità, grandezza e integrità, le rima-nenti virtù del poema epico, sono invece oggetto di indagine di tutto il quinto libro. Ispirandosi probabilmente alla dottrina dell’Orator ci-ceroniano, Sarbiewski riserva ai libri VI-VIII la trattazione dei tre prin-cipali fini della poesia (docere, delectare e movere) e delle strategie per perseguire tali fini. Nell’ultima parte del trattato, infine, nel solco della tradizione aristotelica, la fabula epica viene messa a confronto con la

fabula tragica: entrambi i generi sono infatti accomunati dal fatto di

incentrarsi su di un’unica azione eroica.

In questo capitolo si cercherà di restituire le principali coordinate del pensiero espresso da Sarbiewski nel De perfecta pœsi, accostando un commento puntuale della materia trattata a brani tratti dal testo in lingua originale: il lavoro offrirà altresì, in nota, alcuni spunti tratti da altre letture appartenenti alla tradizione coeva o antecedente quella in cui il gesuita operò, i quali avranno lo scopo di essere un utile e si spera adeguato corollario alla tesi sarbiewskiana.

La vera natura dell’atto poetico

Il De perfecta pœsi, come si è già detto, prende le mosse dalla que-stione attorno alla quale ruota tutto l’impianto argomentativo del trat-tato: la poesia intesa come una specie di seconda “creazione”.

Già in seno al tradizionale confronto aristotelico 1 tra la poesia e la storia – paragone esteso qui anche all’eloquenza – alla poesia spetta il ruolo di ars nobilissima: all’oratore e allo storico infatti non è attri-buita alcuna libertà inventiva, sia perché la loro materia si esaurisce al di qua dei limiti del possibile e del particolare, sia perché non hanno potere di far essere ciò che prima non era 2. Il poeta invece, rispon-dendo a una vocazione essenzialmente filosofica, diviene maestro nel-l’imitazione universale: non solo è capace di rappresentare le cose co-me potrebbero o dovrebbero essere e non coco-me esse sono, ma proprio per questo, quasi per quadam creationem, dà anche un nuovo fonda-mento alla materia del poema.

Alio modo pœta res, quas imitatur, tractat, non enim imitatur, ut sunt, sed ut esse potuerunt vel esse debuerunt, ita ut iis aliam quadam attribuat exsistentiam

Esempio inarrivabile è in tal senso il poema virgiliano, dove la rap-presentazione di Enea si allontana dalla realtà storica del personaggio, per approdare invece all’assoluta perfezione dell’idea universale d’Eroe, la quale è “in qualche modo” il frutto di una seconda creazione.

Non enim imitatur Æneam, prout fuit, sed iuxta hoc, prout debuit esse aut potuit iuxta regulam veri perfectique herois. Itaque creat quodammodo secunda vice Æneam 4.

Grazie a questa facoltà, che gli è propria, di rifondare le specie delle cose, il poeta imprime una nuova specie alla materia e in un cer-to qual modo la “crea”, per dare quindi forma alla sua fabula. Un’ope-razione, questa, che nessuno scultore sarà mai capace di compiere, creandosi da sé il marmo su cui scolpire e dando così nuovo fonda-mento alla sua materia 5. Perché lo scultore non dispone dell’unico strumento cui il gesuita riconosce la capacità di rinnovare ontologica-mente le cose: il linguaggio verbale.

Neque enim statuarius lignum aut lapidem, neque faber quispiam ferrum vel æs, neque sutor corium, neque aliæ artes atque artifices id condere possunt, circa quod versantur vel quibus naturam ipsam imitantur. Solus pœta id suo quodammodo

con-dit circa quod versatur. Dicendo enim imitatur et dicendo creat, ut res apprehensa a

pœmatis lectore et cognita, prout est obiectum ipsius cognitionis, sit terminus et pro-prius effectus pœticæ molitionis, prout res illa cognoscitur a legente iuxta eum mo-dum, iuxta quem vel secunda vice exsistit, vel iuxta eum potius, quo exsisteret si exsisteret omni modo, quo exsistere posset, et interim per dictum pœtæ exsistit 6.

Alla parola è dato di compiere tale miracolo: di imitare e al con-tempo “creare” affinché, attraverso la lente del discorso poetico, allo sguardo interiore del lettore si apra lo specchio del mondo rappresen-tato secondo universale, dove gli eventi vengono conosciuti come sa-rebbero dovuti o dovsa-rebbero accadere, in una forma cioè assoluta-mente perfetta.

Questa duplice vocazione dell’atto poetico, in senso sia mimetico sia “creativo”, è confermata dalla straordinaria complessità della tradi-zione semantica connessa al termine poiesis. Poiché già nell’antichità risultò arduo reperire un unico termine che fosse sintetico, si imposero infine le due principali definizioni del verbo poiein, complementari nella loro diversità: quella di “fare” (far essere ciò che prima non era) e quella di “imitare” (rifare, riprodurre l’immagine di qualcosa) 7, de-finizioni che spiegano la superiorità della poesia sulle altre arti, le quali ultime restano ancorate alla mera sfera dell’imitazione. È infatti in vir-tù dell’uso della parola che il poeta diviene capace di “fare” esistere nuovamente le cose che imita, essendo “in qualche modo” simile a Dio.

Solus pœta est, qui suo quodam modo instar Dei dicendo seu narrando quidpiam tamquam exsistens facit illud idem penitus, quantum est ex se, ex toto exsistere et

quasi de novo creari 8.

La parola poetica rappresenta senza mentire cose che non esistono come se esistessero davvero, e infonde loro un’esistenza che, pur es-sendo finta, non è mai mendace, poiché è ammantata di una veste uni-versale: ogni imitazione poetica viene dunque tratta da uno stato di pura potenzialità e, una volta rifondatane la specie, resa una individua-lità esistente 9.

È vero che l’eroe del poema epico deve essere rappresentato non in base a ciò che fa o dice, ma in base a ciò che sarebbe conveniente fa-cesse o difa-cesse: tuttavia le sue azioni e i suoi detti, affinché la loro uni-versalità trovi rappresentazione, necessitano di essere calati nel parti-colare di un personaggio, che in quanto parla e agisce secondo le regole della convenienza assoluta, diviene l’incarnazione stessa dell’universale. Rispetto all’oratoria, impegnata anch’essa nell’uso di materiali universali, da cui sono desunte ipotesi e tesi che di per sé non possono avere va-lore di verità, la poesia ha al contrario vava-lore di verità, poiché suo fine è quello di rappresentare e non di dimostrare: essa è dunque una disci-plina filosofica, da considerarsi addirittura la forma migliore possibile di filosofia, perché fa conoscere mediante rappresentazioni vere.

Quid enim aliud est versari pœsin circa universale nisi ex statu universalium extrahere rem in statu individui exsistentis, seu potius, ut se ipse explicat Aristote-les, spectare in aliquo, non quid dixerit vel fecerit, sed quid conveniat illi dicere vel facere, vel quid potuerit dicere vel facere (hoc enim et philosophus, et orator æque tractare potest, et in thesi sæpe debet), sed statim hoc idem particulari alicui per-sonæ applicare et narrare simpliciter hoc eam dixisse vel fecisse, quod tantum potuit vel debuit dicere et facere 10.

La tradizione giudaico cristiana riconosce alla Parola la facoltà di dare fondamento alle cose: un esempio ne è il passo della Bibbia in cui Dio nomina le cose prima di crearle, cioè pone le specie delle cose, definendone i predicati universali e le idee generali, per poi dedicar-si alla formazione delle realtà materiali particolari. Come anche ricorda San Paolo, il Logos divino che genera il mondo si esprime concettual-mente e verbalconcettual-mente prima ancora di farsi atto formatore della mate-ria, esplicandosi in un’attività duale:

In hoc quoque similis Deo pœta, qui cum res creat, ut d. Paulus docet: “vocat ea, quæ non sunt, tamquam ea, quæ sunt” (Rom. 4, 17), creando nimirum ea, quæ non erant. Nam ut Peripatetici docent, et Platonici asserebant, Deus ixta essentias, seu

universalia rerum prædicata et generales ideas, condit, quidquid condit 11.

attra-verso il quale nella sua mente egli dà fondamento alle cose, prima an-cora di darne una rappresentazione particolare 12.

Il poeta come il Divino Pittore

Esattamente come farebbe un pittore alle prese coll’ideazione di un affresco, il Dio creatore, rispecchiandosi in sé stesso, pone le specie universali, quindi produce il cosmo come un immenso quadro policro-mo, al centro del quale colloca infine la migliore imitazione di Sé: l’uo-mo. Prima crea gli elementi e li amalgama per formare mare e terra. In un secondo momento forma i vegetali. Poi cosparge di colore questo immenso disegno già perfettamente ideato. Dopo è la volta delle be-stie. Quinta a essere creata è la phantasia, la tabula universitatis atta ad accogliere le immagini delle cose e a mescolarle per crearne di nuove e meravigliose (centauri, sirene e simili forme). Solo alla fine Dio crea ciò per cui tutte le altre creature hanno motivo d’esistere: l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza.

Il poeta epico, comportandosi proprio come il divinus Pictor all’at-to della creazione, nella sua mente idea e disegna un intero piccolo mondo che ruoti tutt’intorno all’eroe 13: così ha fatto Virgilio, il qua-le ha ricreato l’intera geografia del mondo conosciuto per consentire a Enea di viaggiarvi muovendosi da un continente all’altro, e che per il suo eroe ha formato panorami folti di vegetazione, ha dato respiro a diversi animali, ha reso con vivezza le fantastiche Arpie.

Poiché deve abbracciare tutte le creature esistenti, la sfera del poe-tabile è dunque illimitata: qui, ascoltando l’eco di Cicerone, ogni ge-nere di imitazione è ammessa 14, sicché le azioni umane costituiscono l’oggetto principale, ma non esclusivo, della rappresentazione poetica; limitarsi alla sola figura dell’eroe, sarebbe come privare un quadro raf-figurante un pastore dell’Arcadia del meraviglioso paesaggio campestre che gli fa da sfondo.

Il vero fine della poesia epica rimane comunque, come vuole Ari-stotele (respectu solius actionis humanæ iuxta AriAri-stotelem poietes erit,

hoc est factor 15), l’imitazione di azioni umane 16: solo in questo fran-gente, infatti, il poeta diviene effettivamente capace di produrre il nuo-vo. In altre parole, fa sì essere ciò che prima non era, ma solo quan-do si tratta di un’azione umana. L’esempio è offerto ancora una volta da Virgilio: se infatti egli narra di Enea avvolto da una nube, narra di un’azione del tutto nuova e prima inesistente che viene così in qualche modo “creata”; quanto alla nube, essa è formata di una materia natu-rale dalla quale si formano tutte le nuvole, e la sua forma poetica risul-ta pari o forse inferiore alla forma naturale o a qualsiasi forma pitto-rica di nuvole.

Ma il paragone con la pittura, arte che nella Poetica Aristotele uti-lizza quasi come uno specchio della poesia, nel De perfecta pœsi assu-me il valore di una semplice assu-metafora. Ricordando il celebre luogo dell’ut pictura pœsis, desunto dal passo oraziano del quodlibet

auden-di («...pictoribus atque poetis | Quodlibet audenauden-di semper fuit æqua

potestas» 17), l’autore tiene infatti a precisare che la facoltà, propria della poesia, di ideare azioni nuove, non è affatto condivisa dalla pit-tura: questo perché l’atto poetico nasce e si risolve nell’elaborazione mentale che precede la rappresentazione, più che nella rappresentazio-ne in sé, sia essa eseguita per mezzo di versi oppure di colori. Anche il pittore può quindi considerarsi “poeta”, fintanto che elabora concet-tualmente: fintanto che “fa” o “inventa” imagines mentali, le quali solo successivamente verranno rappresentate 18. Solo alla narrazione poetica viene però riconosciuta quell’incomparabile potenza espressiva deri-vantele dal suo essere indipendente da qualsiasi supporto materiale: solo il linguaggio infatti reca traccia dell’immensa potenza creatrice di Dio da cui, come da un fuoco, deriva la scintilla dell’atto poetico 19:

Pingere enim non est dicere, hoc ita esse, sed est ostendere quodammodo cla-rius, quale quid potuit esse. Narrare vero, quod est pœtæ, est hoc vel illud, quod potuit esse, iam asserere esse 20.

Le quattro cause da cui si genera la poesia costituiscono una sor-ta di sistema a circuito chiuso, dove la creatività poetica è compresa nella creatività divina: è Dio colui che rende creatore il poeta, affinché questi riveli al genere umano verità altrimenti inaccessibili. E benché una speciale indole inventiva (inventrix) spinga il poeta all’imitazione, l’unica e vera causa efficiente del fare poetico è Dio, autore sia della natura imitata sia dell’entusiasmo che invade il vate.

Causam vero efficientem, cuius instinctu agi dicuntur pœtæ, […] quominus

pecu-liariter dicamus Deum esse ipsum, prout est auctor et perfector operum naturalium 21.

Della poesia, causa finale intrinseca è l’imitazione, estrinseca è l’in-segnare la verità rivelata attraverso il diletto e la commozione. Causa materiale è ciò che diviene oggetto di imitazione da parte del poeta. Causa formale è la fabula. Effetto di queste cause è il poema, defini-to imago cuius rei, facta a pœta: ancora una volta troviamo ben distinte la forma forgiata dalla mente del poeta e l’immagine che i versi ne danno, ovvero, per esprimersi in termini platonici, l’eidos e l’eidolon 22. Il poema rimane dunque la più perfetta modalità di rappresentazione dell’idea: la pittura e la scultura non vanno, con la pietra e i colori, oltre la mera imitazione della natura, producendo una copia della co-pia dell’archetipo ideale; la poesia invece supera la natura imitata, cor-reggendola secondo le idee. Quelle imitano soltanto il marcescente e

inerte involucro delle cose, questa invece imita l’essenza stessa delle cose, donando loro, come Dio, la vita 23.

Sola pœsis non imitatur tantum opera naturæ tamquam archetypa, sed etiam corrigit. Non enim imitatur res, prout sunt, sed prout perfectissime potuerunt vel debuerunt effici a natura. Artes ceteræ […] mortuis naturam imitantur, ut in colo-re, figura, situ, pœsis vero etiam in internis habitibus et vitæ officiis, denique in omni parte entis 24.

L’epica, genere perfetto

La poesia epica o eroica, definita 25 quale imitazione di un’azione grande, unica, integra, illustre e animata da vari rivolgimenti, è consi-derata da Sarbiewski la forma perfetta di poesia 26.

Le azioni che vi sono narrate, corrette dalle innumerevoli imperfe-zioni della storia (artis enim erit supplere defectum naturæ 27), animano un “picciol mondo” ideale, che è proiezione di quello reale e che spira una vitalità paragonabile solo a quella di un vero essere vivente

(qua-si ad vivum expres(qua-sio): nessun altro genere poetico reca in maniera così

lampante l’impronta della mano di Dio. La tragedia e la commedia, infatti, benché imitino anch’esse azioni umane, lo fanno in modo im-perfetto, in quanto penalizzate dalla dipendenza dal medium teatra-le. La lirica e l’elegia non imitano azioni umane, mentre l’epigramma non può nemmeno considerarsi poesia in senso proprio, essendo nien-t’altro che abile sofisma, esercizio dell’ingegno, che attraverso l’acume intellettuale e l’arguzia sagace, sorprende e persuade il lettore 28:

Apparet ergo formam ipsam epigrammatis neutiquam pœsin spirare, sed esse quid indifferens et commune quoddam ingenii exercendi et ostentandi instrumen-tum29.

L’argomento del poema epico deve incentrarsi su di un’unica gran-de azione eroica – svolta da un personaggio di sesso maschile 30 – non può raccontare l’intera vita del protagonista: l’Iliade narra solo della rovina di Troia e l’Eneide solo delle peregrinazioni del suo eroe fino in Italia 31.

[…] unam dumtaxat integram actionem, hoc est ex pluribus connexis inter se actionibus conflatam, quale est v. g. excidium Troiæ, seu Ilias, peregrinatio Ulixis, seu Odyssea, Æneæ in Italiam migratio, seu Æneis 32.

Della poesia epica, causa materiale esterna è l’azione eroica, interna è invece la vera conoscenza celata nelle allegorie. Causa formale è la modalità espressiva quasi ad vivum. Causa finale esterna è l’imitazione, profonda è invece l’insegnamento attraverso il diletto 33. Causa

effi-ciente è il poeta, il quale ha a disposizione uno straordinario appara-to strumentale costituiappara-to dall’intero sapere umano.

Nell’àmbito delle artes liberales, all’arte poetica spetta, per Sar-biewski, il titolo di philosophia nobilissima: tra i generi poetici, poi, quello epico è il più perfetto, perché l’imitazione epica si estende a ogni scienza o arte, cosa che fa dell’epica una disciplina capace di con-tenere tutte le altre. In tal senso il poema è un piccolo novus quidam

mundus 34 simile a quello reale, dove ogni conoscenza umana collabora all’azionamento del complesso ingranaggio narrativo: così accade nel-l’Eneide, che diviene una sorta di enciclopedia di tutte le artes umane. Ma la funzione del poema epico non si esaurisce nell’offrire prova delle altre arti, esso assolve a una funzione superiore, che lo rende il migliore strumento possibile di conoscenza. L’epico, in quanto tratta le res enim singulares iuxta universalem modum 35, tra gli uomini è l’unico vero grande filosofo: alla stregua del demiurgo platonico, il quale plasmò la materia guardando alle idee eterne, l’epico, infiamma-to dallo spiriinfiamma-to divino di cui parla Cicerone («pœtam natura ipsa va-lere et mentis viribus excitari, et quasi divino quodam spiritu infla-ri»36), plasma nuove fabulæ, dove cela remote verità, altrimenti inat-tingibili per l’umanità, e le pone sotto agli occhi del lettore, affinché

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