• Non ci sono risultati.

Il tradimento dello spirito della Riforma del ’75 e della sua promessa di inveramento dei principi costituzionali è sotto gli occhi di tutti, testimoniato da un carcere in grado di meritarsi una condanna per trattamento inumano e degradante. Lo iato tra lettera della legge e realtà è il portato, tra l’altro, di una terribile normalità: visione semplificante dei problemi, pendolarismo delle politiche criminali, scarsa lungimiranza, ritardi organizzativi, logiche burocratiche, separatezza delle amministrazioni. Se ne può uscire ridando fiato e orizzonte a quella promessa.

1. Un punto di partenza e un metodo

per riflettere

Mi giro e mi rigiro tra le mani l’invito a dare un contributo riflessivo a quarant’anni dalla promulga-zione della Riforma penitenziaria del ’75. Non è un compito semplice, tanti sono gli aspetti e le impli-cazioni che potrebbero essere sviluppati. Ed è com-plesso anche per la scelta del taglio da dare. Essere critici può essere un bene a patto che si trovi il giusto equilibrio ma il rischio è comunque quello di lasciarsi andare e puntare il dito su un gruppo, una categoria, i tempi che stiamo correndo, l’ideologia di turno o chissà che cosa d’altro.

Se si vuole essere critici allora occorre sobbarcarsi l’onere di farlo in un modo che offra spunti di utilità, piuttosto che di rivendicazione, rancore, nostalgia o di pessimismo.

È sulla base di queste considerazioni che, alla fine, ho deciso di trattare la questione.

Il punto di partenza della riflessione non possono che essere le sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per le condi-zioni inumane e degradanti con le quali ha gestito la carcerazione di migliaia di detenuti negli ultimi anni.

Non può che essere questo il punto di partenza in considerazione che all’articolo 1 dell’Ordinamento ri-formato è ribadito esattamente quanto previsto dalla Costituzione, ovvero che la pena e il trattamento che

la sostanzia devono essere conformi ad umanità e as-sicurare la dignità della persona.

Di fronte a questa macroscopica discrasia tra il dire e il fare lo stordimento di un lettore sufficiente-mente attento è notevole.

Com’è stato possibile che la portata di una riforma di quel genere si sia via via affievolita sino ad essere svilita da questi risultati?

L’Ordinamento penitenziario è ancora lì e, seppur modificato in via emergenziale più volte, non ha dero-gato al suo spirito essenziale.

Si potrà obiettare che per una parte dei detenu-ti l’accesso delle misure alternadetenu-tive è ostacolato dal-le ostatività previste dall’articolo 41bis ma, anche in questo caso, tutta la parte relativa al regime detentivo e al senso di umanità che lo deve ispirare non è in-taccato neppure dalla più rigida riforma che è stata effettuata in questi anni.

Certo c’è la questione delle previsioni dell’articolo 41bis ma riguardano un numero ristretto di persone e, in ogni modo, le condanne della Cedu hanno ri-guardato la detenzione comune e non quei regimi.

Ma allora che cosa ci ha portato così lontano? Devo dire che tra le tante suggestioni desunte dal-le dal-letture personali, la banalità del madal-le evocata da Hanna Arendt1 è una di quella che più mi aiutano nel lavoro quotidiano. Alla Arendt va il merito di aver col-to che l’essenza della macchina dello sterminio non stava nella malignità di qualcuno ma nella normalità

dei più, nel loro senso di accettazione acritico e a volte addirittura entusiastico delle cose.

Questa è la stessa sensazione che spesso mi sor-prende di fronte alla evidente frattura tra quello che si dovrebbe fare e ciò che in realtà si fa concretamen-te. È esattamente su questo, ovvero la banalizzazione della realtà e della conduzione delle cose, che intendo svolgere il compito assegnatomi.

2. La politica e le sue scelte sulla pena

Eppure la gestione della pena, in particolare quel-la detentiva, non è un fatto banale. Riprova ne è che, come ha affermato Foucault, la storia dell’istituzione penitenziaria coincide con la storia della sua riforma tanto è un’istituzione che incarna una funzione diffi-cile e contradditoria.

Alla Riforma del ’75 sono seguite una serie di parziali, inorganiche e striscianti riforme in ragione non tanto della volontà di generare un modo diverso di punire quanto per rispondere all’urgenza del mo-mento o del prevalere di un moto ideologico rispetto ad un altro. A questo proposito c’è da osservare che troppo spesso le argomentazioni e i pensieri legati alla questione carceraria sono stati, e sono tuttora, sin troppo banalizzati, anche in ambiti che dovreb-bero essere meno approssimativi e più rigorosi nelle analisi e nelle proposte. Non è un caso se Mauro Pal-ma ha ritenuto di richiaPal-mare tutti al rispetto di una rigorosa igiene linguistica nell’affrontare gli aspetti che qui prendiamo in esame2. Purtroppo è da rico-noscere che, nell’eterno pendolarismo della politica criminale italiana, spesso quelle visioni semplificanti delle cose e dei problemi costituiscono l’ossatura del-le interpretazioni e deldel-le soluzioni. In questo modo si ingenerano striscianti derive. Innanzitutto si sacrifi-ca l’organicità di un ordinamento ma si conferiscono anche messaggi contraddittori, soluzioni irrazionali e iati organizzativi di non poco conto.

Credo non si rifletta molto sul fatto che il termine ordinamento ha in radice quello di ordine, e rimanda ad un assetto fondato da un criterio razionale o prati-co, funzionale o estetico che prevede una successione di una serie di elementi secondo un determinato cri-terio3.

Nel nostro caso il criterio coincide, o meglio do-vrebbe coincidere, con il senso che vogliamo dare alla

pena ovvero, sino a prova contraria, quello dato dalla Costituzione.

Ecco perché non ci si dovrebbe muovere per rifor-me inorganiche alla luce dell’erifor-mergenza di turno.

Fiumi d’inchiostro sono stati spesi per sottolinea-re gli effetti terribili che hanno avuto, in termini di so-vraffollamento e promiscuità, alcune scelte di politica criminale relative all’immigrazione clandestina o alla criminalizzazione di alcuni aspetti della materia sugli stupefacenti o l’aggravamento punitivo della condi-zione di recidivanza del condannato.

Non si tratta di giudicare queste posizioni ragio-nevoli o meno, questo fa parte dell’orientamento po-litico della maggioranza parlamentare. Si tratta piut-tosto di considerare che qualunque orientamento si voglia adottare è necessario prevederne gli effetti che determinerà giuridicamente e sulle strutture che do-vranno reggere quelle stesse decisioni.

Badate bene questo non riguarda solo la tenden-za alla carcerazione ma anche l’opposto. Considerate, per esempio, l’effetto di sovraccarico lavorativo che ha avuto sulle strutture penitenziarie e giudiziarie la previsione di un rimedio risarcitorio per compensare gli effetti di una carcerazione inumana e degradante, oppure l’impatto di un deflazionamento repentino del carcere senza previsioni strutturate di accompagna-mento e accoglienza esterna degli scarcerati.

Più in generale, se gli effetti delle politiche criminali e penitenziarie non sono adeguatamente previsti pos-sono portare irrimediabilmente all’erosione dei diritti e della dignità delle persone interessate. Questo è valso nel caso del progressivo sovraffollamento a risorse in-variate o, peggio, addirittura ridotte ma anche per le incertezze interpretative delle norme in materia risar-citoria per una detenzione inumana e degradante.

La politica ha influenzato l’evoluzione concreta dell’ordinamento penitenziario non solo con le sue decisioni ma anche con i suoi silenzi. Non sono stati sufficienti Papi e Presidenti della Repubblica per con-vincere il Parlamento ad adottare decisioni dirimenti per far fronte ad un sovraffollamento gravissimo gra-zie al quale non solo la rieducazione o il trattamento sono stati calpestati ma addirittura la dignità di chi in carcere vive e lavora.

Solo la minaccia delle sanzioni europee ha infine smosso, non tanto per il morso delle coscienze quan-to per il calcolo dei costi, una decisione. La distin-zione non è di poco conto e testimonia molto bene

1 H. Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2003.

2 M. Palma, Il regime del 41bis da Strasburgo (e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura), in F. Corleone, A. Puggiotto (a cura di), Volti e maschere della pena: opg e carcere e duro, muri della pena e giustizia riparativa, Ediesse, Roma, 2013.

l’aria che tira. A tal proposito cito spesso Elisabetta Grande che, molto efficacemente, ha distinto la ge-nuinità degli interventi deflattivi evidenziando quelli spiccatamente umanitari, che fa rientrare nella sfera dell’humanitarianism, e quelli necessitati da logiche economiche che, sfruttando una felice assonanza lin-guistica anglofona, fa rientrare nella sfera

dell’humo-netarianism4.

3. La politica e le sue scelte

organizzative

Altre decisioni politiche, pur non riguardando direttamente l’Ordinamento penitenziario, hanno prodotto indirettamente degli effetti rispetto alla sua applicabilità intersecandolo da un punto di vista or-ganizzativo.

Già perché la pena, evento giuridico, diventa ad un certo punto questione concreta ed organizzativa e anche su questo piano si gioca la tenuta dei principi ordinamentali e prima ancora costituzionali.

Il primo esempio che vale la pena riportare riguar-da il gravissimo ritardo con il quale si è modificata la macchina organizzativa deputata a dare corpo alla Riforma. Ci sono voluti ben quindici anni per rifor-mare l’Amministrazione penitenziaria in un senso più consono al nuovo corso. Per tutto quel tempo il siste-ma è risiste-masto quello del periodo precedente, fondato su una organizzazione militare, fortemente gerarchiz-zata, formata ad un compito di mera custodia e re-pressione rispetto ad una utenza considerata a priori pericolosa e da neutralizzare per il tempo necessario stabilito da una sentenza.

Anche quando, finalmente, si è messo mano alla necessaria modernizzazione dell’Amministrazione questa non è stata esclusivamente mirata a tradur-re in strumenti organizzativi i bisogni del modello penitenziario del ’75. Nelle nuove forme si sono ba-nalmente incistati altri bisogni al punto che il nuo-vo sistema organizzatinuo-vo ha generato in se questioni, prassi e modalità, se non ostativi alla realizzazione del disegno riformatore, quantomeno poco orientati in tal senso. Non mi riferisco solo a quanto sapiente-mente evidenziato in De Vito relativasapiente-mente al

proces-so di burocratizzazione che ne è conseguito5, quanto a questioni più sottili ed insidiose.

Al momento di modificare quella struttura, infatti, non si è avuto sufficiente coraggio per imprimere una decisiva trasformazione anche se il dibattito teorico che lo aveva preceduto, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, aveva ben tratteggiato la necessità di considerare, ad esempio, la smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia come una semplice premessa metodologica che ancora non diceva nulla intorno i contenuti politici che si vole-va imprimere con quella riforma rispetto al nuovo corso penitenziario6. A quella premessa non sono seguite scel-te radicali preferendo piuttosto mediare la smilitarizza-zione del Corpo degli agenti di custodia con la creasmilitarizza-zione di uno specifico corpo di polizia, non meditando troppo sugli effetti che questo avrebbe determinato. È sufficien-te considerare la deriva “poliziesca” che questa scelta ha determinato nel tempo. Già pochi anni dopo la riforma del ’90 si capì che le speranze che questa aveva indotto lasciavano spazio al rafforzamento degli atteggiamenti corporativi del Corpo7 .

Non solo le modalità e la cultura professionale, al di là delle singole posizioni, non possono non essere in-fluenzate da questa matrice ma è tutta da considerare la più volte richiesta, per certi versi legittima proprio considerata la suddetta scelta iniziale, di creare una Direzione generale di polizia a sé all’interno del Di-partimento dell’amministrazione penitenziaria o, più decisamente, di confluire nel ministero degli Interni. Di questi tempi, caratterizzati da esigenze pressanti di revisione della spesa pubblica, proposte di accor-pamento di questo genere potrebbero essere prese in considerazione.

D’altra parte all’orizzonte si profila una sempre più ricorrente questione che ha a che fare con una delle tante anomalie italiane, ovvero la coesistenza di ben cinque Corpi di polizia, ai quali devono aggiungersi tutte le polizie locali, municipali, provinciali, ecc. ecc., con compiti e funzioni che spesso si intersecano e si intralciano.

Il Governo è più volte tornato sull’argomento non nascondendo affatto l’intenzione di risolvere la que-stione con accorpamenti consistenti. In tal senso la Polizia penitenziaria potrebbe essere destinata a con-fluire nella polizia di Stato8.

4 E. Grande, La Corte Suprema degli Stati Uniti e l’ordine alla California di ridurre il numero dei prigionieri: humanitarianism o humo-netarianism? in Antigone, 2-3, 2011, pp. 13-25.

5 C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: Storia del carcere in Italia, Laterza, Bari, 2009, p. 118.

6 E. Fassone, Gli Agenti di custodia, in Fortuna F.S. (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 23-56.

7 C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: storia del carcere in Italia, cit., p. 137. 8 Vedasi di recente E. Fittipaldi, Troppe divise, L’Espresso, 2, LXI, 15 gennaio 2015.

Che effetto avrebbe questo? Difficile dirlo perché poco o nulla si sa nel dettaglio ma credo che questo ci allontanerebbe dagli ideali del carcere riformato.

Nel contempo sono anni, per l’esattezza quasi di-ciotto, che non si bandiscono concorsi per assumere direttori d’istituto penitenziario. Certamente il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego e la progressiva riduzione del personale, in particolare in questo ul-timo periodo in ragione della necessità di limitare la spesa e il debito pubblico, non lascia scampo a questa tendenza. Cosa analoga, o quasi, può essere detta per tutte le altre categorie professionali che compongono l’Amministrazione penitenziaria. Gli effetti di tutto questo sono importanti. È da considerarsi che la cul-tura di una Amministrazione, esattamente come tut-te le culture, è frutto di una evoluzione che non può sopportare una soluzione di continuità tra le varie generazioni e necessita di una trasmissione tra chi ha preceduto e che seguirà. Se così non è si creano veri e propri buchi di conoscenza e di pensiero che possono riverberarsi sull’evoluzione delle modalità di lavoro.

È sempre interessante leggere i testi di Autori che hanno affrontato e descritto i primi anni della rifor-ma9. Si colgono le questioni e i rovelli che si dovette-ro affdovette-rontare ma si scopdovette-rono anche i presupposti di orientamenti e modalità che molti di noi si sono tro-vati ad applicare decenni dopo. Senza la conoscenza storica di quell’evoluzione è difficile applicare nor-me e prassi e il rischio è quello di procedere attra-versi automatismi spesso acritici. L’onnipresente «si

è fatto sempre così» sta lì a testimoniare

dell’incon-sapevolezza di certe prassi e, allo stesso tempo, della percezione di consuetudini immodificabili. Parados-salmente quelle letture ci consegnano una storia nel-l’ambito della quale gli operatori dell’epoca hanno affrontato difficoltà e contraddizioni ben maggiori e di varia natura. Eppure loro sono riusciti a modifi-care sostanzialmente quel carcere, consegnandoci il testimone di una riforma oggi largamente inappli-cata.

Ora se vengono a mancare intere generazioni di figure professionali si corre il concreto rischio di in-crementare questo iato di conoscenza e di prospetti-va impoverendo il pensiero e la capacità di cercare e dare senso all’agire quotidiano rispetto al mandato istituzionale.

Tra l’altro il blocco del ricambio generazionale im-plica un ulteriore effetto, oserei dire di plastica scle-rotizzazione, legata alla limitata mobilità del perso-nale che, nel caso dei livelli dirigenziali, implica un

altrettanta limitata veicolazione delle buone prassi e dell’innovazione.

Come se non bastasse, nel frattempo, si ipotizza la possibilità che più istituti possano vedere la po-testà di uno solo direttore, oppure che questa figura possa essere sostituita da altre, in particolare dai funzionari di polizia penitenziaria. Permettetemi di dire che non può essere la stessa cosa. Chi ha scritto la Riforma del ’75 ha architettonicamente disegna-to un sistema di pesi e contrappesi e il diretdisegna-tore fu pensato quale punto di equilibrio tra istanze diverse. Si potrà obiettare che il mondo evolve e che anche le dinamiche penitenziarie e gli attori che le ani-mano sono cambiati anch’essi. Non vi è dubbio, ma il mio sommesso avviso è che nelle istituzioni che esercitano una potestà nei confronti di un cittadino, tanto più se privato della libertà personale, la que-stione dell’equilibrio e delle garanzie continua ad essere fondamentale. D’altra parte se questa fosse una posizione di minoranza non si spiegherebbe la forte spinta alla creazione di figure di garanzia nuo-ve e la grande attenzione delle Corti di giustizia, in particolare quelle internazionali. Se ci sono, come ci sono, problemi di spesa la soluzione non può essere la modifica di un organigramma previsto da norme fondate sulla sapienza carceraria. Piuttosto è meglio ridurre gli istituti sancendo l’antieconomicità delle strutture con una capienza al di sotto di una certa soglia o in ragione di una collocazione geografica co-stosa dal punto di vista della logistica necessaria. Se la vogliamo dire tutta l’attuale riduzione dei detenu-ti, così come dopo l’indulto, non ha ridotto il costo pro-capite di un detenuto, anzi, esso è aumentato perché questo si calcola dividendo il bilancio annuo dell’Amministrazione penitenziaria per il numero dei detenuti presenti. L’83% del bilancio è assorbito dai costi fissi del personale e da quelli necessari per il funzionamento delle strutture e dei mezzi10. Ciò significa che i tagli resi indifferibili dalla situazione generale dovrebbero tener conto di questo semplice fatto e prendere in seria considerazione la necessi-tà di una razionalizzazione e progressiva riduzione delle sedi per poter accorpare quel personale oggi più che carente, mal distribuito. Come ho già detto questo contributo non vuole denigrare nessuna delle posizioni in campo riconoscendo che ognuna di esse è fondata da logiche e ragioni degne di rispetto ed attenzione ma, allo stesso modo, tali posizioni

do-vrebbero sempre tener conto dei motivi originari e

profondi che hanno portato alle architetture

giuri-9 F.S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma: i protagonisti dell’ideologia penitenziaria, Franco Angeli, Milano, 1985.

diche ed organizzative volute dalla Riforma del ’75. Procedere in modo disordinato senza ortodossa at-tenzione a quel Testo può determinare conseguenze tali da snaturare il senso di quelle norme.

4. Amministrazioni frammentate ed

autoreferenziali

Che questo sia già avvenuto da tempo lo testimo-nia anche il fatto che la macchina organizzativa peni-tenziaria è sempre più assorbita da se stessa. Tanto significano le parole di un ex Direttore generale del personale che ha avuto modo di affermare che le vi-cende contrattuali ed amministrative del personale sovrastano gli interessi e le aspettative sociali legate all’ordinamento penitenziario11. De Vito ha storica-mente registrato il fatto che con l’andar del tempo l’insieme dell’organizzazione penitenziaria si è evo-luta in una frammentazione sempre maggiore carat-terizzata dalla presenza di corporazioni sempre più potenti12.

In un altro contributo ho avuto modo di dire che oggi il tema in agenda non è più, o perlomeno non è più in via prioritaria, la contrapposizione partico-larmente sentita sino agli anni ’90 tra un modello custodiale e uno trattamentale, bensì la richiesta, costante e trasversale, di tutte le categorie profes-sionali di rendere compatibili i diritti e le aspetta-tive del personale con le esigenze dei detenuti e, in genere, questa seconda parte ne esce perdente13. Per la verità è da sottolineare che questo fenome-no traslativo fenome-non è caratteristica esclusiva dell’Am-ministrazione penitenziaria ma credo si ritrovi in tutte le organizzazioni di servizio e anche in quelle collaterali al carcere, non meno importanti rispetto all’effettività dei precetti del ’75. Pensiamo ai tem-pi e alla prassi del comparto sanitario o di quello giudiziario, tanto per citare quelli più connessi con quello penitenziario.

La già citata scelta di convertire il Corpo degli