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IL PROCEDIMENTO INNANZI ALLA MAGISTRATURA SUPERIORE

5. Persistenze del diritto “siculo”.

Il 7 giugno del 1819 vede la promulgazione del Codice, il cui impatto innovativo ingenerò non poche diffidenze e difficoltà in capo ai magistrati, costretti a darne effettiva applicazione ed agli avvocati restii ad abbandonare la moltitudine di disposizioni normative sulla quale avevano costruito le loro fortune167.

Le fonti del primo decennio ci dimostrano l’utilizzo del diritto romano da parte degli avvocati nelle loro difese e dai magistrati nelle loro sentenze e la Corte suprema, più volte chiamata a pronunciarsi sul punto, ne apriva l'ingresso solo ad adiuvandum.

La Corte, infatti, faceva ricorso a questo, quale ratio scripta, nei casi non regolati dal nuovo Codice, senza tuttavia violare l'art. 3 della Legge del 21 maggio

1819che ne sanciva l'abolizione, ed anzi la violazione del diritto romano era

167 Sul ruolo degli avvocati Cfr. G.PACE GRAVINA, Per una antropologia dell'avvocato siciliano dell'Ottocento, in Cultura e tecnica forense tra dimensione siciliana e vocazione europea, a cura di F.

83 persino censurabile dalla Corte secondo la quale, in una sentenza resa nell'agosto del 1823:

«apre l'adito alla cassazione la violazione delle leggi romane che si devono applicare ai fatti antecedenti alle novelle leggi, molto più quando sono state conservate dal nuovo codice; che in questo caso il codice civile ha effetto di legge interpretativa o dichiarativa, e contravvenendo alle regole anteriori confermate o rinnovate, ha luogo l'annullamento come se si fosse direttamente contravvenuto al codice stesso»168.

Tuttavia una sentenza del medesimo anno chiariva che nel confronto tra le antiche leggi e quelle vigenti, regolate però da principi difformi e opposti «sarebbe un equivoco ben chiaro se volessero dal diritto romano attingersi delle massime per interpretare, estendere o dar restrizioni alle nuove leggi in opposizione al principio regolatore».

L'uso dei testi giustinianei, il ricorso all'antico diritto siciliano e la loro strenua difesa da parte dei giuristi isolani evidenzia non solo una difficoltà di adattamento/riconoscimento del nuovo assetto statale nel tessuto giuridico, ma anche un'esigenza concreta, per i giudici innanzitutto.

Il giudice infatti, nel silenzio della legge, era obbligato ad emettere una pronuncia se non voleva incorrere nell’illecito di denegata giustizia169 ed era

altresì obbligato a motivarla170.

168 ASPa, Corte di cassazione, sentenze civili, 5, 1823.

169 Art. 570 della Legge di procedura nei giudizi civili e art. 231 della Legge organica giudiziaria pe’ reali dominj oltre il Faro.

84 Anche la consuetudine, sebbene in maniera marginale, poteva essere citata a sostegno delle sentenze.

È del 1834 un arresto della Corte suprema, chiamata a pronunciarsi sulla violazione dei Capitoli 271 e 258 di re Alfonso disciplinanti le forme dei testamenti e dell'art. 986 del Codice, prima parte, che prescriveva che il testamento per atto pubblico dovesse esser ricevuto da due notai e due testimoni che mi permette di affermarlo171.

La Corte, infatti, nella sua motivazione precisa che «i testamenti dei quali si tratta in causa, riconoscono altre regole, introdotte in quel piccolo Comune di Catena Nuova, al pari di tanti altri piccoli Comuni del Regno, per una legittima consuetudine continuativamente osservata e autorizzata» e che permettevano al vicario curato, in mancanza di notaio, di redigere testamenti in forma pubblica, contratti e atti notarili.

Considerava altresì la Corte che per la legale validità di tali testamenti, non potevano trovare accoglimento le leggi invocate dalla ricorrente, in quanto «quelle dell'epoca precedente al nuovo codice, abrogate erano dalla consuetudine di quei tempi legittima, ed autorizzate in quel piccolo comune [...] e le altre del nuovo codice in epoca posteriore pubblicate non valevano a retroagire negli atti precedentemente in pubblica forma redatti».

Il maggiore appiglio di cui disponevano i giudici era quindi rappresentato dal recupero delle leggi “romane” comunque mai chiaramente osteggiata dalle riforme borboniche.

L'atteggiamento per così dire ambiguo del governo, nei confronti della questione dell’impiego di quello che veniva definito diritto romano,

85 appare ancor più evidente se si tiene presente che i magistrati e gli avvocat i si erano formati nelle Università del Regno, presso le quali era più che mai vivo lo studio delle istituzioni civili e delle pandette172, e che persino per l'ingresso

nella magistratura, dal 1838 in poi, era previsto che una delle prove d'esame consistesse nella disamina di alcune disposizioni di diritto romano173.

Risulta chiaramente da alcune massime della Corte suprema la conferma della legittimità di fondo dell'uso del diritto romano, della giurisprudenza delle abolite magistrature così come degli orientamenti della dottrina. È del maggio 1821 una decisione con la quale viene precisato che: «Giudicando di contratti e dimande antiche si possono seguire le massime di giurisprudenza allora ricevute, non contrarie alla legge»174.

172Sullo stato dell'istruzione universitaria nel periodo borbonico Cfr. A.CAPPUCCIO, Dalle università del sapere all’università della scienza: la formazione del giurista siciliano nel secolo XIX, in

G. PACE GRAVINA (a cura di), Il "giureconsulto della politica". Angelo Majorana e l'indirizzo

sociologico del Diritto pubblico, Eum, Macerata, 2013; M.CONDORELLI, La cultura giuridica in

Sicilia dall’Illuminismo all’Unità, Catania, Bonanno, 1982; V.CALABRÒ, Istituzioni universitarie

e insegnamento del diritto in Sicilia (1767-1885), Milano, Giuffrè, 2002; G.PACE GRAVINA (a

cura di), La Facoltà di Giurisprudenza della regia Università degli Studi di Messina (1908-1946), Messina, Gbm, 2009.

173 «Per lo esame nel diritto romano la tesi consisterà nel chiedere la esposizione fìlosolico-

legale di alcun titolo, o di alcuna parte di titolo del Digesto, o del Codice Giustinianeo. Saranno prescelti que' titoli a' quali altri sulla materia stessa corrispondono nel codice per lo regno delle Due Sicilie. Parte essenziale del lavoro che dovrà essere presentato dagli aspiranti, sarà di rilevare se in ambedue le legislazioni vi abbia convergenza o divergenza di principii, le regole che discendono da questi principii diversi, ed i motivi di tali variazioni. 5. Il metodo indicato nel numero precedente circa la sposizione della materia avrà ancora luogo per le tesi sul codice per le regno delle Due Sicilie. Alla esposizione gli aspiranti dovranno aggiungere, quando ne sia il caso, la serie degli effetti legali che dipendono da quelle teoriche, e delle regole che vi hanno relazione, comunque sieno sparse sotto titoli diversi». Art. 4 del Regolamento per lo esame di coloro che aspirano agli uffizii di magistratura de' 5

di agosto 1838, in Collezione delle leggi e de' decreti reali del regno delle Due Sicilie, anno 1838, semestre I, da gennaio a tutto giugno, Napoli, Stamperia Reale, 1838, p. 70.

174 Corte suprema di Giustizia di Palermo, 5 maggio 1821, Santa Colomba e Quaranta, Cfr. Decisioni della Corte Suprema di Sicilia dall'anno 1819 al 1858 raccolte e pubblicate dall'avv. Vito La Mantia, Volume Primo, Palermo, 1858, p.21.

86 Una sentenza emessa nel dicembre del 1823 in tema di donazioni e sopravvenienza di figli offriva l'opportunità alla Corte di tornare su tale delicata questione.

La Suprema, chiamata a pronunciarsi sulla violazione della legge si

unquam, al fine di vedere revocata e resa nulla una donazione effettuata nel

caso di sopravvenienza di figli, esponeva le ragioni poste a fondamento delle disposizioni romane; sottolineava altresì che le stesse rimasero vigenti per lungo tempo, nonostante non esistesse più la condizione di “liberto” cui queste facevano riferimento e che la costante giurisprudenza ne estese l'applicazione all'«ingenuo».

Procedendo nella sua disamina la Corte arrivava finalmente ad affermare che gli artt. 885 e ss. del Codice, prima parte, si fondavano sugli stessi principi regolatori della legge si unquam, però ne fissavano «la vera e retta intelligenza, onde incerti non fossero i diritti dei litiganti, ed arbitrarie le decisioni», talché la violazione dell'una come dell'altra sarebbe stata comunque sanzionabile175.

Un'altra pronuncia della Corte, conforme sul punto e di poco successiva a quella segnalata, elogia il nuovo diritto consacrato dal Codice, il quale «niente ha sanzionato che presenti l'idea d'innovazione, o derogazione alle leggi vigenti all'epoca della donazione, ma soltanto con quella dignità, che distingue i gran legislatori, ha eliminato dal foro quelle vecchie dispute... in contravvenzione alla pura intelligenza della legge si unquam».

Il merito del legislatore sarebbe stato, quindi, quello di aver rischiarato, con l'interpretazione, il vero senso della legge; non solo, essendo conformi, se

87 non identici, i principi regolatori che animavano le leggi romane e le nuove,

«sono assolutamente estranei i termini di innovazione o retroazione, anzi una

è sempre in dichiarazione dell'altra».

Anni dopo l’atteggiamento è profondamente mutato; nel 1839 la Suprema, chiamata a pronunciarsi sulla violazione degli artt. 507 e 519 della parte terza del codice, relativi al termine per appellare le sentenze contumaciali, tornava sul punto rilevando che: «le leggi romane invocate nel ricorso, oltrecchè non sono applicabili alla specie, trattando di materie che han formato oggetto del nuovo Codice, dovendo considerarsi come abrogate, non possono allegarsi come violate, né formar mezzo di annullamento176».

Il trascorrere del tempo, il succedersi delle generazioni di magistrati, che ormai si formavano nella nuova metodica legale e non più negli Studia con il diritto comune, faceva scolorire nel passato l’uso di questo. Man mano che le cause sorte prima della promulgazione dei Codici giungevano a sentenza, l’invocazione del “diritto romano” diveniva sempre più rara.

L'impressione che si ricava da queste considerazioni è quella di un diritto romano spesso utilizzato come un feticcio, ora cancellato per disposizione di legge, ora utilizzato addirittura per consacrare il Codice. Naturalmente si trattava di un escamotage di “politica” del diritto: in un regno della Restaurazione non si poteva certo citare il modello napoleonico, preferendo ritrovare le origini del nuovo nel tradizionale sistema giuridico, a nascondere un’imbarazzante derivazione.

Anche a distanza di poche miglia marine, nell'altra Sicilia, si assisteva ad un fenomeno simile; i giudici “napoletani” infatti, sebbene avessero

88 conosciuto il Decennio francese e le riforme da esso derivate, si confrontarono con il problema di dover risolvere i casi di silenzio o di oscurità della legge e attinsero spesso dal diritto romano, con l'avallo della Corte suprema di Napoli177.

177 Sul punto Cfr F.MASTROBERTI, Tra scienza e arbitrio. Il problema giudiziario e penale nelle Sicilie dal 1821 al 1848, Bari, 2005; ID, Tribunali e giurisprudenza nel Mezzogiorno, I. Le Gran

89 CAPITOLO TERZO

LA COMPOSIZIONE DELLA SUPREMA CORTE DI