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PIATTAFORMA CONTINENTALE ITALIANA

Nel documento IL MARE (pagine 48-51)

Introduzione della Prof.ssa Ida Caracciolo

Ordinario di diritto internazionale nella Seconda Università degli Studi di Napoli

L’estrazione sistemica e su scala industriale degli idrocarburi dai fondali marini vanta una storia oramai quarantennale. E’infatti negli anni ’70 che vengono avviate le prime perforazioni petrolifere in mare, sotto la spinta, da un canto, degli Stati occidentali, interessati a ridurre la propria dipendenza energetica dal Golfo Persico e, dall’altro, dello sviluppo tecnologico. Se all’inizio la perforazione era fattibile solo in siti profondi non più di 200 m., già all’inizio degli anni ’80 era stata raggiunta la ben maggiore profondità di 1.500 m. e circa 200 giacimenti erano stati scoperti un po’ovunque in oceani e mari.

Da allora molta strada è stata percorsa se si pensa che oggi le strutture offshore possono raggiungere una profondità anche di 3.600 m. e che per lo meno un terzo del petrolio consumato nel mondo proviene da giacimenti offshore. E ancora molta strada sarà percorsa in futuro, considerato il potenziale di petrolio e gas naturale racchiuso nel sottosuolo marino e gli ipotizzabili ulteriori progressi della tecnologia estrattiva offshore. Si stima d’altronde che l’intero bacino sottomarino del terziario inferiore contenga un totale di circa 15 milioni di barili di petrolio.

Se, alla luce di quanto sopra, l’estrazione di petrolio e di gas naturale in mare è destinata ad incrementarsi quantitativamente e a interessare fondali marini progressivamente più profondi, diventa necessario che essa avvenga secondo tecniche e metodi che garantiscano gli altri usi del mare e soprattutto la tutela dell’ambiente marino. E’infatti ben noto che l’industria degli idrocarburi offshore ha un forte impatto sull’ecosistema marino e presenta rischi maggiori di inquinamento rispetto all’attività estrattiva in terraferma. Tale impatto è fortemente variabile a seconda del tipo di attività, delle sue dimensioni, della collocazione degli impianti e delle caratteristiche dell’ambiente circostante.

Questa esigenza di favorire lo sviluppo dell’industria estrattiva offshore senza assolutamente trascurare le esigenze ambientali, in un ottica di sviluppo sostenibile, è da tempo condivisa dalla gran parte degli Stati che hanno regolamentato non solo a livello nazionale, ma anche internazionale, le attività di esplorazione e sfruttamento degli idrocarburi in mare. Anzi, rispetto a queste attività si è avuto un progressivo spostamento della funzione regolamentare dal piano nazionale a quello internazionale. Ciò dipende dalla necessità di una disciplina uniforme, che meglio possa prevenire e contrastare l’inquinamento marino, solitamente a portata transfrontaliera, e che pertanto meglio possa favorire la necessaria cooperazione interstatale.

E’la stessa Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, che declina in termini giuridici obiettivi e metodi per la protezione dell’ambiente marino, incluso quello da ricerca ed esplorazione mineraria e di idrocarburi in mare, imponendo agli Stati obblighi sostanziali e procedurali rispetto all’inquinamento marino da attività offshore.

In particolare, agli Stati viene richiesta una duplice azione: a livello interno e a livello internazionale. A livello interno essi devono adottare leggi, regolamenti e misure amministrative al fine della prevenzione, riduzione e controllo dell’inquinamento marino derivante, direttamente o indirettamente, da attività condotte sui fondali marini o da installazioni artificiali e altre strutture analoghe sottoposte alla loro giurisdizione funzionale. Queste norme e queste misure non devono essere meno efficaci delle regole internazionali o delle pratiche e procedure raccomandate a livello internazionale. Quindi, la normativa interna è destinata a essere più stringente via via che la disciplina internazionale convenzionale viene a fissare standard di protezione più elevati. La normativa interna può comunque sempre stabilire standard superiori a quelli internazionali. A livello internazionale, agli Stati viene chiesto di armonizzare le loro rispettive politiche attraverso la conclusione di accordi universali o regionali, o la definizione di pratiche e procedure raccomandate, per prevenire ridurre e controllare l’inquinamento marino derivante da attività di ricerca ed esplorazione mineraria e di idrocarburi offshore. A quest’ultimo riguardo, mentre sul piano mondiale non si è riusciti ancora a predisporre una normativa uniforme sulla prevenzione e reazione all’inquinamento causato dall’industria estrattiva offshore, né in un’ottica globale, né con un focus su taluni specifici aspetti (ad es. quelli risarcitori), invece, a livello regionale, gli obblighi de contrahendo di cui alla Convenzione del 1982 hanno trovato attuazione, per quanto “a macchia di leopardo”.

In questo contesto, è paradigmatico il caso del mare Mediterraneo, per l’impegno profuso da tutti i suoi Stati costieri nella cooperazione per la difesa dell’ecosistema marino e costiero, che ha portato ad una disciplina di protezione ambientale particolarmente articolata. Essa si sviluppa a due livelli: da un canto, il sistema convenzionale della Convenzione di Barcellona del 1976, poi modificata nel 1995, e dei

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suoi numerosi protocolli settoriali, tra cui il quinto Protocollo per la protezione del mare Mediterraneo dall’inquinamento causato dall’esplorazione e dallo sfruttamento della piattaforma continentale e del fondo e sottosuolo marini del 1994. E, dall’altro, nel diritto derivato dell’Unione europea, vincolante ovviamente solo gli Stati membri dell’Unione, ma non privo di impatto politico sugli Stati costieri del bacino del Mediterraneo non comunitari.

Di talché all’industria estrattiva offshore attiva negli spazi marini mediterranei degli Stati membri dell’Unione europea trovano applicazione sia la disciplina di cui al sistema della Convenzione di Barcellona e dei collegati protocolli, sia l’intero acquis comunitario in materia ambientale e le diverse misure normative ad hoc, tra cui spicca la direttiva 2013/30/UE sulla sicurezza delle operazioni in mare nel settore degli idrocarburi. Nello specifico, ne discende un livello di tutela molto alto perché, mentre il Protocollo del 1994 copre l’inquinamento operazionale, ossia quello che deriva dal normale funzionamento delle strutture offshore - che per quanto non eclatante è comunque dannoso per l’ambiente - la direttiva 2013/30/UE concerne quell’inquinamento accidentale causato da gravi incidenti che si possono verificare durante le attività esplorative ed estrattive di idrocarburi, affrontando il tema dei grandi rischi rispetto alla sicurezza del processo, al contenimento sicuro degli idrocarburi, all’integrità strutturale, alla prevenzione di incendi ed esplosioni, all’evacuazione e soccorso nonché rispetto alla limitazione dell’impatto ambientale a seguito di un incidente grave.

La sfida - parafrasando la Commissione europea - della sicurezza delle attività offshore nel settore degli idrocarburi, sviluppando la “cultura” della sicurezza delle trivellazioni in mare e rafforzando i livelli di prevenzione, attraverso meccanismi di controllo, maggiore trasparenza, migliore vigilanza pubblica e l’elaborazione di normative nazionali ad hoc per l’industria petrolifera in mare vede impegnata in prima linea l’Italia. E la centralità di questa sfida è evidenziata proprio nel presente numero del Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello sviluppo economico che dedica largo spazio al panorama mondiale ed europeo nella sicurezza delle attività offshore e nella tutela dell’ambiente marino e, soprattutto, alla citata direttiva 2013/30/UE.

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DEFINIZIONI E NORMATIVA

Delimitazioni della piattaforma continentale italiana

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PIATTAFORMA CONTINENTALE E PIATTAFORMA CONTINENTALE ITALIANA

La piattaforma continentale di uno stato costiero, secondo i principi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, comprende il fondo e il sottosuolo delle aree sottomarine che si estendono al di là del proprio mare territoriale attraverso il prolungamento naturale del suo territorio terrestre fino all'orlo esterno del margine continentale, o fino a una distanza di 200 miglia marine dalle linee di base. Il limite esterno della piattaforma continentale non supera comunque la distanza di 350 miglia dalle linee di base. Lo stato costiero esercita sulla piattaforma continentale diritti sovrani allo scopo di esplorarla e sfruttarne le risorse naturali, nessun altro può intraprendere tali attività senza il suo espresso consenso. Per risorse naturali si intendono le risorse minerali e altre risorse non viventi del fondo marino e del sottosuolo. La delimitazione della piattaforma continentale tra stati a coste opposte o adiacenti viene stabilita per accordo sulla base del diritto internazionale.

I principi adottati dall'Italia per la regolamentazione della ricerca ed estrazione degli idrocarburi nella propria piattaforma continentale sono contenuti nella Legge 21 luglio 1967, n. 613, che disciplina le condizioni per il rilascio dei permessi di ricerca in armonia con le relative disposizioni della IV Convenzione di Ginevra del 1958. Successivamente, con Legge 2 dicembre 1994, n. 689, è stata data ratifica ed esecuzione alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982.

La definizione di piattaforma continentale, data in origine dall'articolo 1 della Legge 613/1967, è stata quindi sostituita dalla definizione data dall'articolo 76 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare precedentemente citata:

Nel documento IL MARE (pagine 48-51)

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