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Il periodo interbellico (1925-1939) è un periodo commemorativo, più realista Negli Stati Uniti i film sulla guerra continuano a «spettacolarizzare» la guerra (Véray, 2014) intrecciando scene

Nel documento Il "Dies irae" di Britten (pagine 135-200)

belliche, scene di passione melodrammatiche e scene eroicomiche, come evidenzia il manifesto di La Grande Parata che dà una sensazione di «eterogeneità generica» (G. Delon). La moltiplicazione degli intrecci rinvia alla struttura dei grandi romanzi e del dramma storico. Questi film rappresentano soprattutto la guerra come iniziazione virile, come ad esempio in La Grande parata (The Big Parade, del 1925, primo al box office) e poi in Vie della Gloria (What Price Glory? di Hawks, del 1926), in cui un gruppo di soldati francesi deve resistere all’avanzata tedesca e sacrifica la propria vita in nome dell’onore e della Patria. Appaiono anche film di aviatori, rappresentati in quanto nuovi cavalieri moderni, come Ali (Wings di William Wellman, 1927) e Gli Angeli dell’inferno (Hell’s Angels di Howard Hughes, 1930) con scontri aerei impressionanti sullo sfondo della rivalità tra due fratelli innamorati della stessa donna. Questi film indagano la dimensione collettiva e i rapporti di gruppo, una costante nelle rappresentazioni di questo periodo. Negli Stati Uniti queste scene riflettono l’ideale del gruppo democratico, con un abbondante utilizzo di luoghi comuni, come per esempio in The Big Parade, dove coesistono nel gruppo un ereditiere, un operaio e un barista. Poco a poco s’impone una rappresentazione della Guerra imperniata sulla battaglia, considerata come la principale esperienza per il soldato. È già così nella letteratura, come si vede

197 P. SCHOENTJES, Fictions de la Grande Guerre. Variations littéraires sur 14-18, Paris, Classiques Garnier, 2008, pp.

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nei libri di Jünger (In Stahlgewittern, 1920 e Der Kampf als inneres Erlebnis, 1922). Ma cinematograficamente quest’evoluzione si osserva benissimo nel film All’Ovest niente di nuovo di Milestone (1930), dove l’intreccio sentimentale è fortemente ridotto. Vi è poi la rappresentazione di alcuni stereotipi legati alla guerra come ad esempio l’attesa, nel cratere di una bomba o in un rifugio, oppure la scoperta del pericolo mortale per chi vuole recuperare il cadavere del commilitone nella no man’s land.

Molti registi di questo periodo hanno vissuto la guerra (Raymond Bernard, Jean Renoir, Lewis Milestone): ciò influisce sui loro film, che si rivelano meno schematici, più realistici e più pacifisti. Tutti si sforzano di presentare una ricostituzione credibile della vita al fronte. Il film di Raymond Bernard, Les Croix de bois (Le croci di legno, 1932) rappresenta una scena di scontro che dura quasi diciassette minuti con immagini talvolta sfocate per evidenziare la confusione dei combattimenti e girate con un movimento di carrello laterale; tutto è rappresentato dal punto di vista dei soldati, come se lo spettatore si trovasse in mezzo agli scontri. Ormai i registi non si rifiutano di rappresentare l’orrore, ma lo fanno senza rimettere in discussione le decisioni del comando supremo e senza evocare le ribellioni o i disertori. Anche gli attori sono spesso veterani, come Gustav Diessel in Westfront 1918 di Pabst o Charles Vanel, protagonista di Les Croix de bois che pone l’accento sul fatto che loro non sono interpreti, non fingono ma si ricordano della propria esperienza, sono testimoni: «Nous n’avons pas eu besoin de jouer, nous n’avons eu qu’à nous souvenir».198 Nello stesso momento, in Francia, scoppia una polemica, assai violenta, sull’opera di Jean Norton Cru, Témoins. Essai d'analyse et de critique des souvenirs de combattants édités en français de 1915 à 1928 (1929),199 che intende gerarchizzare i racconti sulla guerra. Il film di Poirier, Verdun, visions d’histoire (1928), è molto rilevante anche per i problemi di rappresentazione. Infatti, per evocare in modo più esatto i combattimenti, Poirier usa immagini di documentari, ma soprattutto gira sul campo di battaglia (i crateri delle bombe sono ancora visibili, i paesi ancora distrutti) con veterani e contadini che lo aiutano a ricostituire la guerra come mai prima. Come ha osservato Laurent Véray, la forza realistica – visiva e sonora – dei film di quest’epoca, e in particolare del film di Poirier, ideati quasi come documentari, sarà così notevole che alcune scene saranno usate spesso nei film a venire e ancora oggi vengono utilizzate come testimonianze. In Westfront 1918 (1930), Pabst cancella gli effetti di messa in scena per far somigliare il più possibile il film ad un documentario, rendendolo così l’emblema della “nuova oggettività” (neue Sachlichkeit).

È soprattutto la rappresentazione realistica della guerra a trarre profitto dalla comparsa del cinema sonoro a partire dal 1927. L’intensità sonora della Grande Guerra era forse l’aspetto più importante dei racconti dei veterani. Restituire il suono al senso proprio inaudito di questa Guerra era già una sfida per gli scrittori. Si può dire che – mi riferisco ai Francesi, ma l’esperienza può sicuramente essere estesa ad altri – la gente del 1914 conosceva i fatti della guerra del 1870,se non per averla vissuta in prima persona, almeno grazie ai racconti trasmessi, ai libri (non solo Zola con La Débâcle, o Paul Margueritte con Une époque (1898-1904) e in particolare con l’episodio Le désastre) e ai quadri storici. Si trattava però di una guerra muta. La Grande Guerra è un’alternanza di rumori assordanti (fucili, aerei, bombardamenti) e di lunghi silenzi (prima dell’assalto, la notte, o quando i soldati guardano i gas di colore verde, a Ypres, per la prima volta, senza capire cosa siano). Tutti, tanto i rumori quanto la loro assenza, sono una minaccia di morte, se non già la morte stessa. Questa era la dimensione mancante nel cinema muto. Ali di Wellman, pur essendo un film muto, sperimenta l’introduzione di rumori di motori, detonazioni, eliche, il tutto registrato su dischi; ed è questo che ha contribuito al suo successo. A tal proposito Raymond Bernard, realizzatore di Les Croix de bois, racconta le difficoltà del registrare suoni adatti a rappresentare l’ambiente sonoro della Guerra: «Après de nombreux essais, au cours desquels je fis éclater 17 microphones, je

198 Citato da R. PRÉDAL, La Société française à travers le cinéma, Paris, Armand Colin, “U2”, 1972, p. 32.

199 Contro il successo polemico del film di K. Vidor in Francia, i film di pura invenzione sulla guerra sono vietati da

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parvins à faire enregistrer, sur 12 bandes différentes, les divers sons qui, ensuite, mélangés et dosés, constituèrent la bande unique accompagnant les images du film».200

L’adattamento di All’Ovest niente di nuovo, ad opera di Milestone nel 1930, costituisce una tappa importante dell’evoluzione cinematografica, perché unisce alla forza visiva delle immagini, resa con violenti movimenti di carrello laterali, il suono delle raffiche delle mitragliatrici, conferendo loro un carattere fatale. In questi film, i veterani ritrovano la guerra proprio come l’avevano vissuta e gli altri la scoprono come mai prima di allora. Mentre i documentari restituiscono la guerra da lontano, il cinema la rende terribilmente presente. C’è ancora pudore, anche se ormai si vedono sugli schermi il sangue, il corpo a corpo in trincea, gli arti strappati. Queste immagini dovrebbero assumere un ruolo didattico, essere considerate come una sorta di pedagogia «dello choc».201 Dieci anni dopo la guerra, il realismo è usato innanzitutto per ricordare cos’era la guerra, per mostrare cose mai viste e da non dimenticare, perché queste non si ripetano. Dopo gli accordi di Locarno (1925) e il patto Briand-Kellog, firmato anche dal cancelliere tedesco Stresemann (1928), che intende «mettere la guerra fuorilegge», il cinema appare il mezzo più adatto per rafforzare il clima pacifista. Il caso di Verdun, visions d’histoire è emblematico: ideato dopo l’inaugurazione dell’ossario di Douaumont nel 1927, dieci anni dopo l’assedio, rappresenta la battaglia attraverso due personaggi emblematici, un francese e un tedesco. La rappresentazione del nemico è garbata, si distingue la casta militarista prussiana dal soldato semplice e le sofferenze sono uguali in entrambi i campi. I fantasmi di due madri, una francese e una tedesca, riportano a casa i corpi dei figli caduti. Sette anni dopo, in Les Croix de bois, il protagonista si commuove all’udire il Lied di Schumann cantato da un soldato tedesco. Lo scopo del regista, Raymond Bernard, è chiaro. Egli infatti afferma:

Nous n’avions plus l’impression de faire seulement notre métier de cinéastes avec ardeur, avec amour, il nous semblait – un peu puérilement peut-être – que chacun […] nous participions à une œuvre sacrée, une grande œuvre de paix? En révélant ce qu’était la guerre à tous ceux qui l’ignoraient, nous voulions la faire prendre en haine.202

Con la stessa volontà, nel 1938, nella scena finale del remake del J’accuse di Abel Gance, i soldati morti della versione del 1918 (incarnati da soldati in licenza) vengono impersonati da soldati sfigurati e mutilati, vivo rimorso per la società. L’ultima battuta del film insiste sulla necessità di guardare questi mutilati dritti negli occhi: «Guardateli bene, che si estirpi dai cervelli la voglia di combattere per sempre! Con gli occhi pieni di tutti gli orribili cadaveri della guerra, vi cadranno le armi dalle mani».

Si deve però pensare che siamo vittime di un’illusione retrospettiva, come viene fatto notare da G. Delon quando ricorda che The Big Parade venne interpretata dai comunisti francesi come un film propagandistico e bellicista, ed inoltre che i film di questa epoca sviluppano molteplici livelli di significato. Ambigua è la rappresentazione della violenza in questi film. L’esempio dell’adattamento di Im Westen nichts Neues di Erich Maria Remarque, realizzato da Lewis Milestone, è eloquente. Il film mostra alcuni studenti tedeschi che si arruolano volontari ritrovandosi così di fronte alla cruda realtà della guerra di cui avevano udito soltanto i discorsi patriottici del professore che li incitava ad anticipare l’appello per difendere la patria. Una delle scene più importanti pone il protagonista Paul Baümer dinanzi a un soldato francese in agonia nel cratere di una bomba, in mezzo a un cimitero sconvolto dalle cannonate. Rimane tutta la notte con il cadavere del nemico, gli chiede scusa e promette di scrivere alla vedova. Poco a poco tutti i

200 R. PRÉDAL, op. cit., p. 30. 201 L. VÉRAY, op. cit., 2008, p. 102.

202 R. PRÉDAL, op. cit., p. 29. Purtroppo questi film pacifisti fanno scattare reazioni nazionaliste nelle sale (cfr.: La Revue du cinéma, 1er mai 1931, p. 46). Il carattere problematico del “pacifismo” di questi film viene notato da J. DANIEL in Guerre et cinéma, Paris, Armand Colin-Presses de la fondation nationale des sciences politiques, 1972, pp. 106-130.

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compagni muoiono. Approfitta perciò di una licenza per tornare a casa. Chiamato dal professore a testimoniare l’eroismo dei soldati tedeschi al fronte, non può che denunciare la guerra. Egli dichiara che sarebbe meglio non morire affatto piuttosto che morire per la propria patria, opponendosi così alla retorica bellicista dell’insegnamento che usa i versi di Orazio «dulce et decorum est pro patria mori» (saranno ripresi da Owen come titolo di un poema). Incompreso dai giovani illusi, come era stato anche lui, che lo considerano un traditore, e anche incompreso dal padre, ritorna presto al fronte dove muore poco prima dell’armistizio. Già il libro poteva sollevare un’interpretazione non esclusivamente pacifista: poteva infatti apparire come un’esaltazione della forza e del dovere, come è fatto notare da P. Schoentjes, nel contesto della rivalorizzazione del vissuto della guerra e del “soldato al fronte” evocata nell’opera di Jünger. Il suo adattamento cinematografico, invece, è più chiaramente pacifista. Le lunghe discussioni tra i soldati sulla guerra non lasciano dubbi, accusano il Kaiser, i generali, gli industriali. Ma non è esclusa una rappresentazione estetica degli scontri, con un’attenzione particolare al ritmo, per cui il film è premiato agli Oscar per la miglior regia e come miglior film. Infine rimangono centrali alcuni valori come il coraggio, il sacrificio e il dovere. Il film suscitò l’ira dei nazisti ancor più del libro di Remarque. Nell’ultima scena, il protagonista muore, tentando di toccare una farfalla posatasi davanti a lui fuori della trincea e, colmo dell’assurdità, muore freddato da un cecchino francese somigliante al soldato del cimitero. In Germania le proiezioni furono interrotte da topi gettati dai nazisti sulla platea per scoraggiare gli spettatori. La proiezione del film fu vietata nel dicembre 1930.

L’incomprensione, il tradimento come anche gli sforzi di riconciliazione sono i punti cardine anche nel film del regista tedesco Pabst, Westfront 1918 (1930), tratto dal romanzo di Ernst Johannsen (Vier von der Infanterie) in cui un soldato tedesco in licenza scopre il tradimento della moglie e decide così di tornare al fronte. S’innamora poi di una giovane vivandiera francese e muore in una chiesa adibita a ospedale, stringendo la mano a un soldato francese, pronunciando queste parole: «Feinde ? – Nein. Kameraden». I nazisti, subito dopo l’ascesa al potere, rispondono ai film di Milestone e di Pabst. L’obiettivo è mostrare il coraggio dei soldati tedeschi ed affermare che la Germania ha dovuto e deve lottare per sopravvivere. Nel 1934, Stosstrupp 1917, sottotitolato Der gewaltigste deutsche Kriegsfilm (che significa: «Il più violento film di guerra tedesco» ma anche «più potente»), cerca di superare il realismo dei film di Milestone e di Pabst ma con un messaggio tutt’altro che pacifista.

Pochi sono i film fascisti sulla guerra. Questo fatto è sottolineato da Nicolò Valentini nella «Gazzetta del Mezzogiorno» del 18 dicembre 1934:

Chi si ponga a considerare l’essenza etica ed estetica dell’arte cinematografica e la virtù eccitatrice dei sentimenti del nostro tempo, non può non dolersi del fatto mortificante che in Italia manchi ancora il film della sua guerra [...] un’opera destinata ad avere un peso considerevole nella documentazione storica della guerra mondiale.

La volontà di utilizzare il cinema da parte del regime si confronta prestissimo, fin dal 1927- 1928, con la realtà economica, con i gusti del pubblico e con l’efficienza limitata del cinema di propaganda. Più numerosi saranno i film di intrattenimento, che saranno chiamati i film dei “telefoni bianchi”. Certamente però non si può non constatare quanto il cinema abbia avuto “un peso considerevole nella documentazione storica della guerra”, da qui l’importanza dei film di Bernard, di Pabst, di Milestone che nonostante il loro statuto di finzione appaiono dei documentari. Tuttavia si possono citare Cavalleria (1936) e Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, che rappresentano la guerra in modo “nobile”, e ancora Le scarpe al sole di Marco Elter (1935), dove il personaggio di Bepo, veterano della Guerra d’Africa, muore da eroe, e quello di Toni, che non sopporta di rimanere nelle retrovie in seguito ad una ferita, ritorna al fronte.

Dopo la vittoria elettorale del Front Populaire, coalizione di sinistra, nel 1936, e in piena marcia verso la guerra, in Francia una corrente cinematografica forse più isolazionista che pacifista

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produce film come La grande illusione di Renoir (1937). Costituisce un’eccezione rilevante il fatto che questo film non si sviluppi al fronte ma in un campo di prigionia. Rifacendosi ai film americani e a quelli di Léon Poirier (Verdun visions d’histoire) e di Raymond Bernard (Les Croix de bois) è fornita una rappresentazione unitaria della società francese attraverso un gruppo eterogeneo di soldati (un aristocratico, un operaio, un ricco ebreo) che permette di mettere in scena tutte le classi sociali, le diverse visioni della guerra secondo gli interessi di ogni classe e i diversi modi di affrontare le vicissitudini della loro condizione di soldato.203 La solidarietà tra gli uomini è basata sul modo di pensare e di comportarsi (come, per Boëldieu e von Rauffenstein, i valori militari sono fondati sull’idea dell’antica cavalleria) più che sull’appartenenza alla stessa nazione. Nell’ultima parte, Maréchal s’innamora di Elsa, una contadina tedesca il cui marito e i fratelli sono morti al fronte. Il film risulta però ambiguo, in particolare si nota la limitata solidarietà tra i due aristocratici che capiscono che questa guerra è il tramonto di un’epoca, rappresentando così il pensiero di Renoir che si definisce «uomo dell’Ottocento».

La fortezza dove i francesi sono prigionieri (nella realtà, il Castello di Haut Koenigsbourg in Alsazia ristrutturato negli anni Dieci dall’imperatore Guglielmo) non è altro che una metafora della guerra: muore il personaggio di Boëldieu (Pierre Fresnay); è come morto il personaggio di Rauffenstein (E. Von Stroheim), prigioniero del proprio corpo ferito, privo di ogni amicizia, di ogni comprensione in un mondo ormai svuotato di ogni senso della cavalleria. La guerra, cioè la morte, è l’unica soluzione per loro: «per un uomo del popolo è terribile morire in guerra. Per voi e per me, è una buona soluzione» dice von Rauffenstein. La guerra appare un pasticcio. Il patriottismo di Rauffenstein, soldato che ormai si sente come trasformato in un impiegato, è una grande illusione. L’altra via d’uscita è la fuga, ed è la via che segue Maréchal (Jean Gabin) per ricominciare a lottare, «malgré tout», perché «il faut bien qu’on la finisse cette putain de guerre, en espérant que c’est la dernière». La sua prima tappa è la Svizzera, che per lo spettatore del 1937 è uno Stato neutrale, sede della Società delle Nazioni. La grande illusione del titolo è anche quella.

Il film è pacifista e propone una visione internazionalista.204 Nel 1938 Renoir dichiara ai giornalisti americani:

parce que je suis pacifiste, j'ai réalisé La Grande Illusion […] Un jour viendra où les hommes de bonne volonté trouveront un terrain d'entente […] Aussi gênant soit-il, Hitler ne modifie en rien mon opinion des Allemands.

I contadini tedeschi non vedono i prigionieri come nemici. Ciò nonostante, il film non considera gli avversari come dei pari. I francesi rimangono superiori agli altri. I russi, che però li aiutano a fuggire, gli inglesi effeminati e soprattutto i tedeschi, per i quali non c’è alcuna simpatia, fatta eccezione per von Rauffenstein (Renoir fa cambiare la sceneggiatura dopo l’incontro con Erich Von Stroheim) sono rappresentati come privi di personalità e di individualità. In Italia, in Belgio e negli Stati Uniti è considerato come un film nazionalista e alla fine della guerra, nel 1946, saranno censurati l’amicizia tra Raufenstein e Boëldieu e l’amore tra Maréchal e Elsa, considerati come un invito alla collaborazione con i tedeschi.

Ben più violento sarà il remake del J’Accuse di Gance (1938): nell’ultima scena, i morti di Verdun risorgono dalla tomba, ma al posto dei giovani soldati della versione del 1918, la loro parte sarà affidata a vere “gueules cassées”. Un’«assemblea generale universale» vota «la solenne abolizione della guerra tra ogni Stato e il disarmo immediato è stabilito all’unanimità: la guerra è

203 È anche il riflesso dell’antisemitismo della società francese degli anni Trenta. Rosenthal combatte innanzi tutto per

proteggere i suoi beni e le barzellette sugli ebrei non sono poche. Anche Maréchal è istintivamente antisemita, ma cambia idea. Per O. Curchod, si tratta di una strategia intelligente di Renoir per promuovere la loro integrazione nella società francese.

204 In Francia, altra testimonianza della sua ambiguità, il film è acclamato a sinistra e a destra in una «union sacrée

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morta, il mondo è rinnovato». E, questa volta, i morti ritornano soddisfatti all’ossario di Douaumont, altra “grande illusione”.

D’altro canto, al successo di Charlot fa seguito l’estro comico di altri film. In Il Compagno B o Conoscete Mr. Smith (Pack Up Your Troubles, 1932) di Leo Mac Carey, i comici Stanlio e Ollio si fingono disabili davanti a un sergente, ma sono costretti ugualmente ad arruolarsi: mandati all’attacco per liberare il soldato Smith, riescono per errore a mettere in moto un carro armato con cui vincono la battaglia. In Vent’anni dopo, o anche in Stanlio e Ollio teste dure (Block-Heads), Stanlio è incaricato di custodire una trincea durante l’assalto dei commilitoni, ma non si accorge che la guerra è finita. Vent’anni dopo è sempre lì da solo: viene allora localizzato e recuperato da un aereo, e deve, a quel punto, riprendere la vita borghese che aveva lasciato. Questo è l’essenziale del film. Per il resto, la guerra non è una cosa seria.

Il Sergente York (Sergeant York) di Howard Hawks, del 1941, con Gary Cooper, che è per Hollywood l’americano medio ma che è anche l’attore protagonista di Addio alle armi (1932), tratto dal romanzo di Hemingway,205 è tra gli ultimi film sulla Prima guerra mondiale. Basato su una storia autentica, il film traccia la storia di un ragazzo del Tennessee, ubriacone e rissoso, che ha una vera e propria rivelazione poco prima di essere arruolato. Dopo un’esperienza quasi agostiniana (il vento volta le pagine della Bibbia che sta leggendo) diventa un caporale esemplare e un eroe nazionale. Con questo inno all’eroismo di John Doe, si cerca di preparare la popolazione ad accettare l’entrata del paese nella Seconda guerra mondiale. È l’ultimo film di Hollywood sulla

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