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Polinomi ed equazioni algebriche 1. Campi di scalari

Introduciamo in questo paragrafo i concetti astratti di corpo e di campo, o corpo commutativo. Gli insiemi R dei numeri reali, Q dei numeri razionali e C dei numeri compessi, con le usuali operazioni di somma e prodotto, sono esempi di campi. L’iniseme H dei quaternioni di Hamilton (vedi Esempio 9.3 del Cap.5 e §1 del Cap.22) `e un esempio di corpo non commutativo.

Definizione 1.1. Chiamiamo corpo un insieme K, che contenga almeno due elementi 0, 1 e su cui siano definite due operazioni interne

K × K 3 (k1, k2) −→ k1+ k2∈ K, (somma) K × K 3 (k1, k2) −→ k1· k2∈ K, (prodotto), che godono delle propriet`a1

∀k ∈ K, 0 + k = k + 0 = k, (S1) ∀k ∈ K, ∃! (−k) ∈ K tale che k + (−k) = (−k) + k = 0, (S2) ∀k1, k2, k3∈ K, (k1+ k2)+ k3= k1+ (k2+ k3), (S3) ∀k1, k2∈ K, k1+ k2= k2+ k1, (S4) ∀k ∈ K, 1 · k = k · 1 = k, (P1) ∀k ∈ K \ {0}, ∃! k−1∈ K tale che k · k−1= k−1· k= 1, (P2) ∀k1, k2, k3∈ K, (k1· k2) · k3 = k1· (k2· k3), (P3) 0 · 1= 1 · 0 = 0, (D0) ∀k1, k2, k3∈ K, k1· (k2+ k3)= k1· k2+ k1· k3, (D1) ∀k1, k2, k3∈ K, (k1+ k2) · k3= k1· k3+ k2· k3, (D2)

Un corpo K si dice un campo, o corpo commutativo se il suo prodotto `e commuta-tivo, se vale cio`e

∀k1, k2∈ K, k1· k2 = k2· k1. (P4)

La propriet`a associativa ci permette di considerare somme e prodotti di un arbitrario numero finito di elementi di K, senza dover scrivere le parentesi che indichino l’ordine in cui debbano essere eseguite le operazioni.

1Si usa sempre la convenzione che, a meno di parentesi che indichino un ordine diverso, si devono eseguire prima i prodotti e poi le somme.

Con gli elementi di un campo si possono svolgere le usuali operazioni alge-briche, ricordando che queste hanno tutte le familiari propriet`a di quelle in cui si utilizzano i numeri razionali, reali e complessi.

I campi sono, rispetto all’addizione, dei gruppi abeliani. In particolare, pos-siamo definire su di essi la moltiplicazione h·k di un qualsiasi elemento k per un numero intero h come la somma di |h| copie di k se h `e positivo, o del suo opposto se h `e negativo. Diciamo che K ha caratteristica 0 se h·k=0, con k∈K\{0}, h ∈ Z, implica che h = 0. Se questo non `e il caso, si verifica che c’`e un numero primo p per cui l’equazione h·k=0, con k , 0, implica che h sia un multiplo di p. Diciamo allora che K ha caratteristica finita p. Gli insiemi Zp delle classi di resto degli interi rispetto ad un numero primo p, con le operazioni che si deducono dalla som-ma e dal prodotto d’interi, sono gli esempi pi`u semplici di campi di caratteristica positiva.

Se possiamo definire un omomorfismo φ : K→K0 tra due campi, cio`e un’ap-plicazione che trasformi lo 0 e l’1 di K in quelli di K0e trasformi somme e prodotti in K nelle somme e prodotti dei corrispondenti elementi di K0, allora K e K0hanno la stessa caratteristica e la φ `e un’applicazione iniettiva. Identificando gli elementi di K alle loro immagini in K0, potremo considerare K some un sottoinsieme di K0

e diremo che K0 `e un’estensione di K. Ad esempio, possiamo considerare i numeri reali come i numeri complessi che hanno parte immaginaria nulla. Torneremo sulla nozione di estensione di campi nel §11.

2. Polinomi di una variabile

Un polinomio della variabile x a coefficienti in un campo di scalari K `e una somma finita

(2.1) f(x)= a0xm+ a1xm−1+ · · · + am−1x+ am, i cui termini sono prodotti di scalari di K e di potenze della x.

La x si dice variabile o indeterminata. Gli addendi non nulli am− jxj sono i termini e gli scalari ai i coefficienti di f . Il coefficiente a0 , 0 del monomio di grado massimo si dice coefficiente direttore. Se f , 0, l’intero m `e il grado di f, che indichiamo con deg( f ). Il grado del polinomio nullo `e, per convenzione, −∞. In questo modo, il grado di un prodotto `e la somma dei gradi e quello di una somma non supera il massimo tra i gradi degli addendi.

In algebra si preferisce chiamare la x indeterminata, piuttosto che variabile, per sottolineare il fatto che non la pensiamo come un elemento di un dominio fissato a priori: potremo calcolare il valore di f sostituendo ad x un qualsiasi oggetto matematico λ per cui abbia senso l’espressione

f(λ)= a0λm+ a1λm−1+ · · · + am−1λ+ am.

In particolare, λ potrebbe appartenere ad un campo K0 di scalari pi`u o meno am-pio di K; ad esemam-pio, i coefficienti di f potrebbero essere numeri razionali e λ un numero complesso, oppure i coefficienti complessi e λ reale. In generale, λ potreb-be essere un elemento di un’algebra su K, un insieme cio`e in cui siano possibili le operazioni interne di somma e prodotto e di moltiplicazione di un suo elemento per

uno scalare di K. Un esempio di algebra reale sono le funzioni reali continue su un intervallo, ed in questo caso la valutazione di un polinomio reale f su una funzione continua g `e semplicemente la composizione f ◦ g. In particolare ci sar`a utile, in algebra lineare, calcolare il valore che i polinomi assumono su matrici quadrate o endomorfismi di uno spazio vettoriale.

Le diverse potenze 1, x, x2, . . . della x si considerano tra loro linearmente indi-pendenti. Ci`o si taduce nel principio d’identit`a dei polinomi, per cui due polinomi sono uguali se e soltanto se hanno tutti i termini uguali.

Notazione 2.1. Indichiamo con K[x] l’insieme di tutti i polinomi della variabile xa coefficienti in K.

I polinomi si possono sommare e moltiplicare tra loro, con le regole usuali, e con queste operazioni diciamo che K[x] `e un anello commutativo e unitario e un dominio d’integrit`a[questo significa che, affinch´e il prodotto di due polinomi sia nullo, occorre che almeno uno di essi lo sia. Per la nozione astratta di anello, vedi il Cap. 20].

Definizione 2.1. Se K0 `e un’estensione del campo K degli scalari, cio`e un campo di scalari che contiene tutti gli elementi di K, un suo elemento λ per cui (2.2) f(λ)= a0λm+ a1λm−1+ · · · + am−1λ+ am= 0

si dice una radice o uno zero di f in K0.

Ad esempio, f (x) = x2+ 1 `e un polinomio reale e l’unit`a immaginaria i una sua radice in C.

A Ruffini2si attribuisce il seguente teorema.

Teorema 2.2 (Ruffini). Condizione necessaria e sufficiente affinch´e λ ∈ K sia una radice del polinomio f ∈ K[x] `e che vi sia un polinomio q ∈ K[x] tale che

(2.3) f(x)= (x − λ) · q(x).

Dimostrazione. Per ogni scalare λ ∈ K, possiamo trovare un polinomio q∈K[x] tale che

(2.4) f(x)= (x − λ) q(x) + f (λ).

Lo scalare f (λ) `e cio`e il resto della divisione di f per (x − λ) (vedi pi`u avanti il Teorema 7.1). Per verificare la (2.4), possiamo ragionare per induzione sul grado di f . Se f ha grado minore di zero, allora `e il polinomio zero e la formula vale, per ogni λ ∈ K, con q = 0. Un polinomio di grado zero non ha radici e quindi la formula `e banalmente vera in questo caso. Per un polinomio di primo grado, se

a0λ+ a1 = 0, con a0, 0, allora

a0x+ a1= a0(x − λ)

2Paolo Ruffini (1765-1822), medico e matematico italiano, nato a Valentano, in provincia di Viterbo e professore a Modena.

e dunque la formula vale per tutti i polinomi di grado minore o uguale ad uno. Se f(x)= a0xm+ · · · ha grado m>1, allora

(∗) f(x) − a0(x − λ)·xm−1 = g(x)

ha grado minore di m. Se facciamo l’ipotesi induttiva che la (2.4) valga per po-linomi di grado minore di m, potremo trovare un popo-linomio q0 ∈ K[x] per cui g(x)= (x−λ)·q1(x)+ g(λ). Dalla (∗), calcolando i due membri per x = λ, troviamo che g(λ)= f (λ). Otteniamo quindi la (2.4) con q(x) = a0xm−1+ q1(x).  Osservazione 2.3. Per la divisione di f per il binomio (x−λ) si pu`o utilizzare lo schema: a0 a1 a2 . . . am−1 a0λ a1λ . . . am−2λ a0λ2 a1λ2 . . . am−3λ2 ... ... ... a0λm−2 a1λm−2 a0λm−1 0 b0 b1 b2 . . . bm−2 bm−1 am am−1λ am−2λ2 ... a2λm−2 a1λm−1 a0λm r

dove bi = a0λi+· · ·+ai, somma dei coefficienti della colonna i-esima che gli stanno sopra, `e il coefficiente di xm−idel quoziente q(x), mentre lo scalare somma di quelli della colonna fuori dalle sbarre d`a il resto r= f (λ).

Per il teorema di Ruffini, se un polinomio non nullo f ∈ K[x] ha una radice λin K, o, pi`u in generale, in una sua estensione K0, allora c’`e un intero positivo k tale che

(2.5) f(x)= (x − λ)k

g(x), per un polinomio g ∈ K0[x], con g(λ) , 0. Definizione 2.2. L’intero positivo k nella (2.5) si dice la molteplicit`a della radice λ di f . Una radice con molteplicit`a maggiore di uno si dice multipla.

Se K `e un’estensione del campo dei razionali (ad esempio Q, R, C) possiamo definire le derivate dei polinomi a coefficienti in K. Se f `e definito da (2.1), allora la sua derivata prima `e il polinomio

(2.6) f0(x)= d f(x)

dx = m a0xm−1+ (m − 1) a1xm−2+ · · · + 2 am−2x+ am−1. Le derivate successive si definiscono per ricorrenza:

(2.7) f(h)(x)= dhf(x)

dxh = d f(h−1)

dx , per h ≥ 2.

Proposizione 2.4. Se K `e un’estensione dei razionali, le radici multiple di un polinomio f ∈ K[x] sono tutte e sole quelle comuni ad f e ad f0.

Dimostrazione. La derivazione dei polinomi soddisfa la regola di Leibnitz per la derivazione di un prodotto. Se λ `e una radice di f con molteplicit`a k ≥ 1, derivando la (2.5), otteniamo

f0(x)= k(x − λ)k−1g(x)+ (x − λ)k

g0(x).

Se k= 1, allora f0(λ)= g(λ) , 0, mentre se k > 1 `e f0(λ)= 0.  Osservazione 2.5. In questo caso, la molteplicit`a di λ `e il pi`u piccolo numero naturale k per cui f(k)(λ) , 0.

3. Equazioni a coefficienti razionali

Un polinomio f (x) a coefficienti razionali si pu`o sempre scrivere nella forma f(x)= c · g(x), ove c ∈ Q e g(x) ∈ Z[x] `e un polinomio a coefficienti interi

(3.1) g(x)= a0xm+ a1xm−1+ · · · + am−1x+ am

con MCD(a0, . . . , am) = 1, cio`e non tutti divisibili per uno stesso numero intero diverso da ±1. Per la ricerca delle eventuali radici razionali di f , ovvero di g, utilizziamo la seguente

Proposizione 3.1. Siano (3.1) un polinomio a coefficienti interi e p, q due interi primi tra loro. Se p

q `e una radice razionale di g(x), allora p divide ame q divide a0. Dimostrazione. Se p

q `e una radice razionale di g(x), allora a0pm+ a1pm−1q+ · · · + am−1pqn−1+ amqm= 0. Poich´e abbiamo supposto che p e q fossero primi tra loro, da

a0pm= q(−a1pm−1− · · · − am−1pqm−2− amqm−1), amqm= p(−a0pm−1− a1pm−2q − · · · − am−1qm−1),

segue che q divide a0e p divide am. 

4. Equazioni di terzo grado

4.1. Polinomi di terzo grado a coefficienti reali. Un polinomio di terzo gra-do a coefficienti reali ha la forma

(4.1) f(x)= ax3+ bx2+ cx + d, con a, b, c, d ∈ R ed a , 0.

L’equazione f (x) = 0 ha sempre una soluzione reale. Possiamo determinare il numero di radici reali di f , calcolando i valori degli eventuali massimi e minimi locali della funzione y= f (x). La derivata prima di f `e

f0(x)= 3ax2+ 2bx + c.

Se f0non ha radici reali, ovvero se ne ammette una sola (con molteplicit`a due), il segno della derivata prima `e costante; la f `e in questo caso strettamente crescente o decrescente, ed ammette quindi una ed una sola radice reale.

Se f0ha due radici reali distinte x1< x2, esse corrispondono a punti in cui f (x) ha un massimo e un minimo locali. La f `e perci`o strettamente monotona sugli

intervalli (−∞, x1], [x1, x2] ed [x2, +∞). C’`e quindi una radice reale in ciascuno degli intervalli

(−∞, x1), (x1, x2), (x2, +∞) ai cui estremi f ha limiti di segni opposti. Abbiamo cio`e

a · f(x1) > 0 ⇐⇒ f ha una radice nella semiretta ] − ∞, x1], f(x1) · f (x2) < 0 ⇐⇒ f ha una radice nell’intervallo ]x1, x2[,

a · f(x1) < 0 ⇐⇒ f ha una radice nella semiretta ]x2, ∞[ f(x1)= 0 ⇐⇒ f `e divisibile per (x − x1)2,

f(x2)= 0 ⇐⇒ f `e divisibile per (x − x2)2. Negli ultimi due casi f ed f0hanno una radice comune3.

In campo complesso, f ammette tre radici, contate con le loro molteplicit`a. Se f ha coefficienti reali, la coniugata di una sua radice `e ancora una sua radice: se ammette una radice λ1 non reale, allora λ2 = ¯λ1 , λ1 `e un’altra radice non reale da essa distinta. Perci`o un polinomio di terzo grado reale che abbia una radice non reale, ha necessariamente tre radici distinte in campo complesso. In particolare, se

f ha una radice doppia, allora ha solo radici reali. Vale quindi la

Proposizione 4.1. Sia f (x) ∈ R[x] un polinomio reale di terzo grado e siano x1, x2 le radici (in campo complesso) di f0(x). Allora il prodotto f (x1) f (x2) `e reale e

se f(x1) f (x2) > 0, allora f ha una radice reale e due complesse coniugate distinte, se f(x1) f (x2) < 0, allora f ha tre radici reali distinte,

se f(x1) f (x2)= 0, allora f ha tre radici reali, di cui almeno due coincidenti. Dimostrazione. Se x1, x2 non sono reali, allora x2 = ¯x1, f (x2) = f (x1) ed f(x1) f (x2) = | f (x1)|2 > 0, perch´e f non pu`o avere radici non reali di moltepli-cit`a due.

Consideriamo ora il caso in cui x1ed x2siano reali. Non `e restrittivo supporre che nella (4.1) sia a > 0. Allora f `e decrescente in [x1, x2] e quindi f (x1) > f (x2). Quindi, se f (x1) f (x2) < 0, allora f (x1) > 0 ed f (x2) < 0, e ciascuno degli intevalli (−∞, x1), (x1, x2), (x2, +∞) contiene una radice di f . Se invece f (x1) f (x2) > 0, si possono dare due casi: o f (x1) ed f (x2) sono entrambi negativi e l’unica radice rea-le appartiene all’intervallo (x2, +∞), oppure f (x1) ed f (x2) sono entrambi positivi e l’unica radice reale appartiene all’intervallo (−∞, x1).

Se f (x1), o f (x2) fosse uguale a zero, f ammetterebbe una radice reale λ= xi

con molteplicit`a ≥ 2. Allora sarebbe f = (x − λ)2g(x) per un polinomio reale g(x),

3Per la ricerca di eventuali radici comuni di f ed f0

possiamo utilizzare l’algoritmo di divisione di Euclide: f(x)= q(x) f0 (x)+ r(x), con q(x) =1 3x+1 9(b/a) ed r(x)=1 3x+1 9(b/a). L’eventuale radice comune sarebbe la radice −b

che, essendo di primo grado, avrebbe una radice reale. La f avrebbe in questo caso solo radici reali, di cui almeno una con molteplicit`a maggiore o uguale a due. 

Ricavando esplicitamente x1ed x2si ottiene

f(x1) f (x2)= −18 abcd − 4 b3d+ b2c2− 4 ac3− 27 a2d2

27a2 .

Definizione 4.1. Si dice discriminante del polinomio di terzo grado (4.1) il numero

∆ = 18 abcd − 4 b3d+ b2c2− 4 ac3− 27 a2d2.

Utilizzando la nozione di discriminante possiamo riformulare la Proposizio-ne 4.1 Proposizio-nella forma:

Proposizione 4.2. L’equazione f (x) = ax3+ bx2+ cx + d = 0 ammette tre radici reali distinte se∆ > 0,

tre radici reali, di cui una con molteplicit`a almeno due, se∆ = 0, una sola radice reale e due complesse coniugate se∆ < 0.

 5. Formule di Cardano

Nel ricavare le formule di Cardano4, che rappresentano le radici di un polino-mio di terzo grado (4.1) per mezzo di radicali, possiamo supporre che i coefficienti a, b, c, d siano complessi.

Se poniamo x = t − b

3a, l’equazione cubica f (x) = ax3 + bx2+ cx + d = 0 assume la forma ridotta

(5.1) g(t)= t3+ pt + q = 0,

con

(5.2) p= 3ac − b2

3a2 , q= 2b3− 9abc+ 27a2d

27a3 .

La somma delle radici di una cubica ridotta `e uguale a zero e, viceversa, un polinomio di terzo grado monico5`e una cubica ridotta se, e solo se, la somma delle sue radici `e nulla.

Il discriminante di g assume la forma semplificata

(5.3) ∆ = −4p3− 27q2.

Poniamo t = u + v, per due nuove variabili u, v. Sostituendo nella (5.1), otteniamo la

u3+ v3+ (3uv + p)(u + v) + q = 0.

4Girolamo Cardano (1501-1576), scienziato pavese, pubblic`o le formule risolutive delle equazioni di terzo e quarto grado nell’Ars Magna stampata nel 1545.

Se imponiamo la condizione aggiuntiva che sia 3uv+ p = 0, otteniamo che        u3+ v3= −q, u3v3 = −p3 27.

Quindi u3e v3sono le soluzioni dell’equzione di secondo grado6nell’incognita ζ: ζ2+ qζ − p3

27 = 0. Le soluzioni di g(t)= 0 si possono quindi ottenere da

u3 = −q 2+ r q2 4 + p3 27, v3 = −q 2 r q2 4 + p3 27,

ove si `e fissato uno dei valori della radice quadrata (ad esempio quella reale non negativa, se R 3 ∆ = −(27q2+ 4p3) ≤ 0, o altrimenti quella con parte immaginaria positiva). Quando p = 0, le radici di g sono le tre radici cubiche, in campo com-plesso, di (−q). Se si esclude questo caso, `e uv , 0 e la v si esprime in funzione di u mediante v = −p/(3u). Se p , 0, dalle tre radici cubiche distinte in campo complesso u1,2,3= 3 s −q 2 + r q2 4 + p3 27. otteniamo le tre radici di g nella forma

ti = uip 3ui

, per i= 1, 2, 3.

Esempio 5.1. Nelle formule di Cardano compaiono radicali di numeri com-plessi anche quando le radici del polinomio siano tutte reali. Consideriamo ad esempio

g(t)= t3− 7t+ 6,

che ha le tre radici reali −3, 1, 2. Le formule di Cardano danno

u1,2,3= 3 s −3+ r 9 −343 27 = 3 s −3+ r −100 27 = 3 s −3 ± i√10 27

e non `e immediato riconoscere che i radicali ui+ 7/(3ui), per i= 1, 2, 3, rappresen-tano i numeri −3, 1, 2. Per questo spesso si preferisce, nel caso si debbano studiare equazioni a coefficienti interi o razionali, cercare prima le eventuali soluzioni razio-nali con il metodo del §3, o, nel caso di polinomi reali, soluzioni reali approssimate con metodi ricorsivi.

6Ricordiamo che le soluzioni (ξ, η) del sistema ξ+ η = α, ξη= β,

sono le coppie di radici dell’equazione di secondo grado nell’incognita ζ: ζ2− αζ+ β = 0.

6. L’equazione di quarto grado

Il matematico bolognese Ludovico Ferrari (1522-65), allievo di Cardano, trov`o un procedimento per esprimere le soluzioni dell’equazione di quarto grado median-te radicali delle soluzioni di un’equazione di median-terzo grado (detta risolvenmedian-te) ad essa associata. Illustriamo brevemente il suo metodo.

L’equazione generale di quarto grado si scrive nella forma

(6.1) f(x)= ax4+ bx3+ cx2+ dx + e = 0, con a, b, c, d, e ∈ C ed a , 0. Sostituendo t= x − b

4a, trasformiamo la (6.1) nella forma ridotta

(6.2) g(t)= a−1f t − b

4a !

= t4−αt2−βt − γ = 0, in cui i coefficienti α, β, γ hanno espressioni polinomiali in b

a,c a,d

a,e a. Riscriviamo la g(t)= 0 nella forma

t4= αt2+ βt + γ.

Questa si ridurrebbe ad una coppia di equazioni di secondo grado se il secondo membro fosse il quadrato di un binomio. In generale, possiamo ricondurci ad una situazione di questo tipo cercando un numero complesso k tale che, aggiungendo 2kt2+ k2 al secondo membro questo diventi il quadrato di un binomio: la (6.2) divenga cio`e equivalente alla

(t2+ k)2= (α + 2k)t2+ βt + (γ + k2)= (pt + q)2, con p, q ∈ C.

La condizione per cui ci`o avvenga `e che il discriminante del polinomio di secondo grado a secondo membro sia nullo, che cio`e

(6.3) 4(γ+ k2)(α+ 2k) − β2= 8k3+ 4αk2+ 8γk + 4α2−β2= 0.

Quest’equazione di terzo grado in k si dice la risolvente cubica della (6.2). Le formule di Cardano ci permettono di esplicitare una sua soluzione k, e quindi anche pe q, mediante espressioni algebriche7dei suoi coefficienti. Le quattro soluzioni di (6.2) sono allora le soluzioni di una delle due equazioni di secondo grado

t2− pt+ (k − q) = 0, oppure t2+ pt + (k + q) = 0.

7Chiamiamo espressioni algebriche quelle che si possono costruire combinando numeri interi e variabili attraverso le operazioni di addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione, estrazione di radice. Questo concetto `e pi`u restrittivo di quello di funzione algebrica, che comprende tutte le corrispondenze che possono essere descritte da relazioni polinomiali. Ad esempio, l’‘equazione y5+y4+x = 0 descrive una funzione algebrica y = f (x) (che Galois e Abel hanno dimostrato non avere un’espressione algebrica). Osserviamo che per alcuni valori di x il valore di y non `e univocamente determinato e quindi le funzioni algebriche non sono funzioni nel senso della teoria degli insiemi. Nell’esempio considerato, f (x) ha tre valori (rami) reali distinti se 0 < x < 44/55. In generale, le funzioni algebriche si considerano in campo complesso e la nostra f assume allora in quasi tutti i punti 5 valori complessi distinti. Inoltre, possono esserci dei valori di x per cui non ci sono valori di yche soddisfino l’equazione: la xy= 1 d`a una y = y(x) = 1/x definita per x , 0.

Il procedimento di Ferrari permette quindi di rappresentare le quattro soluzioni di (6.1) mediante un’espressione algebrica.

7. Divisione con resto e massimo comun divisore di polinomi

Uno strumento fondamentale nello studio dei polinomi di una variabile con coefficienti in un campo `e la divisione con resto.

Teorema 7.1. Se f, g ∈ K[x] sono due polinomi di una variabile x con coeffi-cienti in un campo K e g , 0, allora sono univocamente determinati due polinomi q, r ∈ K[x] tali che (7.1)        f(x)= q(x)g(x) + r(x), deg(r) < deg(g).

Dimostrazione. Dimostriamo in primo luogo l’esistenza di q ed r. Se g ha grado 0, allora `e uno scalare a, diverso da 0, di K la divisione in (7.1) ci d`a

q= a−1· f ∈ K[x] ed r(x) = 0.

Consideriamo ora il caso in cui g abbia grado m maggiore di 0. Ragioniamo per induzione sul grado n di f . Se deg( f ) < m, allora possiamo porre in (7.1) q(x)= 0 ed r(x) = f (x). Supponiamo quindi che f abbia grado n maggiore o uguale ad m e che la divisione con resto (7.1) sia sempre possibile se il polinomio da dividere per g ha grado minore di n. Se f (x) = a·xn + f1(x) e g(x) = b·xm+ g1(x), con f1, g1∈ K[x] e deg( f1) < n e deg(g1) < m, allora h(x)= f (x) − (a/b)xn−mg(x) `e un polinomio di grado minore di n. Per l’ipotesi induttiva, possiamo trovare polinomi q1, r in K[x], con deg(r) < m, tali che h(x) = q1(x)g(x)+ r(x). Otteniamo allora la (7.1) con q(x)= (a/b)xn−m+ q1(x).

Verifichiamo l’unicit`a. Se fosse f (x)= q(x)g(x) + r(x) = η(x)g(x) + ρ(x), con q, η, r, ρ ∈ K[x] e deg(r) < m, deg(ρ) < m, allora

r(x) − ρ(x)= (q(x) − η(x))g(x).

Questo di dice che r−ρ=0 e q−η=0, perch´e altrimenti deg((q−η)g) ≥ m

contraddi-rebbe deg(r−ρ) ≤ max(deg(r), deg(ρ))<m. 

Definizione 7.1. I polinomi q, r ∈ K[x] in (7.1) si dicono, rispettivamente, il quozienteed il resto della divisione del polinomio f per il polinomio g.

Se il resto `e 0, diciamo che g divide f e scriviamo g| f .

Definizione 7.2. Si dice massimo comun divisore di un insieme S di polino-mi non tutti nulli un polinopolino-mio di grado massimo tra quelli che dividono tutti gli elementi di S .

Chiamiamo ideale generato da S l’insieme

(7.2) (S )=[h=1{q1f1+ · · · + qhfh| q1, . . . , qh∈ K[x], f1, . . . , fh∈ S } di tutte le combinazioni lineari, a coefficienti polinomi, degli elementi di S .

Proposizione 7.2. Per ogni insieme non vuoto S di polinomi non nulli, esiste un massimo comun divisore di S . Un polinomio p ∈ K[x] `e massimo comun divisore di S se e soltanto se(p) = (S ), se cio`e gli elementi di S sono tutti e soli i multipli

di p. Tutti i massimi comun divisori di S si ottengono l’uno dall’altro mediante moltiplicazione per uno scalare non nullo.

Dimostrazione. L’insieme (S ) contiene polinomi non nulli e quindi, tra di essi, un polinomio p di grado minimo. Poich´e p ∈ (S ), possiamo trovare polinomi q1, . . . , qh∈ K[x] ed f1, . . . , fh∈ S tali che

(∗) p= q1f1+ · · · + qhfh.

Dividiamo per p un qualsiasi polinomio f di (S ):

f = pq + r, con r ∈ K[x], e deg(r) < deg(p). Sostituendo, troviamo che

r= f − (qq1) f1− · · · (qqh) fh∈ (S ).

Poich´e il grado di r `e minore del minimo dei gradi dei polinomi non nulli di (S ), deve essere r = 0, cio`e p| f , cio`e f ∈ (p). Il polinomio p `e un massimo comun divisore di S , perch´e per la (∗), ogni divisore comune dei polinomi di S divide anche p ed ha quindi grado minore o uguale al grado di p. Se p1e p2sono massimi comun divisori di S , allora p1|p2e p2|p1ci dicono che p1e p2sono l’uno multiplo

dell’altro per uno scalare. 

Dati due polinomi f , g, con g , 0, possiamo costruire una catena finita di polinomi g0, g1, . . . , gkmediante successive divisioni con resto:

(7.3)                    g0= f, g1= g0, gh+1= qhgh− gh−1, 0, 1 ≤ h < k, deg(gh) < deg(gh−1), 0= gk−1− qkgk,

dove, se g| f , s’intende che la catena si riduca ad f , g, cio`e gk = g1.

Proposizione 7.3. Dati due polinomi f, g diversi da zero, l’elemento gk della catena(7.3) `e il massimo comun divisore di { f , g}.

Dimostrazione. Gli elementi g0, g1, . . . , gkdella catena (7.3) appartengono tut-ti all’ideale ( f , g). Questo si dimostra per ricorrenza: infattut-ti `e vero per i = 0, 1 e se supponiamo che h > 1 e che tutti i gi per i < h siano combinazioni lineari a coefficienti polinomi di f e g, segue dalla definizione che anche gh lo `e. Sempre per ricorrenza, si dimostra che gk|giper ogni i. Questo `e vero per i= k, k − 1 e, se lo supponiamo vero per i > h, per qualche 0 ≤ h < k−1, segue dalla definizione che anche gk|gh. Infine, per le (7.3) ogni divisore comune di f e g divide tutti i gi.  La Proposizione 7.3 ci permette di calcolare il massimo comun divisore di due (o pi`u) polinomi senza conoscerne la decomposizione in fattori primi: per eseguire la divisione con resto dei polinomi di K[x] `e sufficiente saper eseguire le quattro operazioni in K. Ad esempio, nel caso di polinomi a coefficienti razionali ci riconduciamo al calcolo delle frazioni con numeratori e denominatori interi.

8. Il teorema di Sturm Sia f ∈ R[x] un polinomio reale di grado m > 0.

Definizione 8.1. Chiamiamo catena di Sturm8di f la successione di polinomi non nulli f0, f1, . . . , fk, definita da

(8.1)                                                        f0(x)= f (x), f1(x)= f0(x), f2(x)= f1(x)q1(x) − f0(x), deg f2< deg f1, f3(x)= f2(x)q2(x) − f1(x), deg f3< deg f2, · · · fh+1(x)= fh(x)qh(x) − fh−1(x), deg fh+1< deg fh, · · · fk(x)= fk−1(x)qk−1(x) − fk−2(x), deg fk< deg fk−1, 0 = fk(x)qk(x) − fk−1(x), fi, qi ∈ R[x].

Il polinomio fi, per i ≥ 2 `e cio`e il resto della divisione di fi−2per fi−1, cambiato di segno. Per la Proposizione 7.3, l’ultimo polinomio non nullo fkdella catena di Sturm `e massimo comun divisore tra f (x) e il suo polinomio derivato f0(x), `e cio`e un polinomio di grado massimo tra quelli che dividono sia f che f0.

`

E possibile costruire la catena di Sturm per polinomi f a coefficienti in un qualsiasi campo K di caratteristica zero, ad esempio quello dei razionali, o dei complessi. Gli zeri dell’ultimo termine fk sono le radici multiple di f : in partico-lare condizione necessaria e sufficiente affinch´e f non ammetta radici multiple in campo complesso `e che fksia uno scalare.

La scelta dei segni nella (8.1) `e importante quando la si voglia utilizzare per la ricerca delle radici reali. La semplice osservazione che utilizzeremo `e la seguente. Lemma 8.1. Supponiamo che (8.1) sia la catena di Sturm di un polinomio reale f ∈ R[x] e λ un numero reale. Se fi(λ) = 0 per un i con 0 <i ≤k, allora vale una

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