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Pittori-periti e agenti fiorentini a Venezia al servizio di Cosimo III (1670-1723)

Vasari Giorgio

II. Pittori-periti e agenti fiorentini a Venezia al servizio di Cosimo III (1670-1723)

Pittori

«a Roma si disegna, a Venezia si dipigne» Livio Mehus Gli artisti fiorentini o naturalizzati toscani impiegati quasi stabilmente come provvisionati della corte e accademici che sin dal tempo del cardinal Leopoldo avevano acquistato una solida fama di conoscitori di dipinti, abili stimatori e periti, furono molti anche durante il governo del penultimo Granduca di Toscana. Tra essi emergono Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, Livio Mehus, Ciro Ferri, Pier Maria Baldi, Pier Dandini, Anton Domenico Gabbiani, Giuseppe Nicola Nasini, ai quali va aggiunto il grande conoscitore ed esperto di disegni, Filippo Baldinucci che ebbe l’incarico di riordinare la sterminata raccolta di Leopoldo e di verificare e catalogare la collezione degli autoritratti dei pittori in

fieri. Ad essi il Granduca si rivolgerà per sottoporre loro pareri e giudizi sulle opere offerte

in vendita che provenivano da tutta l’Italia, compreso Venezia. In una lettera inviata da Matteo Del Teglia ad Apollonio Bassetti, segretario di Cosimo, il 27 maggio 1684, il corrispondente veneziano così dichiarava:

«Dirò bene a Vostra Signoria con la mia ingenuità, che due soli sono i professori costì che hanno

stima fra quelli più ragguardevoli qui, e che possino giudicare l’opere de’ Pittori di questo paese antichi, e più moderni, questi sono li SS.ri Volterrano e Livio [Mehus] ch’hanno lungamente studiato in queste maniere, e S.r Dandini [Pietro] men stimato, e ‘l Pignoni più per l’opere loro che nol per la stima, e giudizio de Quadri de’ pittori lombardi […]»1.

Un’opinione che tornerà di attualità qualche anno più tardi nelle parole del pittore fiorentino Tommaso Redi in una lettera inviata al suo maestro Antonio Domenico Gabbiani quando alla domanda postagli dallo stampatore romano Giovanni Giacomo de’ Rossi su «come si fanno pagare i quadri a Firenze», egli rispose che non «c’era altri, che il signor

Livio e V.S. e il Pignoni, che tenessero la pittura in reputazione», giudizi che non dovevano

riguardare solo i loro meriti artistici, ma anche riferirsi alla dimestichezza con la quale tali pittori erano in grado di trattare e giudicare la pittura e la «materia antica»2.

Alto sarà il numero delle tele che nel corso di almeno tre decenni gli esperti fiorentini di stanza a Venezia proporranno per l’ acquisto a Cosimo, ma delle quali il Granduca ne incamererà solo una piccola parte. I motivi del modesto apporto all’arricchimento delle collezioni medicee sono molti, ma non sono però spiegabili con la scarsa sensibilità mostrata dal regnante toscano per le questioni artistiche, dovuta al suo carattere imprevedibile, soggetto molte volte a indecisioni e incertezze sull’acquisto dei pezzi. In realtà tale opinione è contraddetta dal vivo interesse mostrato dal Granduca per la pittura olandese e fiamminga seicentesca, di cui ottenne numerosi esemplari dei cosiddetti

Fijnschilders, a seguito dei suoi viaggi in Olanda e in Inghilterra negli anni 1667 e 1669 e

attraverso i doni ricevuti dal genero Johann Wilhelm von der Pfalz, Elettore Palatino, marito di Anna Maria Luisa de’Medici, che permise l’acquisizione di un considerevole nucleo di preziose opere di queste scuole nelle gallerie fiorentine3, ma soprattutto dalla volontà di acquistare solo quelle opere che potevano definirsi indiscutibilmente e senza ombra di dubbio dei «capolavori». Pezzi unici e rari che potevano essere acquistati a prezzi convenienti come riferiva Apollonio Bassetti al Del Teglia nel 1682 nel caso di un dipinto riferito al Veronese («essendo il suo principale intento d’acquistare bensì un gran quadro

di quell’autore, ma che sia di tutta perfezione ed eccellenza, e corrisponda col pregio alla grandezza della sua fama»), cosa che il più delle volte non avveniva in quanto la maggior parte delle

tele che gli venivano proposte sollevarono dubbi sulla loro effettiva autografia, sulle condizioni di conservazione, oppure anche se ritenute originali, venivano richieste dai proprietari a somme troppo elevate con l’aggravante che non era possibile estradarle facilmente.

Nonostante la vasta politica di acquisti condotta nei decenni precedenti da Leopoldo, la quadreria fiorentina, vantava un cospicuo numero di opere della scuola veneta del Cinquecento, che ne faceva una delle più ricche raccolte europee, ma il desiderio di avere opere di prestigio rimaneva forte e non venne mai meno. Cosimo continuò ad interessarsi delle opere dei maestri cinquecenteschi e tra gli artisti più apprezzati Paolo Veronese era certamente il nome che riscuoteva i maggiori consensi. Nel corso del Seicento il valore monetario delle sue opere o ritenute tali era divenuto altissimo, confermandosi dunque pittore per pochi, destinato solo a grandi collezionisti in grado di pagare prezzi sganciati da valutazioni puramente economiche4. In questo contesto tutti i pittori al sevizio del Granduca furono impegnati nella spasmodica ricerca delle sue tele ed è nel rapporto stretto e costante che egli ebbe con i suoi artisti e soprattutto con Del Teglia che si comprende a pieno quale furono gli interessi rivolti verso l’arte veneziana da parte del regnante toscano e quale in sostanza il suo gusto collezionistico.

La maggior parte dei pittori-periti fiorentini e toscani aveva una precisa conoscenza dell’arte veneta essendo stati per periodi più o meno lunghi anni residenti nella città lagunare. Per i giovani artisti fiorentini al servizio dei Medici, diverrà una consuetudine pressochè consolidata perfezionare la propria preparazione pittorica a Venezia dopo un periodo di formazione passato a Roma, dove alcuni tra quelli che avevano mostrato buone aspettative nella pratica scultorea e pittorica erano stati là mandati per perfezionarsi a spese della corte, come «pensionari» dell’Accademia del Disegno che, fondata a Roma nel 1673 da Cosimo III e diretta da Ciro Ferri, sopravvisse fino al 16865. Lo stesso Ferri, così come Livio Mehus, Giuseppe Nicola Nasini o gli allievi usciti dalla fervida bottega di Vincenzo Dandini (1609-1675) e cioè il nipote Pietro o Antonio Domenico Gabbiani, oltre al

naturale apprendimento pittorico, saranno coinvolti in qualità di consulenti e periti nel fitto e intenso commercio di quadri tra le due città.

Sulla scia di altri illustri pittori come Annibale Carracci o Rubens, anche i toscani ebbero modo di ammirare e studiare i capolavori conservati in città. Osservare le opere dal vero era e rimane - come ricorda Donatella Sparti- uno strumento essenziale nella formazione di ogni artista e in questo apprendimento didattico condotto sulle opere dei maestri del Cinquecento l’impiego sia del disegno che della copia dipinta (non essendovi in quest’ultimo caso altro modo di riprodurre le immagini per così dire ‘a colori’), divennero gli strumenti imprescindibili per la trasmissione delle immagini6. A partire dalla metà del secolo fu lo stesso Cosimo, coadiuvato dai pittori dell’Accademia del Disegno e dalla nobiltà a inviare i giovani artisti a Venezia, incoraggiandone gli studi e facilitando il loro inserimento alla ricerca di opere d’arte da studiare, ma eventualmente anche da comprare. Se Venezia costituiva una tappa obbligata per l’apprendimento artistico, la permanenza dei pittori-periti fiorentini, nell’interesse del collezionismo mediceo, si inseriva in un contesto di più ampia portata, facente parte di un istruttivo tour che coinvolgeva altri importanti centri italiani del Nord Italia come Bologna, Parma o Ferrara, dove gli artisti furono lì richiamati e attratti non solo per ammirare e studiare le opere dei Carracci, del Parmigianino o del Correggio, ma in molti casi ebbero anche incarichi di mediazione e di valutazione circa l’ opportunità di acquisto di opere dei maestri emiliani allora poste in vendita. Volterrano, Mehus, Baldi e Gabbiani, forti della loro personalità e conoscenza della «maniera lombarda» (con questo termine veniva allora definita genericamente la pittura veneta), furono dei travellers agent, disposti a viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, sostando nei grandi e piccoli centri per verificare la qualità delle opere, dipinti e disegni, conservati in collezioni private che erano state segnalate come degne di acquisto ai regnanti medicei.

Baldassare Franceschini detto il Volterrano (1611-1689)

Baldassare Franceschini detto il Volterrano, dalla città di origine che gli aveva dato i natali nel 1611, già utilizzato come esperto dal cardinale Leopoldo per il quale rilasciava sintetiche perizie7, era stato un intimo amico di Del Sera che lo aveva ospitato durante il suo primo soggiorno a Venezia che il Baldinucci fa risalire intorno alla primavera del 16408. Verso gli anni sessanta Franceschini aveva già raggiunto una certa notorietà come grande conoscitore di dipinti se, come narra sempre il Baldinucci, nel 1662 l’Arciduca Ferdinando Carlo d’Austria dopo una visita a Firenze, al momento della partenza volle «condurre seco il Volterrano per valersene nella compra di alcuni quadri, che aveva pensiero di fare

in varie città della Lombardia»9. Le competenze acquisite nel corso di decenni dal Franceschini gli permisero di essere considerato uno dei periti e stimatori più apprezzati tra i pittori toscani, spesso chiamato a valutare le quadrerie appartenute ai cortigiani

medicei, come avvenne nel 1675 quando, insieme al pittore Agnolo Gori, stimò l’importante raccolta appartenuta alla famiglia Niccolini, di cui Filippo (1586-1666) era stato al servizio del cardinale Giovan Carlo come maestro di camera e tra i quali si annoverano importanti opere, tra cui alcune tele di Salvator Rosa10. Nel corso della sua carriera il Volterrano espresse giudizi e opinioni valutative anche sui dipinti più antichi, come nel caso di un ritratto assegnato a Giovanni Bellini come pure per un altro riferito al Correggio, di cui dava ragguagli in una lettera a Leopoldo de’ Medici priva di datazione, ma risalente al 1672:

«Per discorrere sopra il Ritratto di Gio. Bellino, dico che circa il nome che vi è messo, io

ordinariamente non ne faccio gran conto, stando in arbitrio di qualsivoglia, in qualsivoglia tempo scrivervi ciò che le piace; è ben vero che io lo stimo certissimo di sua mano, essendo quella la sua maniera. Non asserisco però che sia il ritratto suo medesimo, non ne havendo riscontro alcuno, con tutto che lo creda, e possa essere. Circa quello del Correggio, ho dubbio grande possa essere di sua mano, perché di quella età che mostra il ritratto, quel grand’huomo haverebbe dipinto molto meglio. Che sia il ritratto del Coreggio, mi assicurerei quasi d’affermarlo, poiché parmi haver visto nelle stanze de i Ser.mi di Parma al Giardino un ritratto quanto il naturale [però testa sola], che mi fu asserito essere Antonio da Coreggio che molto somigliava questo piccolo. Questo è quanto so, e posso dire etc. Soggiungo che quel guardar in altra parte [come fa il ritratto del Coreggio] che verso chi lo ritrae, dà sospetto non esser il Pittor medesimo, non potendosi nello specchio veder gl’occhi in quella veduta. Rimettendomi»11.

Se per il presunto ritratto del Bellini, il Volterrano mostrava di non avere le competenze necessarie per poter confermare che si trattasse di un autografo «non ne havendo riscontro

alcuno», per quanto riguarda quello assegnato al Correggio e che il pittore accettava in

maniera dubbia, intervenivano nel giudizio anche motivazioni di natura strettamente tecnica, dettate dalla lunga pratica pittorica poiché a suo parere non poteva essere veritiero un autoritratto condotto allo specchio quando gli occhi dell’effigiato erano rivolti non verso il riguardante, ma fuori del campo visivo.

Nel suo viaggio condotto nell’Italia settentrionale dove ebbe occasione di soggiornare una seconda volta a Venezia come attesta una lettera di Del Sera al cardinal Giovan Carlo de’ Medici del 22 aprile 166212, il Volterrano grazie al fiorentino era riuscito ad ottenere dai procuratori della chiesa di Santa Maria della Salute la commissione della pala raffigurante l’Assunzione della Vergine da collocarsi sull’ altare maggiore della chiesa ma, atteso quattro anni e dopo che il pittore aveva già realizzato diversi studi preparatori, egli non tenne fede agli impegni presi. Di conseguenza Del Sera, che nutriva nei confronti del pittore toscano una stima infinita13, nel 1668 si vide costretto a restituire l’anticipo di 50 piastre d’argento (sulle 200 pattuite) che erano state devolute all’artista. Nella vicenda si intromise lo scaltro Luca Giordano, già residente nella città lagunare, che dipinse la pala per la chiesa veneziana in tempi rapidi, in anticipazione dunque al quadro che doveva giungere da Firenze. In evidente imbarazzo Del Sera, il quale aveva favorito la commissione dell’opera, chiese la restituzione del denaro e in caso di diniego sollecitava la realizzazione della pala

che a questo punto sarebbe stata presa da lui, ricorrendo alla mediazione di Leopoldo. La tela fu poi eseguita, ma non raggiunse mai Venezia anche a causa della morte dell’agente fiorentino avvenuta nel 1672, come riferisce implicitamente il Baldinucci. La grande pala, rimasta nello studio del pittore, doveva nelle intenzioni di Franceschini, essere donata alla cattedrale di Volterra, sua città natale e dalla quale ottenne la cittadinanza onoraria, ma l’iniziativa fu bloccata da Ferdinando de’ Medici che nel 1688 ottenne il dipinto acquisendolo alle sue collezioni. In seguito nel 1819 su richiesta di don Bernardo Kayser Vicario Generale della congregazione vallombrosiana sarà concessa da Ferdinando III di Lorena all’abbazia di Vallombrosa dove si trova attualmente (Fig. 43) in cambio di una Madonna e santi della scuola del Perugino oggi nella Galleria dell’Accademia14.

Paolo Del Sera fu uno dei più ferventi ammiratori del Volterrano come attesta non solo la sfortunata vicenda dell’ Assunzione, ma anche per la presenza di sue opere nell’inventario redatto dopo la morte del mercante fiorentino nel 1674, oggi non rintracciate15. Come risultato dei suoi proficui soggiorni veneziani il Franceschini eseguì una copia in piccolo «di filiggine

lumeggiata di biacca», oggi non rintracciata, della

grande pala con il Martirio di S. Pietro di Tiziano allora conservata nella basilica dei santi Giovanni e Paolo16 e alcuni disegni di soffitti delle chiese veneziane17.

Livio Mehus (1627-1691)

Mehus che assunse la carica di aiutante di camera di Mattias de’ Medici fu protetto oltre che da questi18 anche dal fratello Leopoldo19 e dal Gran Principe Ferdinando, l’ultimo dei suoi grandi ammiratori20. Inserito nell’entourage mediceo Livio divenne un consigliere artistico fidato per l’acquisto di opere d’arte specie per il cardinal Leopoldo che lo inviò a Bologna e a Modena per valutare e periziare dipinti allora in vendita sulla piazza

cittadina21. Ogni membro della corte medicea ebbe un suo quadro: la granduchessa

Vittoria della Rovere, moglie di Ferdinando II, il fratello del Granduca Cosimo III, il cardinale Francesco Maria, Mattias, Leopoldo e infine Ferdinando che ne ebbe il maggior

43. Baldassare Franceschini detto il Volterrano, Assunzione della Vergine, Vallombrosa (Reggello), chiesa abbaziale

numero22. La predilezione del Gran Principe per il pittore fiammingo non deve sorprendere poiché come ha ben evidenziato Francis Haskell:

«Mehus was by far the most Venetian of all the artists in his entourage ad his tremendous vivacity combined with a slightly troubled eroticism made an obvious appeal to Ferdinand. Only the death of his painter in 1691, before Ferdinand’s patronage had reached its fullest extent, can have prevented him working directly for the Grand Prince who sought to make amends for this neglect by assiduously collecting his canvas and living support to his son»23.

Seguendo lo spirito di emulazione del mecenatismo mediceo, le più importanti famiglie nobili fiorentine possedettero suoi quadri24. Le apprezzate tele del pittore furono spesso oggetto di scambio e doni tra i cortigiani e importanti aristocratici italiani e stranieri da parte dei principi medicei, i quali divennero veri e propri promoters della sua arte anche dopo la sua scomparsa25. Durante il soggiorno fiorentino nella primavera del 1709 il Re di Danimarca Federico IV ricevette in dono dal cardinale Francesco Maria de’ Medici, fratello del Granduca, quattro dipinti del pittore fiammingo26.

L’arte veneziana costituì per il pittore un punto di riferimento costante della sua arte. A proposito del disperso Baccanale di casa Gerini, fatto a quanto sembra in concorrenza con un esemplare di Ciro Ferri, visto da un «gran artefice» rimasto nell’anonimato - come narra il Baldinucci- «ebbe lode di non esser fatto inferiore a quello dello stesso Tiziano»; per l’Adorazione dei Magi del Guadagni era stato notato che «alcuni animali pajon veramente di

mano del Bassano», mentre infine per il Genio della pittura di casa D’Ambra, il Baldinucci

evidenziava come la composizione fosse scaturita dall’«affetto con che nell’essere a Venezia

fece i suoi studi intorno alle mirabili pitture del secolo di Tiziano» e in rapporto al suo pendant, il Genio della scultura sottolineava come l’ideazione di entrambe le tele esprimesse un

concetto proprio del pittore sintetizzato nel motto che se «a Roma si disegna, a Venezia si

dipigne»27.

Dopo un periodo di apprendimento trascorso a Roma presso la bottega di Pietro Da Cortona e Stefano Della Bella, il pittore fiammingo si era recato una prima volta a Venezia nel 1652 dove - stando sempre alla testimonianza di Baldinucci - si era trattenuto qualche

mese in compagnia del pittore senese Raffaello Vanni28. Su disegni di questi Mehus

inciderà alcuni fogli tra cui l’antiporta dell’opuscolo dal titolo l’Accademia Intronata festante per celebrare l’ascesa di Alessandro VII al Pontificato edito a Siena nel 165529. Un secondo e più prolungato soggiorno nella città lagunare è attestato nel 1659 quando Del Sera rispondeva a Averardo Ximenes, membro dell’Accademia fiorentina del Disegno, di provvedere all’assistenza del giovane artista, avendo:

«qui vicino di mia casa fatto accomodare detto Livio e trasferitomi seco nei luoghi dove sono l’opere

più cospicue dei pittori e perché il giovane abbi più comodità di studiare, gli farò tener compagnia a dipingere da un mio pittore, facendo conto che quanto prima vadino a lavorare in un Convento dove ho trovato comodità di fargli copiare una bella opera di Paolo Veronese. Fra tanto, quando vorrà,

potrà poi venir qui in casa a copiare alcuni pezzetti che gli buscherò de’meglio valent’uomini che qua sieno stati»30.

Nei numerosi incontri che Mehus «pittore del Serenissimo Principe Mattias» ebbe con Del Sera, quest’ultimo gli fece vedere un dipinto attribuito a Tiziano appartenente alla sua collezione raffigurante «una mezza figura di donna con un paese», «della maniera del San Pietro

martire e conservato esquisitamente», comprato per duecento scudi d’argento, ma il

corrispondente fiorentino non lo propose al principe essendo «non interamente finito e

piuttosto è in ordine di abbozzo», dipinto che fu visto anche da Stefano Della Bella, il quale lo

giudicò viceversa degno della galleria fiorentina31.

Un secondo soggiorno del pittore a Venezia si colloca dopo il 1661, quando, secondo il Baldinucci:

«Trattendosi diciotto mesi, sempre studiando in pittura, e copiando le grand’opere di Tiziano, Paolo

Veronese, Tintoretto e Bassano: e vi fermò quella bella maniera di colorire, che si riconosce nell’opere sue»32.

La permanenza del fiammingo, difficilmente quantificabile cronologicamente, dovette tuttavia protrarsi in un arco temporale ben più ampio, dal momento che Del Sera in una lettera a Leopoldo del 14 novembre 1665 ci informa che il pittore a quella data si trovava nuovamente in città in compagnia questa volta di Ciro Ferri, artista per il quale ancora una volta il fiorentino, come era avvenuto per il Mehus, fu incaricato della sua assistenza33. Ancora più tardi nel 1671 sempre Del Sera, rispondendo alla richiesta di Cosimo III di reperire opere di artisti veneziani nelle chiese cittadine, riferiva, dopo aver compulsato l’Indice delle pitture pubbliche redatto del Boschini, di aver messo gli occhi sull’Adorazione

dei Magi del Veronese allora conservata in San Silvestro (oggi alla National Gallery di

Londra) e se non si fosse trovata l’incisione che la illustrava (eseguita dal pavese Carlo Sacchi nel 1649) riferiva:

«che il signor Baldassar Franceschini e il signor Livio Meus, che l’hanno visto, e forse anche

copiato, sapranno dar fondata informazione a Vostra Altezza Serenissima della qualità di esso»34. Come era avvenuto per Volterrano, anche per Mehus, Del Sera riservò un apprezzamento

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