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•FASE 0 Rilevazione

3. Piano di zona e complessità sociale

fragilità familiari e a qualificare il benessere degli adolescenti. La finalità di questo tipo di approccio analitico è stata riuscire a derivare alcuni elementi di riflessione utili a completare il quadro d’insieme disegnato per le città riservatarie, per offrire una visione “comparativa” di ampio respiro sul territorio nazionale.

La ricerca documentale svolta ha incontrato alcuni limiti; qui se ne ricordano alcuni. In primis, com’è intuibile, ciò che si trova scritto nei documenti di piano esaminati rischia molte volte di restare una dichiarazione di intenti sul disegno politico per l’infanzia e l’adolescenza elaborato nelle singole realtà locali e territoriali: per verificare l’effettiva corrispondenza fra questo disegno e la realtà sociale intesa in senso empirico, e soprattutto per valutare l’impatto di determinate scelte di programmazione sulla qualità della vita dei bambini e degli adolescenti, sarebbe necessario realizzare un’indagine sul campo, che forse potrebbe agevolare anche la ricostruzione puntuale dei meccanismi di

governance locale e territoriale. Di conseguenza, tutti gli aspetti

relativi al contesto sociale cittadino o regionale che vengono di seguito richiamati sono stati estrapolati dai documenti (cioè non sono stati rilevati empiricamente).

Un secondo limite riguarda l’eterogeneità dei documenti esaminati che, oltre a presentare una sostanziale difformità di linguaggio espressivo e un grado di dettaglio descrittivo disuguale, risultano molto diversi per la presenza o assenza di alcuni aspetti essenziali, come ad esempio l’impianto valoriale posto alla base della policy, i bisogni e i problemi considerati rilevanti nella città, gli obiettivi da perseguire connessi alle priorità individuate, le risorse disponibili e attivate, gli ambiti di intervento privilegiati, i servizi erogati e le relative modalità gestionali, ecc. Un terzo limite, riferito soprattutto ai piani zonali, concerne la scarsità (che si accompagna sovente alla ristrettezza della portata informativa) delle statistiche specificamente rivolte all’infanzia e all’adolescenza presenti in ciascun piano (es. saldi demografici, tassi di fecondità o di natalità, spesa annuale per le strutture residenziali che accolgono i minori oppure per l’assistenza scolastica agli alunni con disabilità o ancora per i servizi erogati dai consultori in favore degli adolescenti, ecc.), e dunque la conseguente impossibilità di comparare le poche cifre disponibili.

A più di dieci anni dalla sua introduzione, le valutazioni sull’utilità e l’efficacia del piano di zona hanno generato prese di posizione diverse sulle potenzialità e le difficoltà operative

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attribuibili a tale strumento: da una parte ci sono coloro che stentano a concepire il piano di zona come uno strumento adatto alla gestione e alla qualificazione della rete di servizi alla persona e lo considerano piuttosto come uno strumento astratto deputato ad assolvere una funzione di marketing sociale; dall’altra parte, occorre riconoscere che il piano di zona si è rivelato, in molti contesti territoriali, un’opportunità concreta per fare emergere ed esprimere le “virtualità” sociali della comunità locale in termini di gestione coordinata ed efficace della rete di servizi (Cavazza, Bursi, 2010).

Il piano di zona come strumento della programmazione locale dei servizi ha segnato un’esperienza importante, non soltanto perché si è diffuso concretamente su tutto il territorio nazionale permeando le pratiche di governance locale, bensì perché è riuscito gradualmente a “educare” amministratori, produttori e operatori di servizi, esponenti del terzo settore, ecc. a dare concreta attuazione alle politiche sociali delle città, cercando di migliorare la qualificazione dell’offerta dei servizi sociali, a partire da quelli rivolti alle famiglie, agli adolescenti e ai bambini.

Questi traguardi sono ancora più significativi se si ricorda che, al tempo dell’approvazione della L. 328, si paventava un rischio ideologico riferito all’uso del piano di zona, che nel corso del tempo avrebbe potuto rivelarsi solo un “involucro” ben confezionato, cioè uno strumento simbolico, sostanzialmente incapace di modificare in modo efficace l’attività dei singoli comuni (De Ambrogio, 2008).

Il piano di zona ha offerto altresì a ciascun comune l’opportunità di “guardarsi con occhi diversi” e di percepirsi come un “elemento vivo” di un sistema sociale e territoriale più ampio, soprattutto in quei contesti dove l’ente comunale ha assunto la regia del processo di costruzione del piano; in tal senso, ogni comune ha dovuto imparare a oltrepassare le “resistenze politiche” connaturate al proprio ruolo istituzionale inteso in senso tradizionale e a orientarsi verso percorsi di apertura e di integrazione territoriale, resi visibili da accordi di programma, convenzioni, protocolli di intesa, oppure da esperienze di gestione associata. In quelle realtà dove il processo di implementazione è stato più lento e difficoltoso, l’avvento del piano di zona ha comunque avuto il pregio di dare avvio a un processo di costruzione di regole e assetti organizzativi prima sconosciuti alle politiche sociali di quei territori (Bifulco, Cementeri, 2007).

Resta comunque critico l’elemento della temporalità: generalmente un piano di zona copre un arco temporale di tre

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anni, ma ci sono esperienze diverse; inoltre la durata di un piano di zona deve contemperare esigenze apparentemente contraddittorie: da un lato, la rapidità che caratterizza il cambiamento dei bisogni, l’innovazione dei servizi, l’accesso alle risorse disponibili e il loro impiego in una progettazione prospettica; dall’altro, la complessità delle dinamiche partecipative, che richiedono invece tempi lunghi. Attualmente il welfare è scosso da una rilevante crisi di risorse e questa situazione di preoccupante contrazione non sembra avere un termine breve: bisognerà capire se il piano di zona potrà continuare a essere impiegato per creare “reti” fra gli attori locali senza dipendere dal volume delle risorse pubbliche disponibili e, soprattutto, a quali “condizioni minime” potrà mantenere effetti positivi per la comunità con riferimento alla fase di impostazione e di attuazione. Per ogni attore (pubblico o privato) chiamato in gioco nel processo di governance locale diventerà più pressante l’esigenza di autodefinire il proprio ruolo nella rete dei servizi cittadini e soprattutto di esplicitare agli altri soggetti coinvolti nella dinamica di costruzione del piano di zona la propria “capacità di tenuta” autonoma, che fa leva sull’abilità di gestione, consolidamento e affinamento delle proprie risorse (d’altronde, questa è una delle logiche radicali del welfare mix).

Potrebbe accadere che la scarsità delle risorse pubbliche

amplifichi il rischio di un “ripiegamento depressivo”9 della

virtuosità dei soggetti coinvolti nel processo di elaborazione del piano di zona di una città, e di conseguenza lo strumento si svuoterebbe di significato, finendo con l’essere interpretato come un mero adempimento.

In ogni caso, è altamente plausibile che nel prossimo futuro la programmazione delle politiche locali, e dunque l’annesso lavoro di rete sul territorio, trovi un complemento sempre più sinergico nella gestione di risorse, figure professionali, forme di comunicazione, eventi, ecc. e, di conseguenza, i coordinatori delle attività di consultazione, co-progettazione e concertazione dovranno mostrarsi sensibili alle sfide dell’innovazione. 9 Fra i principali ostacoli alla realizzazione dei piani di zona va ricordato il rischio di appiattimento della programmazione sulla possibilità di accesso al finanziamento del Fnps; quest’ultimo avrebbe dovuto essere un incentivo finanziario in grado di sollecitare un lavoro di rete anche su risorse autonome degli attori locali, mentre in alcune realtà il piano di zona ha praticamente coinciso con il riparto del fondo. Quando gli attori sociali non hanno consapevolezza del fatto che la programmazione è un’attività strumentale al miglioramento del welfare locale e sono invece convinti che sia funzionale all’accesso ai fondi, si hanno delle ricadute negative sia sull’elaborazione della programmazione sia sulla qualificazione delle politiche sociali.

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Probabilmente faranno la differenza quegli attori che si mostreranno capaci di produrre valore riconoscibile per gli enti e i cittadini e che sapranno conquistarsi la propria legittimazione attraverso la capacità di dare “risposte aggregate” visibilmente migliori di quelle che singoli enti potrebbero produrre.

Uno dei concetti costitutivi del piano di zona come strumento di programmazione delle politiche locali è la governance, che rimanda al dispiegamento di un articolato processo sociale di costruzione collettiva del welfare cittadino, basato sul comune interesse a collaborare alla realizzazione di una rete unitaria e coordinata di interventi e di servizi per la sostenibilità sociale e la crescita della comunità. La governance mira ad armonizzare la visione, la progettualità, le risorse umane ed economiche, pensando non solo a fare economie di scala, ma a costruire una rete, una gamma di offerte e di servizi più vasta, cercando al contempo di rispettare le caratteristiche locali e i bisogni dei singoli ambiti comunali dove i servizi vengono erogati.

Tuttavia la collaborazione e la partecipazione dei diversi soggetti della società civile alla programmazione sociale nelle singole città non è automatica né risulta di immediata realizzazione; al contrario si tratta di un’attiva lunga e impegnativa, che richiede il coordinamento di reti che comprendono esponenti della sfera pubblica e privata e, a livello micro, l’integrazione di diversi punti di vista, valori, interessi ecc. I luoghi dove principalmente possono essere sperimentate queste forme di coinvolgimento della società civile nella programmazione di zona sono i tavoli tematici. Chi partecipa alla pianificazione zonale attraverso i tavoli tematici è, dunque, parte in causa nella scelta degli orientamenti e delle priorità per la costruzione delle politiche locali più adeguate ai bisogni sociali del contesto di appartenenza. Tuttavia può accadere che la partecipazione dei cittadini, degli esponenti del terzo settore e delle diverse realtà istituzionali (aziende sanitarie, scuole, centri per l’impiego, centri per la giustizia minorile, ecc.) ai tavoli tematici manifesti difficoltà sia di carattere operativo che di contenuto. Infatti può accadere, ad esempio, che soprattutto nelle realtà metropolitane ad alta concentrazione di popolazione si assista alla moltiplicazione incontrollata di tavoli tematici, tavoli di rappresentanza e tavoli di concertazione.

Un altro aspetto critico è determinato dalla presenza sistematica ai tavoli dei medesimi attori sociali che rischia di impoverire la riflessione collettiva sulla progettualità. Inoltre alcuni attori sociali potrebbero avere una visione distorta del ruolo

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da svolgere al tavolo tematico, a causa dell’enfasi sovente posta sulla partecipazione come forma di rappresentanza e di garanzia di una “democrazia diretta”; fra l’altro, le aspettative riposte nei confronti dei partecipanti a un tavolo tematico sono raramente esplicitate e quasi mai contrattate. Invece sarebbe opportuno chiarire fin dal principio che un tavolo tematico non è un’assemblea di cittadinanza né un ciclo di conferenze né un luogo di rappresentanza del terzo settore, bensì una dimensione sociale dove persone sensibili, preparate, competenti, responsabili e disponibili si incontrano per offrire il proprio contributo alla programmazione zonale. Per essere produttivo un tavolo tematico necessita, dunque, di persone qualificate che scelgono di prendervi parte assumendosi un preciso impegno di presenza continuativa e attiva; fra l’altro, sarebbe opportuno incoraggiare l’uso di materiali di studio e di approfondimento per lasciare una traccia controllabile del percorso intrapreso e del lavoro svolto. In tutti i casi, non è escluso che possano esserci interessi particolaristici che influenzano la scelta di determinati soggetti di partecipare ai tavoli della governance locale e finiscano col favorire la presenza di gruppi più forti e strutturati (Avanzini, De Ambrogio, 2010).

Non gestita adeguatamente, la partecipazione ai tavoli tematici rischia di essere appiattita sul mero recepimento di informazioni da parte degli attori, che invece dovrebbero essere sollecitati ad aprirsi al confronto per rendere possibile il riconoscimento della loro specifica funzione, la circolazione di idee, la condivisione di esperienze, conoscenze e di dati aggiornati in grado di produrre cambiamenti e tradursi, quindi, in innovazione utile a risolvere i problemi sociali presenti sul territorio. Un ulteriore elemento critico da considerare riguarda il condizionamento che il sistema dei servizi offerti negli anni passati in una determinata realtà sociale può esercitare sui meccanismi di governance: quanto più i servizi sociali da riconvertire sono stati caratterizzati da un elevato investimento economico e da un elevato grado di complessità organizzativa, tanto più risulterà complicato e lungo il processo di riadattamento.

Poste queste brevi considerazioni, qui di seguito si presenta una panoramica - che non è esaustiva né va considerata tale - delle principali componenti che hanno contribuito a sostanziare le politiche sociali per le famiglie fragili e gli adolescenti nei piani di zona delle città riservatarie. Viene poi interrelata a questa panoramica un’analisi delle principali dimensioni analitiche che nei piani regionali passati in rassegna sono riferite ai due ambiti di approfondimento scelti.

122 4. Infanzia, 285 e politiche locali a confronto 4. Piani di zona e fragilità familiari: segnali di sofferenza e priorità di intervento

In modo specifico, nel paragrafo seguente si è cercato di mettere in luce alcuni segnali di sofferenza delle famiglie e le priorità di intervento pensate per loro - temi peraltro già segnalati nella precedente Relazione al Parlamento 2010, che aveva considerato come un punto focale d’attenzione l’importanza degli attributi di adeguatezza materiale, serenità affettiva, tranquillità relazionale e benessere culturale di un contesto familiare per garantire l’appagamento dei bisogni evolutivi di ogni bambino (requisito basilare per lo sviluppo di personalità compiute). L’analisi condotta ha trovato fondamento anche nella consapevolezza che l’acquisizione di elementi di conoscenza riferiti al principale contesto di crescita e di sviluppo dell’infanzia, la famiglia, sono fondamentali per costruire un sistema di welfare che riconosca e promuova realmente i diritti specifici e inalienabili dei bambini e dei ragazzi.

Nel Piano di zona (2009-2012) della città di Bari la famiglia è considerata un elemento centrale per lo sviluppo della comunità locale, una risorsa viva per costruire delle politiche sociali adeguate ai minori. Localmente si rilevano numerose emergenze attinenti alla povertà materiale e alla solitudine relazionale delle famiglie. Il fulcro delle strategie adottate per le famiglie fragili è rappresentato dalla ricerca di un’efficace sintesi fra il sostegno alle responsabilità genitoriali, la valorizzazione delle reti sociali (informali e formali), l’appropriazione e la differenziazione delle risposte ai bisogni, il potenziamento e la riqualificazione dei servizi socioeducativi e ricreativi - da distribuire in modo omogeneo sul territorio. Gli interventi specifici pianificati per fornire un sostegno adeguato alle fragilità familiari sono vari: l’erogazione di contributi economici a sostegno delle nuove nascite; l’incremento dell’offerta pubblica di asili nido e l’erogazione di buoni o assegni (carnet) validi per l’acquisto diretto e autonomo del servizio di asilo nido presso strutture private; la concessione di sussidi per ragazze madri e l’attivazione di interventi sperimentali di inclusione lavorativa per le donne vittime di violenza; l’istituzione di tirocini formativi per minori a rischio; il rafforzamento del servizio domiciliare ai minori e alle loro famiglie e il potenziamento dei centri socioeducativi diurni; la creazione di un centro anti-violenza di prima accoglienza e di una casa rifugio per donne e minori vittime di maltrattamento/abusi.

Particolare rilievo è dato ai servizi domiciliari che garantiscono un mirato intervento di sostegno educativo per l’accrescimento

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delle competenze genitoriali e il miglioramento della relazione genitore-figlio e che sono finalizzati a prevenire eventuali forme di istituzionalizzazione dei minori. Nelle circoscrizioni cittadine sono stati istituiti vari centri polifunzionali per servizi integrati che raccordano fra loro in modo funzionale i centri aperti polivalenti per minori e i centri di ascolto per le famiglie. L’affido familiare è considerato uno degli strumenti utili per il rilancio delle politiche sociali per le famiglie fragili, al pari del rafforzamento degli interventi per i senza fissa dimora. Tali attività si sono sviluppate attraverso degli accordi con il volontariato organizzato (Caritas).

Nel Piano di zona per la salute e il benessere sociale (2009- 2011) della città di Bologna le politiche per le famiglie fragili sono considerate intrecciate alle questioni abitative, sanitarie, educative e del lavoro; si adotta, dunque, un approccio olistico: tendere a una programmazione concertata e ottimizzata a fronte di risorse decrescenti. I segnali di sofferenza delle famiglie fragili con figli minori toccano diverse sfere: l’impoverimento (aggravato dalla crisi economica), l’inaspettata perdita del lavoro, l’aumento dei nuclei monogenitoriali, le reti sociali che faticano sempre più a svolgere funzioni di sostegno. Per i nuclei immigrati tali difficoltà rappresentano ulteriori ostacoli nei percorsi di integrazione sociale. Sono in aumento le donne sole con figli minori, spesso immigrate, considerate fra i soggetti a maggiore fragilità, cioè esposte ad altissimi rischi di esclusione; frequentemente la loro condizione di disagio sociale si riflette sulla stabilità genitoriale. Spicca l’esigenza di facilitare l’accesso alla casa per le giovani coppie e la necessità di garantire loro il diritto al lavoro, come condizione primaria del benessere delle famiglie - tema peraltro al centro degli interessi di ricerca della Consulta delle associazioni familiari e dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia e strettamente connesso alla predisposizione concreta alla maternità di molte donne.

Il ruolo delle famiglie fragili è sostenuto attraverso una molteplicità di strumenti: servizi mirati, contributi economici, informazione, orientamento e accompagnamento delle famiglie e promozione di esperienze di aggregazione. È attribuita priorità al sostegno al reddito (per i nuclei monogenitoriali, le famiglie numerose o le famiglie con problematiche abitative). Nella logica della promozione dell’autonomia dei nuclei familiari e dello sviluppo delle azioni volte a conciliare i tempi di cura e di lavoro sono previsti anche sussidi economici, come ad esempio il “voucher conciliativo”, accanto ad altre forme di supporto che consentono l’accesso e il mantenimento del lavoro (es. la sperimentazione del “micro-credito” o il consolidamento dei “prestiti d’onore” che

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consistono in prestiti, senza interessi, concessi a famiglie che si trovano in condizione di difficoltà economica temporanea). Nel documento di piano sono valorizzate anche le azioni promosse dal Centro per le famiglie. È altresì rilevato il bisogno di potenziare lo sviluppo dei servizi educativi, in particolare per la prima infanzia, in quanto in città si registra un aumento della popolazione 0-3 e una richiesta di servizi più flessibili e di qualità superiore; inoltre si impone la necessità di diffondere occasioni di confronto e formazione per i genitori, ad esempio attraverso l’offerta di consulenze, soprattutto in ambito educativo e sanitario. Appare interessante l’attivazione delle cosiddette “forme di sollievo settimanale” per famiglie con figli in grave disagio, volte a evitare le rotture del nucleo familiare e il conseguente inserimento del minore in strutture.

Nel Piano sociale di zona (2010-2012) della città di Brindisi le famiglie si mostrano esposte a vari fattori critici: la fragilità personale di alcuni membri per patologia o disturbi nel comportamento, la disoccupazione, la sottoccupazione, il sovraccarico di impegni familiari proprio delle famiglie monoparentali, le precarie condizioni abitative spesso a costi insostenibili, la mancanza di reti di sostegno familiare. Le aree di edilizia popolare, con la loro popolazione piuttosto problematica, continuano a rappresentare la realtà cittadina dove si concentra il maggior numero di interventi per i minori e la famiglia. Vi sono situazioni problematiche di famiglie con bimbi piccoli in carico ai centri sociali territorialmente competenti dai quali parte la richiesta di ammissione al nido dei bambini: l’inserimento al nido per questi piccoli ha una forte valenza preventiva sul piano sociale ed educativo, sul piano del loro benessere e dello sviluppo psicofisico. Fra le azioni che caratterizzano le politiche locali si segnalano il sostegno economico ai nuclei familiari a forte fragilità sociale e alle madri sole con figli e il supporto alle donne in stato di gravidanza con reddito precario e alle famiglie indigenti nei primi anni di vita dei figli.

Il Piano sociale di zona (2010-2012) della città di Cagliari riconosce come criticità familiari semi-consolidate: la fragilità del ruolo genitoriale; la vacanza del ruolo maschile all’interno della famiglia, cui fa da contrappeso l’assolvimento di gran parte delle funzioni da parte della figura femminile; il crescente numero di famiglie con doppio o triplo carico; la difficoltà di accesso delle famiglie alle iniziative culturali; le problematiche relative alla ricerca della casa; la carenza sul territorio di servizi utili a favorire la conciliazione fra i bisogni di cura espressi dalle famiglie e i tempi

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necessari agli impegni di lavoro. Fra le problematiche connesse alla sfera “donne con figli” sono degne di nota: l’insufficienza dei posti disponibili negli asili nido; la mancanza di flessibilità negli orari scolastici; la difficoltà a trovare soluzioni alternative nei periodi di chiusura delle scuole; la scarsa tempestività e l’insufficienza dei