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Micaela FENOGLIO

1 Per quanto riguarda il profilo bio-bibliografico dell’autore, nonché per una dettagliata cro- nologia del viaggio si rimanda al saggio di Cristina Trinchero.

parcouru une grande partie des provinces méridionales, et j’y vais conduire mon lecteur» (V, II, 32-33). Quale delusione per il lettore contemporaneo alla ricerca di una puntuale cronistoria degli accadimenti del Piemonte napoleo- nico! Eppure questo stesso lettore non può che essere sorpreso dalla ricchezza di particolari e dalla precisione delle descrizioni di un Piemonte che per la prima volta è capillarmente percorso. Al di là delle scelte di opportunità poli- tica e della storia filologica del testo sulle quali le ipotesi sono tuttora aperte, lo spaccato geografico ed etno-antropologico tracciato dall’autore offre una fotografia ante litteram del Piemonte. Se apparentemente «[…] l’opera del Millin aveva concluso con coerenza l’esperienza del grand tour settecentesco: il viaggio come conoscenza e come superamento delle antiche barriere tra gli stati [e] il periodo che seguiva avrebbe, soprattutto nel Piemonte sabaudo, pro- vocato una svolta decisiva nella letteratura dei viaggi e delle guide»2, una sua

attenta analisi mette in luce aspetti innovativi sia dal punto di vista dell’itine- rario seguito sia della percezione del territorio e della sua gente. Si tratta dun- que di un’opera debitrice della grande tradizione settecentesca ma anche, e forse soprattutto, di un’opera che prospetta una nuova percezione del viaggio stesso, se, come scrive Gilbert Bertrand nell’introduzione alla raccolta di saggi dal titolo La culture du voyage. Pratique et discours de la renaissance à l’aube

du XX siècle, la letteratura di viaggio non è sempre riflesso della pratica stessa, ma al contrario è capace di modellare l’immagine che i viaggiatori hanno di tale pratica3.

Quando nel 1697 Richard Lassels nel suo famoso An Italian Voyage, or,

Compleat Journey through Italyrende ufficiale l’espressione Grand Tour per definire la pratica di viaggio allora in voga, l’Italia è meta ormai da tempo di viandanti che giungono da lontano. A mercanti, artisti, predicatori e pellegrini medievali sulla via di Roma, fin dal XV secolo si affianca una nuova forma di viaggio, laico ed erudito, e altre città diventano meta di itinerari: Milano, Ve-

2 L. LEVIMOMIGLIANO, Giuseppe Vernazza e la nascita della storia dell’arte in Piemonte, Alba, Fondazione Ferrero, 2004, p. 295.

3 AA.VV., La culture du voyage. Pratique et discours de la renaissance à l’aube du XX siè-

nezia, Firenze, Bologna4. Il viaggio acquista nuovo significato, indipendente

dalla soddisfazione di un particolare bisogno, sia esso di ordine religioso, poli- tico o intellettuale, per divenire «compiuta esperienza», frutto di una curiosità che «[...] abbraccia un vero e proprio universo sensibile nel quale rientrano la raccolta e la catalogazione di opere artistiche e di rarità naturali atte a soddisfare desideri e manie del virtuoso collezionista; lo studio di usi e costumi di popoli; l’analisi delle loro forme di governo e delle magistrature; l’esplorazione siste- matica di interi ordini culturali. Il termine esperienza comprende il processo in- tellettuale atto a soddisfare una simile eteroclita curiosità e a promuoverne la tesaurizzazione»5. Varia e abbondante si configura fin da subito la prosa che dà

conto dei viaggi compiuti. Al là delle palesi macrodifferenze culturali fra le scritture sei-settecentesche, più obiettive, e quelle romantiche, più soggettive, dall’incontro fra la vastità e l’eterogeneità degli interessi propri alla cultura del secolo in questione e le diverse inclinazioni personali di ciascun viaggiatore nasce la letteratura di viaggio, specchio di un’epoca e riflesso di una sensibilità. Tuttavia, nella ricchezza tipologica del genere, un dato comune riguarda il pre- valere di una tendenza alla ripetizione: degli stessi itinerari, degli stessi giudizi, persino degli stessi aneddoti. Un secondo aspetto, spesso condiviso, concerne la parentela strettissima che si instaura fra testo e testo, nessuno ignaro dei pre- decessori, negati, incorporati o rispettati che siano. Non fa eccezione Millin, convinto che, malgrado il gran numero di descrizioni dell’Italia, non ne esista nessuna sufficientemente attuale (V, I, 2). Nei suoi Préliminaires afferma, in ri- ferimento ai viaggiatori da lui citati, che Misson è «Trop crédule et trop abrégé» mentre Dupaty «est trop exalté» e che tutti «[…] ont enrichi leurs ouvrages de détails importants, et seroient de meilleurs guides, mais leurs écrits manquent

4 Sul viaggio in Italia prima dell’epoca del Grand Tour si veda: G.P. BRIZZI, La pratica del

viaggio di istruzione in Italia nel Seicento, in «Annali dell’Istituto Italo Germanico», n° 2, 1976; E. KANCEFF, Alle origini della storia del viaggio in Italia, Genève, Slatkine, 1984; F. PALOSCIA(a cura di), L’Italia dei grandi viaggiatori, Roma, Abete, 1986; A. MACZAK, Viaggi

e viaggiatori nell’Europa moderna, Roma, Laterza, 2000; AA.VV., La culture du voyage.

Pratiques et discours de la Renaissance à l’aube du XXe siècle, Paris, L’Harmattan, 2004. 5 A. BRILLI, Quando viaggiare era un’arte, Il romanzo del Grand Tour, Bologna, Il Mulino,

d’ordre; ils ont tout recueilli sans goût et sans choix, et la marche des évène- ments a tellement vieilli ces ouvrages, qu’il reste peu d’observations dont on puisse profiter» (V, I, 2).

Settecentesco negli intenti e nell’impostazione6, il viaggio di Millin lascia tra-

sparire elementi di modernità che ben si collocano nel XIX secolo. In effetti, se, come afferma la critica7, nei diari, nelle cronache, nelle relazioni, nelle guide e

negli epistolari del Settecento scarseggia il gusto dell’aneddoto salottiero, la no- tazione di sentimento o personale, mentre predomina il desiderio di oggettività del resoconto, al contrario Millin si compiace di sottolineare come la sua esperienza, le sue conoscenze e i suoi scambi con i protagonisti culturali dell’epoca gli per- mettano, a suo dire, un approccio personale, e originale, della realtà visitata. Senza mai giungere a identificarsi con il «[…] viaggiatore ipocondriaco e quello senti- mentale con la loro instabilità emotiva, i sentimenti, le interferenze del cuore» evocati da Attilio Brilli8, Millin è precursore di un nuovo stile e soprattutto di una

diversa sensibilità, che si riconosce nella definizione data da Daniel Roche alla voce «Viaggi» di Illuminismo. Dizionario storico:

L’utilità sociale dei viaggi, la loro funzione educativa e mondana non costituiscono più gli unici scopi riconosciuti a un’attività di cui l’enciclopedista attesta la grande espansione. Altri obiettivi vengono fissati: conoscere meglio se stessi innanzitutto quindi fondare la dimensione patriottica. L’analisi della produzione dei racconti, rive- latrice dello stallo degli anni 1780-1800, mostra che la scoperta di sé ha ormai la stessa

6 Per quanto riguarda l’impostazione del viaggio e i contatti di Millin con il mondo culturale e politico piemontese dell’epoca, si rimanda al saggio di Cristina Trinchero.

7 Cfr. M. DUCHET, Viaggiatori ed esploratori del Settecento, Bari, Laterza, 1976; C. DESETA,

L’Italia nello specchio del Grand Tour, in Storia d’Italia. Annali 5, Torino, Einaudi, 1982, pp. 125-263; A. BRILLI, Il viaggio in Italia: storia di una grande tradizione culturale dal XVI

al XIX secolo, Milano, Banca Popolare di Milano, 1987; M.E. D’AGOSTINI(a cura di), La

letteratura di viaggio: storia e prospettive di un genere letterario, Milano, Guerrini e As- sociati, 1987; C. DESETA, L’Italia del grand tour: da Montaigne a Goethe, Milano, Banca Popolare di Milano, 1992; A. BRILLI, Quando viaggiare era un’arte, cit.; A. WILTON/ I. BI-

GNAMINI, Grand Tour: il fascino dell’Italia nel XVIII secolo, Milano, Skira, 1997; A. CAT-

TANEO, Morfologia del viaggio: dal Grand Tour al tour operator, in AA.VV., Tipologie dei

testi e tecniche espressive, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 3-24. 8 A. BRILLI, Quando viaggiare era un’arte, cit., p. 37.

importanza della conoscenza generalizzata del mondo. Gli europei scoprono allora le molteplici componenti della loro apparenza, i valori della propria cultura, l’esotismo, il pittoresco vanno dunque riconsiderati in questa prospettiva […]. Ormai l’aspettativa personale motiva la scrittura, la risposta data al perché si viaggia va di pari passo con una nuova maniera di vedere e descrivere l’esperienza. […] Il racconto di viaggio si tra-

sforma in esperienza dell’io9.

Colto idéologue della fine del XVIII secolo, Millin vive un’epoca di transi- zione, fra le consolidate certezze dei lumi e i fermenti culturali del nuovo secolo; una commistione di cui la scrittura del suo viaggio in Piemonte ben rende conto, al di là della negligenza storica. Tracciare i contorni della pratica di viaggio di Millin nell’ambito della consuetudine del Grand Tour, rilevarne gli aspetti clas- sici e quelli innovativi in relazione alle correnti di pensiero dell’epoca e a viag- giatori a lui coevi, permette dunque di rimarcare l’originalità dell’itinerario seguito che si dipana a tela di ragno, là dove la tradizione faceva del Piemonte, ed in par- ticolare di Torino, una semplice tappa lungo il cammino verso sud. Altrettanto in- teressante si rivela la peculiarità della percezione di Millin di quei caratteri che potremmo definire con il neologismo di piemontesità: luoghi, genti e manifesta- zioni culturali che raccontano un Piemonte che, pur nella sua apparente distanza temporale, suggerisce e anticipa una contemporaneità la cui comprensione è sfida primaria, poiché «sono appunto i viaggiatori forestieri a filtrare la visione della realtà ambientale attraverso uno schermo strutturatosi altrove, a contatto con realtà ambientali diverse»10.

A Matthias Bruen, viaggiatore americano dell’anno 1822, l’itinerario italiano per eccellenza ricorda il corso della vita umana e suggerisce una significativa me- tafora: «la pianura padana e la valle dell’Arno sono lisce, floride e belle come la giovinezza; giungiamo a Roma per acquisirvi l’occhio, l’esperienza e la rifles- sione che si addicono alla età adulta. Dopo il trambusto si torna alle comodità congeniali all’età tarda, e cioè al sole all’aria e al rigoglio della natura di Napoli. Alla fine Paestum ci appare come il tramonto che conclude il nostro stanco pel-

9 AA.VV., Illuminismo. Dizionario storico, Bari, Laterza, 1997, p. 359.

10 A. BRILLI, Il viaggiatore immaginario. L’Italia degli itinerari perduti, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 22.

legrinaggio e pone termine alle nostre fatiche..»11. Di norma dunque, qualunque

fosse la provenienza e il valico superato, il tratto padano che comprendeva Torino e Milano era percorso piuttosto celermente, mentre diverso – positivo quando non entusiasta – era l’apprezzamento per Genova. Da qui si giungeva a Firenze, at- traverso la sosta a Lucca, ma vi si poteva arrivare anche da Bologna. L’itinerario procedeva poi verso Roma lungo la via Francigena (che toccava Siena, Radico- fani e Viterbo) oppure attraverso Arezzo, Perugia, Terni e la valle del Tevere. Da Roma si raggiungeva Napoli attraverso le paludi pontine, Velletri, Terracina, Gaeta, per arrivare infine a Paestum. Abbastanza rari i viaggiatori che prosegui- vano nel Cilento, in Calabria e in Sicilia. Il percorso di ritorno prevedeva gene- ralmente di raggiungere Roma, attraverso Foligno e spesso con una deviazione in direzione di Loreto, proseguendo per Ancona e la costa adriatica fino a Ravenna, da dove ci si ricongiungeva a Bologna. Da qui, prima di riprendere il tracciato tradizionale all’inverso, si inseriva l’importante tappa di Venezia e delle altre città venete. Tuttavia, col tempo le mutazioni culturali, sociali e storiche determinano differenze di scelta riguardo alle città da visitare. Cesare De Seta ipotizza un’evo- luzione del gusto fra il Seicento e il Settecento, proponendo un confronto quan- titativo fra le pagine di Misson (1688) e quelle di Lalande (1765) i cui Voyages sono, dell’uno e dell’altro secolo, i testi più rappresentativi e maggiormente dif- fusi12. Nel Seicento la città prediletta è Roma (che non perderà mai il suo pri-

mato), la seconda assoluta Venezia, entrambe destinate ad accrescere la loro fama. Terza, ma con un certo distacco, Napoli, seguita da Bologna, la cui fortuna, al contrario, sarà destinata a scemare, mentre Firenze stenta ad affermarsi in un se- colo dominato dal fascino della civiltà barocca. I centri di più piccole dimensioni sono molto defilati, fra di essi spiccano Pisa e Lucca. Due le eccezioni: quella di Loreto per il suo santuario e quella di Pozzuoli per le rovine antiche. Nel Sette- cento la geografia dell’Italia sembra più articolata e mobile: si affermano le tappe intermedie e l’itinerario si estende fin oltre Napoli. Nel mutare di equilibri la ca-

11 Cit. in A. BRILLI, Il viaggio in Italia: storia di una grande tradizione culturale dal XVI al

XIX secolo, Milano, Banca Popolare di Milano, 1987, p. 39.

12 Cfr. C. DESETA, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in Storia d’Italia. Annali 5, Torino,

pitale assume un peso ancora maggiore e contemporaneamente si assiste alla par- ziale crisi di Venezia: la razionale cultura illuministica poco si addice agli splen- dori bizantini della città. Al secondo posto passano Napoli e Firenze, mentre comincia a far capolino Torino, che tuttavia spesso rimane ancora solo una breve tappa verso città più prestigiose ma, soprattutto, quasi inesistente è l’interesse verso il resto del Piemonte. Con la fine del secolo, la Rivoluzione francese e l’av- vento di Napoleone modificano e limitano la pratica del viaggio in Italia, contri- buendo però ad alimentare una curiosità specifica per il Piemonte, ora terra di Francia.

Al pari di altre opere scritte in quegli anni13, il Voyage en Savoie, en Piémont, à Nice, et à Gènesdi Aubin Louis Millin illustra questo nuovo interesse, tuttavia è l’unico a sperimentare un itinerario a tela di ragno che interessa gran parte del territorio. Stigmatizzato dalla critica come «perfetto uomo di scienza»14che per-

corre Torino con la pianta topografica in mano, in realtà egli va ben oltre la sem- plice presentazione della città, per offrire uno spaccato di vita piemontese.

Lasciata Parigi nel settembre del 1811, Millin valica il Moncenisio nel tardo autunno, con buone condizioni climatiche che gli permettono di confrontare la sua solida preparazione scientifica che spazia dalla geologia alla botanica, pas- sando per la storia, con l’ambiente che lo circonda, ritrovandovi gli elementi stu- diati. La descrizione del passaggio è, in effetti, esemplificativa dell’intera scrittura del viaggio, dove osservazioni empiriche, citazioni erudite, aneddoti riportati e impressioni personali si mescolano ad arte. In particolare, è soprattutto la sua prima tappa a Susa a delineare il nuovo modo di affrontare il territorio piemon- tese. Invece di «éviter la détestable auberge de Suze» (V, I, 103) e proseguire spe- dito verso Torino, Millin vi soggiorna per un breve periodo, estendendo il suo interesse non solo alla cittadina ma anche ai dintorni (V, I, 104).

Lungo tutto il percorso piemontese, le città e i luoghi principali sono co- stantemente il centro dal quale si diramano una serie di possibili itinerari, lungo le vie postali: alcuni di certo intrapresi e raccontati in modo da non lasciare dubbi di testimonianza diretta, altri il cui profilo si avvicina maggiormente al racconto

13 Cfr. AA.VV., Il Piemonte dei grandi viaggiatori, Roma, Edizioni Abete, 1991. 14 Ivi, p. 35.

udito, e a sua volta trasmesso. Per esempio, la visita ai resti del forte della Bru- netta, a Monpantero, Venaus, la Novalesa, e Ferriere costituisce presumibilmente l’escursione di una giornata descritta in modo vivo e partecipato (V, I, 133-145). Al contrario, pur indicando la posizione e il percorso da seguire per raggiungere Mattie, Gravere e Meana e abbondando in dettagli folcloristici e di costume (V, I, 136-137), mancano totalmente le impressioni personali e l’autore resta volu- tamente ambiguo circa l’effettiva sua presenza sul luogo. Altri casi simili sono riscontrabili in tutta la narrazione del viaggio in Piemonte. Per esempio, in chiu- sura del primo volume suggerisce l’itinerario fino a Pinerolo ma dubbia rimane l’effettiva esecuzione (V, I, 370-372). In effetti, pare quasi aver inserito Pinerolo nel suo Tour piemontese a seguito della curiosità sollevata dalla conversazione con il Barone Vernazza e per riportare il famoso episodio della Maschera di Ferro. Tuttavia, la descrizione è alquanto imprecisa. Di norma Millin elargisce numerosi particolari riguardo ai siti visitati, alla loro storia, agli usi e ai costumi, e non tralascia di segnalare quelle meraviglie architettoniche che in più di un’oc- casione definisce «degne di un francese»; in questo caso non ha una parola di stu- pore né per una delle più grandi e particolari fortezze d’Europa, Fenestrelle, né tanto meno su una presenza protestante in quella terra. Eppure, da storico pun- tuale come si dimostra in più di un’occasione, giunto teoricamente fino a Bri- cherasio, ai confini di quel ghetto Valdese che altri viaggiatori non dimenticano di segnalare, Millin non ne fa cenno. Dati i pochissimi riferimenti ai protestanti, si potrebbe pensare, così come per il velo posto sull’epoca napoleonica, a una precisa scelta. A proposito di Saint-Jean de Maurienne dice che si tratta di una città antica, che però non ha monumenti a causa prima delle devastazioni me- dievali e poi dei disordini religiosi «incitati» da Calvino. Non manca poi l’aned- doto circa le deiezioni umane adoperate dai contadini per concimare le campagne di Nizza, sottolineando come quelle dei protestanti, che non rispettano i giorni di magro, siano pagate più care (V, II, 103-104)! Tuttavia, a prescindere dalle convinzioni religiose dell’autore, una simile dimenticanza, aggiunta all’inesi- stente descrizione paesaggistica della cittadina, che è considerata unicamente dal punto di vista storico, lasciano supporre che l’escursione a Pinerolo sia sem- plicemente il frutto di un’accurata documentazione a tavolino, supportata dai colloqui con gli amici torinesi.

Lasciata Susa e oltrepassati Bussoleno, Villar Focchiardo e Sant’Antonino, Millin si ferma a Avigliana con l’intento di vedere la Sagra di S. Michele, oggetto di una lunga e accurata descrizione storica e architettonica (V, I, 147-158). Visita quindi Rivoli e il suo castello prima di entrare in Torino (V, I, 161). I capitoli da otto a quindici del primo volume sono interamente dedicati alla città, mentre il conclusivo capitolo sedici illustra «[…] les Environs de Turin, Capucins, Vigne de la Reine, le Valentin, Mille Fiori, Stupiniggi, Madonna della Campagna, Tom- beau du Maréchal de Marsin, La Vénerie, Les Camaldules, Ordre de Saint Mau- rice, La Superga, Tombeaux des Rois, Chieri, Anciennes Peintures, Autres plus modernes, Pignerol, Fenestrelle» (V, I, 338-356).

Il secondo volume si apre con l’itinerario di andata e ritorno ad Aosta. Millin lascia Torino dalla «Porte de Turin qui conduit à Verceil […]. On suit la route neuve, on traverse la Dora riparia, puis la Stura. On relaye à Settimo, un peu avant le passage de l’Orco, doit être le lieu que les Romains nommoient ad De-

cimum» (V, II, 1-2). Arriva quindi a Chivasso, dove suggerisce la possibilità di una deviazione di tre miglia per visitare «le haras du Roi», fatto costruire da Carlo Emanuele III. Da Chivasso prosegue per Rondizzone, poi verso Cigliano. Da Ci- gliano passano altre due strade, oltre a quella che collega Torino a Vercelli: una porta a Biella, l’altra a Ivrea. Sceglie di passare da Biella sulla strada del ritorno, con una deviazione verso il santuario della Madonna di Oropa (V, II, 5). Dopo aver oltrepassato Caluso, Ivrea, Pont Saint-Martin, Donnaz, Arnad, l’imbocco della Val d’Ayas, Verrès, la strada del Montjovet, aperta «par ordre du dernier Roi de Sardaigne» tra Chatillon e Saint-Vincent (ricordata per le sue celebri acque termali, che hanno «de la renommée dans le Piémont») giunge ad Aosta. Pur non essendo arrivato in Italia attraverso il passo del San Bernardo, ne segnala il per- corso (V, II, 20). Il rientro a Torino prevede il medesimo itinerario. Nel constatare le pessime condizioni della strada, sottolinea però che «la singularité et l’agrément des sites» compensano lo sforzo, al pari della curiosità suscitata dal santuario di Oropa (V, II, 21-31).

I capitoli XVIII e XIX del Voyage descrivono il percorso verso Nizza, strut- turato attorno alla classica via postale del colle di Tenda ma includendo nume- rose digressioni sul territorio, tali da disegnare una vera e propria rete di percorsi, nello stile delle guide contemporanee (V, II, 32-56). Si conclude così il capitolo

diciannovesimo per lasciare spazio alla descrizione di una città di cui, come af- ferma Millin, già il nome stesso, «Alba Pompeia», indica «une ancienne ville» (V, II, 58), e a un lungo excursus storico prima di riprendere il cammino e os- servare la gradevolezza della via che da Savigliano conduce a Cuneo (V, II, 66- 67). Cinque pagine sono dedicate a questa città, prima di proseguire lungo la

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