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philosophi, sibi diuitias suas diuites, sibi regna sua reges; nobis Per esempi di passi in cui la formula sibi habeant si trova variata cfr ancora Monaco

Nel documento Un Commento al Curculio di Plauto (vv.1-370) (pagine 149-200)

(1972), p. 23 e soprattutto ThlL 6 2399.47-51 e 2429.21-33. s.u. habeo. Appare significativo considerare che secondo quanto testimoniato da Gaio dig. 24.2.2.1, tuas

res tibi habeto era la formula propria dei ripudi. Che sia in uso anche al tempo di

Plauto è dimostrato da Amph. 928 e Trin. 266. In Curc., il contesto e la formula stessa sono chiaramente diversi ma viene il sospetto che all’orecchio romano le parole di Phaedromus dovessero suonare comiche anche perché simili a quelle solenni della lingua della legge, quasi che il giovane, sostenendo la superiorità della propria condizione, “ripudiasse” quanto posseduto da altri.

vv. 181-182 Pa. quid tu? Venerin peruigilare te uouisti, Phaedrome? / nam hoc

quidem edepol haud multo post luce lucebit. Ph. tace: la breve domanda d’esordio evidenzia la frustrazione di Palinurus ancora incredulo per quanto ha appena udito e preoccupato che Phaedromus abbia fatto voto a Venere di vegliare tutta la notte. Il

seruus, con la metafora della promessa a Venus, vuole essere sicuro che il

padroncino non abbia intenzione di rimanere ancora a lungo con l’amata. Secondo Boyancé (1966), p. 1563, l’espressione Venerin peruigilare nasconderebbe la prima attestazione letteraria del Peruirgilium Veneris, festa celebrata di notte in onore della dea dell’amore e sicuramente praticata nel IV d. C., cui si riferisce l’omonimo componimento di autore ignoto. Benché non si possa escludere tale possibilità, la sua verosimiglianza appare dubbia a causa delle profonde incertezze relative al

Peruirgilium stesso di cui s’ignorano e le precise modalità di svolgimento e la data

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soggetto hoc. Espressioni analoghe si ritrovano in Amph. 543; Mil. 218; Ter. Haut. 410. Lindsay (1907) p. 45, liquida la questione limitandosi a osservare che a volte

hoc significa “cielo, giorno”. Apparentemente il fenomeno sembra rientrare nel

novero di quei casi di ellissi di risparmio in cui un sostantivo specifico, in questo caso il cielo, giacché è deducibile dal contesto, è sostituito da un pronome; cfr. Hofmann (20033), pp. 339-341. Poiché tuttavia qui non c’è ellissi ma c’è addirittura un soggetto normalmente non presente, l’espressione pare meglio spiegabile alla luce della forza deittica del pronome dimostrativo, la cui presenza meglio focalizza l’attenzione sull’aspetto particolare che il cielo ha cominciato ad assumere, sicuro indizio dell’imminente arrivo del giorno. La figura etimologica luce lucebit non fa che rafforzare questo concetto. Palinurus dev’essere immaginato sempre più spazientito mentre con la mano addita il far dell’alba. La notizia che ormai la notte è finita dà la misura del tempo trascorso sia rispetto alla prima sia rispetto alla seconda scena, dove le espressioni hoc noctis (v. 1) e per tenebras (v. 97) avevano sottolineato l’ambientazione notturna. Quanto alla norma di Meyer, che al v. 182, sembrerebbe violata nel settimo elemento (-tō di multo), si tratterebbe, secondo Questa (2007) pp. 388-390, di un fatto soltanto apparente poiché l’elemento in questione è seguito dal monosillabo post; per un caso analogo, cfr. v. 327. Sulla validità di questa eccezione alla norma cfr. tuttavia Ceccarelli (1988) pp. 7-8 che, per il verso in questione, ipotizza come multo post possa essere considerato una parola metrica, condizione che impedirebbe l’applicazione stessa della norma; cfr. Ceccarelli (1988) p. 94 n. 9.

v. 183 Pa. quid, taceam? quin tu is dormitum? Ph. dormio, ne occlamites: il seruus

chiede perché debba tacere e perché il padroncino non vada a dormire. Le due domande sono pronunciate verosimilmente con toni diversi tali da far trasparire rispettivamente l’incredulità per l’ordine ricevuto e di contro, la supposta legittimità di quanto richiesto. Riprendendo il dormitum del servitore, Phaedromus risponde di non urlare (ne occlamites, hapax assoluto) giacché egli sta già dormendo. È verosimile, come già accennato da Traina (1972) p. 352, che pronunciando quest’ultima battuta, Phaedromus finga di dormire forse, secondo quanto ipotizzato da Monaco e Wright nei rispettivi commenti, poggiando il capo sulla spalla dell’amata. Così facendo infatti, quanto detto risulterebbe molto più efficace.

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v. 184 Pa. tuquidem uigilas. Ph. at meo more dormio: hic somnust mihi: a dispetto

di quanto preteso dal padrone, il seruus ribatte che questi è perfettamente sveglio. Il giovane sottolinea che a suo modo egli dorme. La situazione presente, l’incontro e quindi l’abbraccio con la fanciulla infatti, rappresentano per lui una condizione ideale tale da consentirgli di dormire. Tale affermazione non fa che caratterizzare ulteriormente Phaedromus quale amante privo di qualsiasi logica.

v. 185 Pa. heus tu, mulier, male mereri de inmerente inscitia est: impossibilitato a

un dialogo razionale con il padroncino, Palinurus si rivolge direttamente alla donna sostenendo che è sciocco comportarsi male con chi non se lo merita. Il riferimento è all’azione malvagia che la meretrix sta compiendo ai danni del seruus stesso trattenendone il padrone e dunque impedendogli di andare a dormire. Il contrasto tra il cattivo comportamento dell’ancillula e l’innocenza del servitore è evidenziato dalla figura etimologica mereri- inmerente e arricchito non solo dall’allitterazione di

m ma anche dall’accostamento inmerente inscitia. Forse c’è addirittura un qualche

richiamo al termine meretrix, nomen agentis di mereor. Per heus cfr. v. 147.

v. 186 Pl. irascere, si te edentem hic cibo abigat. Pa. ilicet!: Planesium non

risponde direttamente all’accusa ma giustifica il suo comportamento creando un parallelo tra il cibo e l’amore, l’uno essenziale per lei, l’altro per il seruus: se Palinurus la separa dall’amato, ella si adira proprio come accadrebbe al servo se Phaedromus lo allontanasse dal cibo. Lambinus seguito da Goetz (nella seconda edizione di Ritschl), Ussing, Ernout e Collart, emenda in irascare il tradito irascere, così da evitare il periodo ipotetico misto. In Plauto tuttavia non sono infrequenti l’apodosi con l’indicativo futuro e la protasi con il congiuntivo. Del resto, il futuro garantisce all’affermazione un margine di certezza maggiore. Qui la veridicità dell’ipotesi è garantita dalla topica voracità del seruus cui si aggiunge l’altrettanto topica immagine degli amanti che si nutrono esclusivamente l’uno dell’altra; cfr. Langen (1880), pp. 44-45; Traina (19974), p. 72. Quanto alla protasi, l’uso del congiuntivo presente per indicare la possibilità nel presente testimonia in Plauto il passaggio dal sistema del congiuntivo regolato sull’opposizione presente-passato a quello in cui vige il rapporto possibilità-irrealtà; cfr. quanto osservato al v. 164. Ilicet: da ire + licet equivale all’italiano “è fatta”, “è finita” e in questo caso si arricchisce di una certa sfumatura di sofferta rassegnazione. Se si escludono i testi

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dei grammatici, ilicet compare esclusivamente in poesia. In Plauto è attestato per otto volte (Amph. 338; Capt. 469; Cist. 685; Curc. 186; Epid. 685; Most. 848; Stich. 394;

Truc. 592). Solo in Most. 848 e Truc. 592 è scevro di qualsivoglia valore negativo: in Most. denota approvazione, in Truc. indica che un ordine è stato eseguito celermente;

cfr. ThlL 7.1. 328.55-329.75 s. u. ilicet; W-H I p. 679; Skutsch (1914) p. 104.

vv. 187-188 pariter hos perire amando uideo, uterque insaniunt. / uiden ut misere

moliuntur? nequeunt complecti satis: di fronte alle risposte dei due giovani, il seruus non può fare a meno di notare che entrambi sono pazzi giacché amano fino

allo struggimento (con allitterazione pariter perire). Nel suo a parte Palinurus si rivolge direttamente al pubblico (uiden = uidesne) che, come una sorta di nuovo personaggio, è chiamato a notare quanto miseramente gli amanti si scambino effusioni (con allitterazione di m in misere moliuntur) e non siano sazi d’abbracciarsi. Osservando che Planesium e Phaedromus si struggono in egual misura, Palinurus non fa che confermare quanto dettogli al v. 48 dal padroncino stesso, che aveva rivelato come amasse la fanciulla tanto quanto ne era ricambiato (amo pariter simul). La forza del sentimento che lega i due giovani riceve una sorta di oggettivazione giacché la sua tenacia non è più riferita da uno degli interessati ma verificata da una persona esterna il cui punto di vista è stato finora oggettivo.

vv.189-192 etiam †dispertimini†? Pl. nulli est homini perpetuum bonum: / iam

huic uoluptati hoc adiunctum est odium. Pa. quid ais, propudium? / tun etiam cum noctuinis oculis “odium” me uocas? / ebriola persolla, nugae: così com’è tradito il v. 189 non è metricamente accettabile giacché non rispettoso della norma di Hermann-Lachmann (-mĭnĭ di dispertimini, soggetto a correptio iambica, forma il secondo elemento del terzo piede) cfr. Questa (2007), p. 213. Inutili sono gli interventi di Müller (1869) p. 407 n. 2 e Havet (1907), p. 289 che sostituiscono

dispertimini rispettivamente con disiungimini e diuellimini. Le due correzioni,

originate dalla rarità di dispertio, non risolvono il problema metrico e non hanno fondamento nella tradizione manoscritta. La seconda in particolare è ulteriormente invalidata dal fatto che diuello è sconosciuto a Plauto ed è attestato solo a partire da Cicerone; cfr. ThlL 5.1. 1569.31. Per risolvere il problema metrico, Ussing, suggerisce o di eliminare est o di spostarlo dopo homini. Lo studioso preferisce la seconda soluzione, caldeggiata anche da Collart e da Traina (19974) p. 72. La

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medesima ipotesi si trova nella seconda edizione di Ritschl mentre De Melo preferisce espungere est. Leo, oltre a porre est dopo homini, corregge nulli in nullum. Quest’intervento svia inutilmente l’attenzione dal dativo di possesso, vero cuore della frase. Nulli, concordando con homini, evidenzia come neppure l’uomo più felice possa godere di una gioia eterna. La frase così formulata si ricollega idealmente, per contrasto, alle entusiastiche affermazioni di Phaedromus che si era addirittura paragonato a un dio (cfr. v. 165). Con l’esclusione di Lindsay, gli altri editori pubblicano il verso tra cruces. Goetz-Schöll si limitano a tale segnalazione. Lindsay nell’apparato della sua edizione, segnala la difficoltà metrica della fine in -

mĭnĭ e in Lindsay (1922) p. 107, accenna allo spostamento di est quale soluzione.

Ernout e Monaco ricordano in apparato le soluzioni adottate rispettivamente da Ussing e Leo mentre Lanciotti, segnalata la scelta di Ussing, dice di preferirle l’espunzione di est. Probabilmente è questa la soluzione migliore giacché la presenza di est in una sententia può considerarsi superflua. Etiam: ha qui valore etimologico (et + iam) e sottolinea l’impazienza del servo; per un uso analogo cfr. Curc. 41; 196. Dispertimini: il verbo, impiegato da Plauto per sei volte (Amph. 220; Aul. 282, 331; Curc. 189; Mil. 730; Pseud. 441), è molto frequente in Cicerone, dove si trova il 22%

delle circa ottanta occorrenze registrate. Piuttosto rara è la forma deponente che in Plauto è usata solo in Curc; per tale forma cfr. ThlL 5.1 1413.44-47 s.u. dispertio. Ormai spazientito dal lungo abbraccio, il seruus tenta di separare forzatamente i due amanti. L’intervento genera la seccata reazione di Planesium, la cui massima si spiega meglio nella seconda parte della battuta. Qui voluptas e odium non sono soltanto le due parti costituenti la realtà per l’antico principio secondo cui gioia e dolore sono reciprocamente necessari, ma corrispondono rispettivamente a Phaedromus e a Palinurus. Il topos dell’inscindibile compresenza tra gioia e dolore ha matrice filosofica (cfr. Plat. Phaedon. 60b). Si trova esplicitato nel monologo di Alcmena (Amph.635) : ita di<ui>s est placitum, uoluptatem ut maeror comes

consequatur, su cui cfr. Christenson (2000) p. 251 vv. 633-4 e in maniera meno

diretta in Merc. vv. 145-146: Ch. dic mihi, an boni quid usquamst quod quisquam uti

possiet / sine malo omni, aut ne laborem capias quom illo uti uoles? su cui cfr. Enk

(1932) pp. 39-40 vv. 145; 146. Odium: richiama l’aggettivo odiosus con cui Palinurus è stato qualificato in precedenza da Phaedromus (vv. 7; 45). In Plauto, oltre

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che nel nostro passo, sono dieci le occorrenze in cui è riferito a una persona sgradevole e malvista (Asin. 927; Bacch. 820; 822; Cas. 404; Mil. 922; Poen. 352; 392; Rud. 326; Truc. 210; 320). In Poen. 392, nella stessa scena già citata per il confronto con Curc. 166-169, uoluptas e odium si ritrovano affiancati. Qui non si riferiscono a due persone diverse, ma al medesimo personaggio diversamente percepito: il seruus Milphio rivolgendosi ad Adelphasium perché sia favorevole al padroncino, utilizza per la donna una serie di epiteti che alternano il punto di vista suo e dell’adulescens: MI. Opsecro hercle te, uoluptas huius atque odium meum, /

huius amica mammeata, mea inimica et maleuola, /oculus huius, lippitudo mea, mel huius, fel meum, /ut tu huic irata ne sis, aut, si id fieri non potest, / capias restim ac te suspendas cum ero et uostra familia / nam mihi iam uideo propter te uictitandum sorbilo, /itaque iam quasi ostreatum tergum ulceribus gestito / propter amorem uostrum. Su tutto il passo cfr. Aragosti (2003), pp. 140-141. Piccato

dall’insulto, Palinurus risponde adeguatamente. Propudium: sembra collegarsi etimologicamente a pudor e indica qualcuno o qualcosa di turpe e spregevole; cfr. W-H II p. 381 s.u. pudet; E-M p. 571 s.u. repudium; Vaan (2008), p. 496 s.u. pudeo; ThlL 10.2. 2134.64 - 2135.16 s.u. propudium. In Plauto, oltre che nel nostro passo, si trova in Bacch. 579 e Poen. 273. Quest’ultima testimonianza, ancora una volta nella scena citata poc’anzi e in Curc. 166-169, è assai vicina a quella del nostro passo, giacché Milphio, commentando tra sé la precedente battuta di Adelphasium, in cui la donna ha spregiato i servitori e le prostitute che a loro si accompagnano, la insulta chiamandola propudium e utilizzando una costruzione sintattica del tutto simile a quella del Curc.: I in malam crucem. Tun audes etiam seruos spernere / propudium?; cfr. Traina (1960), pp. 226-227. In Curc. e Poen. l’insulto non sembra affatto casuale poiché rivolto proprio a una meretrice, per sua stessa natura priva di qualsiasi forma di pudore. Dopo Plauto, il termine compare per sette volte cui si aggiungono le attestazioni in Festo e Paolo Festo dove già s’individua l’origine da pudor (Paul. Fest. 253.25-26 L; 257.5-6 L già in Fest. 256. 8-9 L). Degna di nota è la testimonianza di Cic. Phil. 14.8 dove L. Antonius prima è definito propudium poi

odium, sebbene la struttura del periodo e il suo stesso contesto non sembrano

autorizzare a credere che Cicerone si sia rifatto al passo del Curc.: quaeque esset

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reppulisset, declarauit in Parmensium calamitate, quos optimos uiros honestissimosque homines, maxime cum auctoritate huius ordinis populique Romani dignitate coniunctos, crudelissimis exemplis interemit

propudium illud et

portentum, L. Antonius, insigne

odium

omnium hominum uel, si etiam di oderunt quos oportet, deorum. Non pago del pesante improperio, Palinurus ne rincara la

forza attribuendo alla donna occhi di civetta. Noctuinis oculis: l’espressione ha generato un dibattito tra A. Traina e V. Tandoi. Traina (1960), pp. 224-227, sostiene che la civetta è citata quale uccello notturno i cui grandi occhi stanno spalancati per tutta la notte. Lo studioso polemizza con la tesi di Turnèbe (1581) pp. 1033-1034 cui preferisce l’esegesi di Merklin (1862) pp. XI-XII. Secondo Turnèbe, gli occhi di civetta sarebbero attribuiti spregiativamente a Planesium perché glauci, chiari, poco graditi ai Romani (tra i passi che testimoniano quest’avversione cfr. e. g. Ter. Haut. 1062). Merklin invece pensa che come Palinurus accusi Planesium di essere responsabile del prolungato incontro notturno, così le attribuisca occhi adatti alla notte. Tali occhi sono di civetta giacché questa vive di notte. Traina arricchisce l’ipotesi di Merklin, osservando che poiché la donna accusa il seruus di essere una seccatura (odium) questi, affinché il gioco regga, deve usare anch’egli un insulto di tipo morale e non uno di carattere fisico. L’uomo sosterrebbe quindi che è Planesium la vera seccatura giacché con la sua presenza lo costringe a una veglia lunga e snervante. Replicando a Traina, Tandoi (1961), pp. 219-241 fa un’obiezione di principio, notando che in una lite non necessariamente debbano contrapporsi improperi del medesimo tipo e sostiene che l’impossibilità di dormire lamentata da Palinurus emerga solo alla fine della scena. Sebbene ammetta che la metafora della civetta come donna ammaliatrice sia rinascimentale, ricorda come per gli antichi quest’uccello fosse capace di attirare magicamente gli altri (cfr. e. g. Arist. Hist. An. 609a; Aelian. Soph. Nat. An. 1.29). Riprende l’ipotesi accennata da Paratore (1958), p. 8 n. 1 secondo cui i noctuini oculi sarebbero tali perché di una meretrix, ammaliatrice per eccellenza. Plauto avrebbe creato un nuovo tipo d’insulto, anticipatore in qualche misura, dell’espressione italiana “essere una civetta”, detto di donna sempre pronta ad attirare gli sguardi altrui. Traina (1972), pp. 349-355, risponde a Tandoi, ribadendo l’assenza di fonti antiche sulla metafora della civetta

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per la donna ammaliatrice. Nota inoltre che l’essere seccante è un modo di comportarsi che nulla ha a che fare con i tratti fisici e precisa che l’impossibilità di Palinurus di dormire non è un elemento accessorio, ma compare fin dal v. 181. La soluzione più soddisfacente sembra essere quella di Traina, giacché il tema della forzata veglia del seruus non appare per nulla secondario. Non solo esso risale al v. 181, quando Palinurus chiede a Phaedromus se abbia intenzione di vegliare tutta la notte, ma trova poi conferma al v. 196, dove il seruus si rivolge alla fanciulla chiamandola Venus noctuuigila; cfr. Traina (1960), p. 127. Ciò che dell’ipotesi di Traina non appare accettabile è la teoria secondo cui a un insulto morale ne vada contrapposto uno della medesima natura. Nella comune prassi delle liti infatti, si ritrovano spesso improperi di carattere differente né manca l’allusione a tratti fisici brutti. Non si può quindi escludere che gli occhi di Planesium siano sgraditi a Palinurus anche sul piano fisico. Un’altra spiegazione possibile, senza per altro che si escluda quella di Traina, è che gli occhi di civetta costituiscano un insulto perché appartenenti a un uccello portatore di sventure. La metafora della civetta vorrebbe quindi evidenziare non il carattere ammaliatore della donna quanto piuttosto l’impatto devastante che questa può avere sulla vita e sulla reputazione del giovane. Affinché una tale ipotesi possa essere considerata valida tuttavia, sarebbe necessario conoscere la reputazione di cui godeva la civetta ai tempi di Plauto. In generale, si tratta di un uccello dai tratti piuttosto ambigui. Mentre, infatti, se ne considerava propizio il volo, il canto o il suo posarsi erano ritenuti sicuro segnale di morte; per il canto cfr. Prop. 4.3.59, su cui cfr. Hutchinson (2006) p. 113 v. 59; per il posarsi cfr. Aelian. Soph. Nat. An. 10.37. Non sembra ci siano riferimenti negativi agli occhi, ma ciò non esclude che nel passo del Curc. si alluda al valore funesto dell’animale attraverso un indiretto richiamo tra il posarsi dell’uccello e il permanente stazionare di Planesium; per il valore della civetta cfr. Kiessling (1907) in RE VI s.u. Eule, pp. 1069-1070. Più concretamente infine, non può escludersi che l’allusione agli occhi faccia riferimento al particolare make-up della donna, secondo quanto suggerito succintamente da Wright nel suo commento al dramma. Se presente, tale allusione non farebbe altro che arricchire la battuta, giacché non esclude né la teoria di Traina né quella della civetta quale animale funesto; cfr. però cfr. Duckworth (19942) pp. 92-94, sul problema della maschere in Plauto. Ebriola persolla, nugae: ebriolus,

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diminutivo da ebrius, è termine esclusivamente plautino giacché presente solo in

Curc. 192 e 294, dove si riferisce ai Graeci palliati. Persolla, hapax assoluto, è

inteso comunemente quale diminutivo di persona, allo stesso modo in cui corolla, per esempio, lo è di corona; cfr. Leumann (19775), p. 306. Nugae ha un etimo tuttora incerto. Vaan (2008), p. 418 s. u. nugae sostiene una qualche connessione con nux, giustificando la diversa quantità di u (nūgae - nŭcis) e le velari differenti (g-k) quale possibile spia di un prestito da un’altra lingua. Riferito ancora a Planesium, nugae compare anche in Curc. 199. Per casi simili dopo Plauto, in cui il termine designa qualcuno di poco conto, cfr. Cic. ad Q. fr. 1.2.4 e Att. 6.3.5, dove il contesto però non è quello dell’insulto ma della mera valutazione. Tutti gli editori, con l’esclusione di Ussing, di Goetz nella seconda edizione di Ritschl e di Leo, considerano il tradito

ebriola, con -lă in locus Jacobsohnianus, attributo di persolla. Ussing emenda ebriola in ebriolae e a persolla di B3 preferisce persollae, basato su persole /

persolle / persolȩ rispettivamente in B1,V, E, K, Osb (persole); B2 (persolle) e J (persolȩ). La sequenza ebriolae persollae è quindi considerata genitivo retto da

nugae. Sulla scorta di Gloss. V Ps.-Plac. P 4 L, dove si legge persol<l>as, Goetz

corregge ebriola in ebriola’s trasformando l’aggettivo in una parte nominale riferita a persolla (ebriola’s persolla, nugae). Whatmough (1922), p. 166 appoggia questa correzione, osservando che evidentemente nel testo posseduto da pseudo Placido doveva esserci la sequenza ebriolas persollas, trascrizione erronea per ebriolas (=

ebriola’s) persolla. Leo che conserva ebriola, sceglie persollae e pensa sia genitivo

retto da nugae (ebriola, persollae nugae). Le ipotesi di Ussing e Goetz eliminano il

locus Jacobsohnianus ma sembrano entrambe poco convincenti. La prima pare

scontrarsi con l’impiego usuale del termine nugae, utilizzato in maniera assoluta o al massimo accompagnato da un aggettivo. Il secondo sembra far perdere d’incisività alla battuta proprio a causa dell’introduzione del verbo essere. Contro la tesi di Leo infine, può essere mossa la stessa obiezione avanzata per Ussing con l’aggravante

Nel documento Un Commento al Curculio di Plauto (vv.1-370) (pagine 149-200)

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