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IL POPOLAMENTO UMANO DELLA REGIONE ATESI- ATESI-NO / DOLOMITICA DURANTE IL MESOLITICO

I siti mesolitici ai Laghi del Colbricon nella catena del Lagorai (Trentino orientale)

2. IL POPOLAMENTO UMANO DELLA REGIONE ATESI- ATESI-NO / DOLOMITICA DURANTE IL MESOLITICO

Nel 1968 in Val d’Adige, in località Vatte di Zamba-na a breve distanza da Trento, veniva ritrovata uZamba-na sepoltura (CORRAIN ET ALII 1976), mentre al Loc di Romagnano (PERINI 1971), alla base di depositi ri-feribili ad epoche più recenti, veniva scavato un li-vello che restituiva manufatti litici interpretati come epipaleolitici. A tali scoperte fece seguito, solo tre anni dopo, la segnalazione di selci lavorate sulle rive dei Laghi del Colbricon, nella catena del Lagorai.

Si trattava delle prime importanti testimonianze di presenze umane databili al Mesolitico nella regio-ne delle Alpi orientali, testimonianze che peraltro andavano a confermare l’importanza della valle dell’Adige come via di penetrazione del popola-mento umano in area alpina e di comunicazione fra le culture sud-alpine e nord-alpine. Occorreva rivedere quanto fino ad allora ritenuto, ossia che le più antiche tracce di presenza risalissero al

Neoliti-co, se non ad epoche più recenti (3). Le nuove evi-denze dettero perciò il via a campagne di ricerca, che dovevano portare all’individuazione di centi-naia di siti in area dolomitica e su aree montuose vicine (PERINI 1971, BROGLIO 1972, BAGOLINI 1980, BAGOLINI ET ALII 1983, DONDIO 1995, DALMERI ET ALII 2000).

I siti individuati in Trentino, e in particolar modo quelli numerosissimi della Val di Fiemme e del Lagorai, te-stimoniano una colonizzazione dell’ambiente mon-tano avvenuta fra Tardoglaciale e Olocene antico (BAGOLINI ET ALII 1991, NERI ET ALII 2019).

A queste evidenze fa riscontro quanto di analogo è stato rinvenuto fuori provincia, in Alto Adige e nel Bellunese (DONDIO 1995, FONTANA ET ALII 2019).

Se ne ricava che, al passaggio fra Pleistocene e Olocene antico, durante il periodo climatico (o cronozona) Preboreale, alcuni gruppi umani do-vettero iniziare a frequentare non più solamente l’area prealpina (Altopiano del Cansiglio, Colli Be-rici, Altopiano dei Sette Comuni, Monti Lessini…), come già avveniva in precedenza, ma anche le grandi valli alpine e, in montagna, località a quote via via più elevate. Ciò evidentemente si verificava in ragione di quel significativo miglioramento del clima che aveva comportato un importante arre-tramento delle fronti glaciali würmiane.

Infatti l’Ultimo Massimo Glaciale, datato 17.500-26.000 anni 14C cal. BP (4) (5) (6), aveva portato i ghiacci a ricoprire con spesse coltri tutta l’area alpina, fino agli sbocchi in Pianura Padana: la Val d’Adige era ricoperta da un enorme ghiacciaio, di spessore tale da raggiungere una quota di circa 2000 m a Bolzano e di circa 1500 m a Trento, men-tre in Val Travignolo i ghiacci probabilmente rag-giungevano i 2200 m di altitudine e nella conca del Primiero i 1400-1600 m.

Nel Tardoglaciale (11.268/11.553 - 17.500 anni cal.

BP) ebbe inizio l’arretramento generalizzato dei ghiacciai a partire dalle valli principali, cui seguì una graduale ricolonizzazione della montagna da parte di quella flora più specializzata che aveva tro-vato rifugio nelle poche aree alpine rimaste libere dai ghiacci, ma anche da parte delle comunità ve-getali che erano sopravvissute in Pianura Padana.

Si ebbe così una progressiva ricostituzione di den-se formazioni forestali, che avanzarono prima len-tamente, poi più rapidamente. Nelle Alpi meridio-nali 14.500 anni fa il limite degli alberi doveva già aggirarsi intorno agli 800-1000 m di altitudine. Suc-cessivamente le temperature estive aumentarono bruscamente e il limite degli alberi salì verso i 1800 m, per poi arretrare nuovamente di circa 300 m nel Dryas recente (11.268/11.553 - 12.840 anni cal.

BP), ultimo stadio climatico freddo e secco prima dell’Olocene.

Il clima migliorò nuovamente, stabilizzandosi, du-rante l’Olocene inferiore, nel Preboreale (10.189 - 11.268/11.553 anni BP) e poi nel Boreale (8.776/9.004 - 10.189 anni BP). Ne conseguì un’estesa e durevole copertura forestale fino a quote superiori ai 2000-2100 m.

Nel Preboreale era diffuso soprattutto un bosco a Pinus e Larix, mentre nel Boreale diminuì l’importan-za di Pinus e cominciò l’espansione di Picea (tab. 1) (BROGLIO 1980, CUSINATO E BASSETTI 2007).

Alla risalita in quota della vegetazione si accom-pagnò il ripopolamento delle terre alte da parte di una mammalofauna varia, con specie sia di piccola che di media taglia; fra le prime special-mente la marmotta, fra le seconde in particolare lo stambecco, il camoscio e il cervo: erbivori che in precedenza, nel Tardoglaciale, abitavano le steppe dell’area perialpina e padana insieme ad altre specie che invece, non riuscendo ad adattar-si ai mutamenti ambientali, erano andate incontro all’estinzione. Dunque le motivazioni principali della penetrazione umana nelle regioni alpine, verifica-tasi fra il Preboreale e il Boreale, possono ricercarsi nelle pratiche venatorie specializzate riguardanti i grandi ungulati e specialmente lo stambecco, che venivano cacciati negli ambienti aperti al di sopra del limite del bosco o in sua prossimità. Tale feno-meno iniziò a verificarsi già nel Paleolitico superiore coinvolgendo popolazioni di cultura epigravettia-na, come testimoniano ad esempio i rinvenimenti di Pian dei Laghetti a quota 1488 m presso San Mar-tino di Castrozza, ma anche l’importante sepoltura dei Ripari Villabruna in Val Cismon (AIMAR ET ALII 1992) (foto 29) (7), e divenne ben più intenso nel Mesolitico, con le culture del Sauveterriano prima e del Castelnoviano poi. Inoltre la frequentazione

delle alte quote favorì gli scambi culturali tra le popolazioni dei due versanti dell’arco alpino (BA-GOLINI 1980, BROGLIO 1980, BA(BA-GOLINI ET ALII 1983, BAGOLINI ET ALII 1991, DONDIO 1995, BAGOLINI † 1997, DALMERI 1998, DALMERI ET ALII 2000, CUSINA-TO E BASSETTI 2007, BIZZARINI 2011).

Foto 29 – I Ripari Villabruna in Val Cismon. G.Borziello 2019.

La transizione fra Epigravettiano (Paleolitico fina-le) e Sauveterriano (Mesolitico antico) comportò un cambiamento culturale complesso, riguardan-te non soltanto le riguardan-tecniche di scheggiatura della pietra, ma anche le modalità insediative e di sfrut-tamento delle risorse. Tale transizione sembra sia avvenuta per meccanismi di acquisizione tecnolo-gico/culturale (favorita dall’estendersi dei contatti con le popolazioni abitanti il versante settentrionale delle Alpi) e non invece per sostituzione dei gruppi umani insistenti sul territorio (BAGOLINI ET ALII 1991, DALMERI ET ALII 2000, CUSINATO E BASSETTI 2007).

Per quanto riguarda le tecniche di scheggiatura, la cultura sauveterriana è caratterizzata dall’utiliz-zazione di nuclei di forma discoidale per la produ-zione di lamelle, schegge, armature microlitiche e ipermicrolitiche (di utilizzo versatile e facilmente trasportabili) con forme altamente standardizzate, specialmente triangoli isosceli e scaleni. All’interno del Sauveterriano è possibile altresì distinguere fra livelli più antichi, in cui i triangoli isosceli e scaleni compaiono più o meno in misura uguale e livelli più recenti, in cui prevalgono fortemente le armature in forma di triangoli scaleni (BROGLIO 1980, BAGO-LINI ET ALII 1983, BAGOBAGO-LINI E DALMERI 1987, DON-DIO 1995, CUSINATO E BASSETTI 2007).

Gli accampamenti in quota venivano frequentati per un buon numero di mesi all’anno: l’esame di resti faunistici rinvenuti a Mondeval de Sora (BL) e a Plan de Frea (BZ) consentono di individuare fra luglio e novembre il periodo in cui i siti venivano occupati. Probabilmente essi erano utilizzati da in-teri clan, ossia da nuclei famigliari estesi, composti da 10-20 persone, sia maschi adulti che donne e bambini (come testimoniato ad esempio da due denti decidui rinvenuti al Plan del Frea). La frequen-tazione delle alte quote, col tempo, sembra però man mano scemare, probabilmente in seguito alle modificazioni del clima in senso caldo-umido che caratterizzarono il periodo Atlantico (all’incirca fra

6.000 e 9.000 anni fa). Infatti in tale periodo si ebbe un’ulteriore espansione degli ambienti forestali (bo-schi ad abete rosso e pino cembro), che raggiun-sero anche quote superiori alle attuali (ad esempio al Passo Gavia la cembreta si stabilizzò fra i 2400 e i 2550 m); ciò avvenne a spese delle praterie di altitudine, che si ridussero drasticamente sottraen-do aree di pascolo agli ungulati (BAGOLINI 1980, BAGOLINI ET ALII 1983, BAGOLINI ET ALII 1991, BA-GOLINI † 1997, DALMERI ET ALII 2000, CUSINATO E BASSETTI 2007).

Foto 30 – Mondeval de Sora. G.Borziello 2011.

Tuttavia, in tale più generale contesto, va registra-ta l’imporregistra-tantissima eccezione rappresenregistra-taregistra-ta dalla sepoltura calstelnoviana (Mesolitico recente), tro-vata ai piedi di un grande masso nella conca di Mondeval de Sora (San Vito di Cadore - BL), sito frequentato per un lunghissimo arco di tempo, dal Mesolitico antico al Medioevo e che ha restituito, in particolare, un gran numero di reperti di età

me-solitica: oltre allo scheletro pressoché completo di un uomo adulto, elementi di corredo, manufatti liti-ci, carboni, resti faunistici e altri elementi di origine organica (tab. 2) (ALCIATI ET ALII 1992, GUERRESCHI 1992) (foto 30).

Lo studio delle industrie litiche rinvenute, insieme a quello delle possibili relazioni intercorrenti fra la distribuzione spaziale delle diverse categorie tipo-logiche di manufatti e le specifiche caratteristiche topografiche dei siti, ha talora evidenziato diffe-renze tra diversi siti appartenenti ad un medesimo contesto insediativo, o anche tra specifiche zone all’interno dello stesso sito. Tali differenze riguarda-no l’incidenza percentuale delle diverse categorie di manufatti sul totale dello strumentario rinvenuto e possono essere indicative delle attività prevalenti svolte nei singoli siti, i quali peraltro possono appari-re, dal punto di vista funzionale, come più o meno specializzati. Così, una notevole incidenza degli strumenti comuni rispetto alle armature può sug-gerire che quel sito fosse un campo base in cui si svolgevano attività “di sussistenza”, connesse con il trattamento dei prodotti della caccia (macellazio-ne della selvaggina, scarnificazio(macellazio-ne e preparazio-ne delle pelli); invece la prevalenza di microbulini e altri residui di lavorazione consente un’interpre-tazione del sito come “officina” in cui venivano predisposti i microliti, e infine un’elevata presenza di armature microlitiche in rapporto al resto dello strumentario può far propendere per un’interpreta-zione del sito come luogo di “caccia e avvistamen-to”, direttamente coinvolto nelle attività venatorie (BAGOLINI E DALMERI 1987, DALMERI E LANZINGER 1994, DALMERI ET ALII 2000).

Per spiegare le strategie di insediamento e di mo-bilità di quei gruppi umani del Mesolitico, è stato proposto un modello che qualcuno ha denomina-to di “nomadismo verticale”. Secondo tale model-lo, la mobilità dei gruppi di cacciatori-raccoglitori e lo sfruttamento del territorio furono notevolmen-te condizionati dalla distribuzione ecologica del-la fauna (specialmente in redel-lazione alle variazioni altitudinali/territoriali dell’area potenziale di cac-cia allo stambecco): i gruppi umani locali si spo-stavano stagionalmente dagli accampamenti re-sidenziali invernali, ubicati in fondovalle intorno ai 200-250 m di altitudine, agli accampamenti estivi ubicati in alta quota, prevalentemente intorno ai 1.800-2.200 m di altitudine (BROGLIO 1980, CUSINA-TO E BASSETTI 2007).

Comproverebbe tale nomadismo stagionale, ad esempio, lo spillone rinvenuto a Mondeval de Sora, ricavato da un osso di alce e da un canino di cin-ghiale, plausibilmente confezionato in fondovalle (DALMERI ET ALII 2000). Tuttavia, c’è anche chi ipo-tizza una situazione più complessa, con spostamenti frequenti fra fondovalle e montagna durante l’ar-co di una medesima stagione, l’ar-come sarebbe testi-moniato, ad esempio, da resti faunistici rinvenuti al Riparo Dalmeri, sul versante trentino dell’Altopiano dei Sette Comuni (CUSINATO E BASSETTI 2007).

Infine c’è chi, sulla base di considerazioni di carat-tere antropologico-etnografico, propone come ipotesi alternativa un modello di “nomadismo cir-colare”. Secondo tale visione, nel Mesolitico una popolazione, aggirantesi mediamente forse intor-no alle 2.000 unità (definibile come Gruppo

cultu-rale regionale), utilizzava un territorio molto ampio, esteso dal Mare Adriatico alle Alpi meridionali, dalla Pianura Padana al Carso triestino. Tale territorio ve-niva sfruttato in maniera differenziata tra la stagio-ne invernale (fistagio-ne autunno - fistagio-ne primavera), quan-do le varie unità familiari cooperavano in attività di sussistenza, legate preferenzialmente allo sfrutta-mento delle risorse offerte dai grandi fiumi e dalle lagune, e la stagione estiva (fine primavera - fine autunno), quando si verificava una disgregazione in diversi gruppi locali che, divenendo più mobili, si disperdevano sia in pianura che in montagna, con gruppi limitati di cacciatori che raggiungevano le alte quote per periodiche attività di caccia (GRI-MALDI 2006, GRI(GRI-MALDI 2019).