VETRINA
Van Gogh:
”Natura morta: romanzi francesi”, 1888 (part.)
Le Poesie d’amore di Nazim Hikmet
“Pioggia d’estate cade dentro di me…
piccioni d’argento volano dai miei tetti la mia terra corre coi piedi nudi
pioggia d’estate dentro di me senza rinfrescare la mia tristezza…”
L’amore in questo poeta è il percorso del suo vivere. Canta non solo amore, ma battaglie, soprusi, lontananza, esilio, rifugio. In lui all’estrema dolcezza orientale si fondono ritmi crudi legati all’occidente. I lunghi anni in carcere a Bursa (Anatolia) e la libertà passata da esule prevalentemente in Russia, creano una visione di assenza e nostalgia forti. Saggiare la dimensione del silenzio; assaporarne il fascino. Un silenzio non delimitato dai muri di una casa o di una cella ma puro e filtrato che rende consapevoli anche se non credenti dell’esistenza di qualcosa o qualcuno sopra di noi: un Dio Ittita, Assiro, Mussulmano o il Dio della Bibbia. Il poeta è un viandante e il suo cammino è lento perché volto alla ricerca di qualcosa d’indefinito. Nel suo esilio, vivo costantemente il ricordo delle acque cangianti del Bosforo, le distese di campi arati nel solo che muore, donne vestite di colori vivaci che lavorano questa terra immensa, la calura estiva e i gelidi inverni. Flauti in lontananza, tempi d’amore e di guerra.
Ci possiamo chiedere quando e perché è sorta in Nazim Hikmet la necessità di scrivere poesia.
In una lettera del 20 dicembre 1961 da Stoccolma all’amica Joyce Lussu sua traduttrice: “Mi domandi perché scrivo delle poesie? Sarebbe più giusta la domanda in altro modo. Perché e come ho cominciato a scrivere delle poesie.
Cerco di ricordare”.
L’infanzia a Istambul e per lui l’importanza di essere il nipote di un nonno poeta che apparteneva alla setta dei Mevlevé, dervisci vagabondi. Il loro nome derivava dal poeta Mevlana. Sicuramente in lui la poesia era nata come tradizione. Una casa colta, e nelle orecchie la voce della madre che recitava Baudelaire e Lamartine in francese; parole o, meglio, suoni nello scorrere del tempo che si addensavano in lui e che poi avrebbero assunto una forma propria.
L’ascolto è importante perché si assimilano le emozioni costruendo fantasie che avrebbero poi assunto forma lirica. In casa venivano anche lette le poesie di un grande poeta turco: YaYa Kemal. Le sere si animavano di parole. Questo
67 poeta forse innamorato della madre di Nazim, era anche suo professore all’Accademia navale. Crescere in un clima permeato di versi apriva una strada seducente tra fantasia e realtà. La prima poesia fu pubblicata a 17 anni;
corretta da Yaya Kemal. Si presentava così:
Ho sentito un lamento sotto i cipressi
mi sono chiesto, c’è qualcuno che piange qui?
o è il vento che si ricorda di un amore passato in questo luogo solitario?
La musicalità di questi versi porta il pensiero a Lamartine. Le letture della madre nelle lunghe sere invernali, avevano lasciato un’impronta nella sensibilità poetica di Hikmet.
Ma perché riandare verso queste scene lontane?
Lasciamo che il vento gema e che l’onda sussurri!
Tornate, tornate, miei tristi pensieri.
Voglio sognare, non voglio piangere!
(Da “Graziella” di Lamartine)
Lettere dal carcere a Munevvér
Lunghi, lunghissimi anni e la parola e l’immaginazione che riempiono i giorni e le fantasie. Il più bello è il non ancora vissuto. Il pensare che anticipa le parole si addensa nel desiderio: “E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto”. Amore che prevarica la fisicità; è avventura, audacia, lontananza: “amo in te l’impossibile ma non la disperazione”. Potrebbe definirsi un amore che dal rinserro di una prigione si libra alto e vede il cielo, l’erba, l’insetto, e le cicogne che volano. Amore, inteso come libertà; quella libertà da lui voluta e per la quale ha lottato. Il biondo poeta dagli occhi di cielo è uomo tra gli uomini. Non vi è alcuna scissione tra la passione per la sua donna e l’essere umano che lotta e la lotta è sembiante d’amore. Si dipanano lenti gli anni dal 1938 al 1950 e lui che immagina la sua donna nell’attesa: luce di speranza per i suoi giorni bui. Donna, la sua donna, ma lo è anche Istambul: “la voluttà della mia città nel tuo sguardo…”; moglie vista come sua sultana, signora; un bacio sulla sua guancia, un suo respiro è come respirare, baciare Istambul. Fisicità e corposità della città agognata come donna. Il poeta vorrebbe addormentarsi e svegliarsi tra cento anni. È triste ma anche bello vivere in un secolo “coraggioso grande ed eroico”. E non importa che “la sua terribile notte” sia “lacerata dai gridi dell’alba” perché il suo secolo, il ‘900 splenderà di sole come gli occhi della sua donna. Donna che gli appare come luna tra nuvole mentre il vento “non agita/ due volte lo stesso ramo”. È tutto lontano ma “il banchetto della miseria finirà”.
L’importanza per Nazim Hikmet delle parole impregnate della presenza della moglie: madre, amore, amica; parole coraggiose, parole paragonate agli uomini. Per lui la donna amata ha gli occhi come le spighe di Antalya di maggio; occhi nudi e immensi “come gli occhi di un bimbo”; occhi del colore d’autunno come i castagneti di Bursa; ma quello che è più importante: vedere in un futuro gli uomini guardarsi fraternamente con gli occhi dai lampi verdi
68 di Munnevér: “I tuoi occhi, i tuoi occhi, i tuoi occhi/ che tu vengo all’ospedale o in prigione/ nei tuoi occhi porti sempre il sole”.
Nel 1950 Nazim Hikmet viene rimesso in libertà dopo tredici lunghi anni.
Inizia per lui una dimensione diversa di vita. È libertà ma lontano da Istambul.
In esilio
Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti.
Arrivederci fratello mare mi porto un po’ della tua ghiaia un po’ del tuo sale azzurro un po’ della tua infinità e un pochino della tua luce e della tua infelicità (Varna 1951)
Per lui una erranza dove è quasi sempre impossibile dormire: sono troppo le stelle in cielo “troppo lucide, troppo vicine…/ per via dei fantasmi/ venuti da Istambul/ sorti dal Bosforo/ che invadono la stanza…”. “Una barca passa davanti a Varna/ ohilà, figli d’argento del Mar Nero!/ una barca scivola verso il Bosforo./ Nazim dolcemente carezza la barca/ e si brucia le mani”.
Le strade che percorre sono lunghe come il vento, e gli odori, i paesaggi non alleviano la sua tristezza. Giunge a Sophia, città natale di Munnevér; era un giorno di primavera e profumo di tigli. Ma lei non è accanto a lui e lui ricorda a Istambul a Scehsadebasci, la sera e le strade dove sciamanno donne, vecchi, giovani, bambini a braccetto. Ma sono tempi andati, fughe di anni.
Lui, un giorno di primavera è entrato nella città natale della sua donna ma anche là non può scordare la sua casa perduta. “È un duro mestiere, l’esilio, un duro mestiere…”. Sarà Mosca la sua dimora e in lui “il tempo rimane/
come una rosa rossa odorosa/ che oggi sia venerdì domani sabato/ che il più di me sia passato che resti il meno/ non importa”. La tristezza grava sulle sue spalle: “è una camicia di tela da vela/ lavata dall’acqua di mare…”. Le notti sono diventate lunghe e senza stelle; non vede fine alla infinita separazione da un tempo che fu. “Nell’aria una melodia orientale come le acque del Bosforo./ Sono sulla collina/ e il mio cuore come una zattera/ si allontana…/
va oltre i ricordi/ fino al mare pesante senza stelle/ nelle tenebre fitte”. Alla speranza si alternano speranza, malinconia, nostalgia. Il suo cuore è sempre più debole per i passati infarti ma ricolmo di amore per la sua donna – Istambul. Niente più della lontananza accresce l’amore che diventa arsura incontrollabile. Lui è solo. Con lui la carta e la macchina da scrivere; nei suoi occhi, il sangue sui marciapiedi delle città dove lui è passato e le sue mani lasciano tracce di sangue sui muri… Invoca ormai la morte. La nostalgia è sua compagna, ombra a lui accanto nel buio. Sia che lui viaggi o che si fermi, nulla gli resta se non il rimpianto di bianche di neve. A Mosca sotto la pioggia ha veduto camminare la primavera “con i suoi piedi esili e lunghi…”. Il suo elettrocardiogramma pessimo. Il 3 giugno del 1963 verso le nove del mattino Nazim Hikmet muore solo. Lo trovano accasciato accanto alla porta che era socchiusa…
Il mio funerale partirà dal nostro cortile?…
Il cortile sarà forse pieno di sole, di piccioni…
69 i bambini giocheranno strillando
forse sull’asfalto bagnato cadrà la pioggia…”
(Il mio funerale – maggio 1963) La tua poesia Hikmet è solo amore, sublimata nella bruma di Istambul.
Mi rivedo, in un tempo lontano, al crepuscolo su un battello che scivolava sul Bosforo. Dietro di me le isole dei Principi luccicavano in penombra.
L’umanità tua e del tuo polo è viva e calda come il grano. – Allah Korusun (proteggici) forse, ti porterà lontano agli scalini del cielo.
Ho i visto i poveri comprare il mangime per nutrire i colombi. Sono stata ringraziata per un sorriso.
Anna Vincitorio
Il suo testo da me esaminato: Poesie d’Amore – Mondadori, Milano, 1999.
Parti del testo: Rubaì – Istambul 1933; Lettere dal carcere a Munevvér; Fuori dal carcere; In esilio; Uno strano viaggio; Autobiografia 1962; Poemetti; Rubayat; Don Chisciotte; Alla vita;
Poesie sulla morte.
NAZIM HIKMET Nasce a Salonicco nel 1902. Negli anni ‘20 visse in Russia aderendo alle avanguardie e in particolare a Majakovskij. Nel 1938 viene condannato a una lunga detenzione perché si opponeva ad Ataturk. Ottiene la libertà nel 1950. Si stabilisce a Mosca dove muore il 3 giugno del 1983 al n°6 della via Pesciànaya.
Nome del figlio: Mehmet; della moglie Munevvér. Personalità poliedrica:
poeta, autore di teatro, romanziere, saggista, giornalista.