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Benjamin Gilman, presidente della “US House of representatives’ Committee” sulle relazioni internazionali chiamò la posizione cinese nelle negoziazioni di Kyoto come la “Politica dei 3 No”.

Questi “tre no” erano: no agli obblighi di emissioni sulla Cina, nessun impegno volontario da parte della Cina e nessuna negoziazione futura per legare la Cina con obbligazioni. La posizione cinese era chiara, non si reputava un paese mediamente sviluppato, inquinava ancora meno degli Usa e dell’Europa occidentale e per questo non si riteneva capace di sottoscrivere target relativi all’emissioni di Gas serra, e inoltre con il “terzo no” sosteneva che nemmeno per il futuro più immediato sarebbe stata pronta a prendersi impegni vincolanti. Nonostante ciò, localmente il Governo Cinese si impegnò a fare diversi sforzi per diminuire la crescita di emissioni di Gas serra, soprattutto a livello legislativo.

La richiesta di fornitura di tecnologia e aiuti finanziari da parte dei paesi industrializzati a favore di quelli che non lo erano era rimasta un punto cardine delle richieste cinesi, in quanto era ritenuta una condizione fondamentale per ottenere una maggiore collaborazione da parte di questi paesi nel futuro, e fu parzialmente ottenuta con questo Trattato grazie all’immissione dei tre meccanismi presentati precedentemente, in particolare con il “Clean development mechanism”.133

Successivamente, durante la COP-4 svoltasi a Buenos Aires nel Novembre del 1998 i negoziatori del “paese di mezzo”, sottolinearono come vi erano due tipi di emissioni, le emissioni per la sopravvivenza prodotte dai paesi in via di sviluppo e quelle “luxury” emesse da quelli appartenenti all’Annex 1, sottolineando come quelle dei paesi in via di sviluppo erano emissioni necessarie alla sopravvivenza, vitali e difficilmente limitabili,

133 Zhang H. (2013) “Climate and international climate change negotiations”, WeltTrends Online-

mentre quelle dei paesi sviluppati erano emissioni per propagare uno stile di vita lussurioso .134

Dall’ altra parte, sempre durante la stessa COP-4, alcuni paesi risposero invece all’invito Americano in maniera positiva, Argentina (la nazione ospitante)e Kazakhstan, infatti si dichiararono interessati a porsi degli obbiettivi vincolanti sulla limitazione delle emissioni.

Esatto, si dichiararono interessati, ma fino all’anno 2000 nessun paese ritenuto in via di sviluppo ratificò il protocollo, tanto meno Argentina e Kazakhstan, lasciando l’intero compito della lotta al clima ai paesi dell’Annex 1.

Nello stesso anno Liu Jiang, capo della delegazione Cinese alla sesta conferenza delle parti dell’UNFCCC, accusò gli Usa di confondere le diverse responsabilità tra i paesi in via di sviluppo e quelli già sviluppati, e il tentativo di imporre nuovi obblighi facendoli passare come una condizione della ratificazione della firma del protocollo da parte degli USA.

Secondo Liu Jiang questo porterebbe solamente a un duro confronto politico tra gli stati che sarebbe una catastrofe, perché negherebbe la cooperazione mondiale per la lotta al clima.135

Proprio questa decantata cooperazione mondiale in realtà, e la non volontà dei paesi della G-77 di prendersi degli obblighi definiti portò alla scelta di George W. Bush di non ratificare il protocollo di Kyoto, in quanto riteneva la lotta inutile al raggiungimento dei risultati sperati senza una collaborazione dei paesi che nel giro di qualche anno sarebbero diventati tra i più inquinanti al mondo, riferendosi neanche troppo velatamente a Cina e India.

Questa decisione destò molta preoccupazione, soprattutto all’interno dell’Unione Europea in quanto la non adesione del maggiore inquinatore del mondo avrebbe reso tutti gli sforzi degli altri stati praticamente inutili.

134 Wu F. (2013) “China’s Pragmatic Tactics in International Climate Change Negotiations

Reserving Principles with Compromise”, Asian Survey, vol. 53, No. 4, pp. 778-800

135 Zhang H. (2013) “China and international climate change negotiations”, WeltTrends Online-

Secondo molti questa decisione americana è dovuta al fatto che gli USA ratificando avrebbero perso forza competitiva dal punto di vista economico rispetto a nazioni in via di sviluppo che non sarebbero state soggette a certe obbligazioni.136 Il timore di perdere l’egemonia economica a favore di un paese come la Cina è certamente una paura americana e il comportamento della nazione nel teatro della lotta al clima rende ancora più chiaro il tutto.

La situazione era dunque circolare, gli Usa non volevano ratificare il protocollo finché ciò non veniva fatto pure dai paesi in via di sviluppo, allo stesso tempo la Cina avrebbe deciso di prendersi le sue obbligazioni solamente se prima gli Usa avrebbero ratificato il Protocollo, e questo non sarebbe comunque sicuro poiché le autorità cinesi sono a conoscenza che le emissioni cinesi di gas serra, con obbligazioni o meno, sono destinate a crescere nell’immediato futuro, fino a raggiungere, secondo alcune stime, il picco massimo solo nel 2025.

Questo è un classico esempio di “deadlock” dove entrambi gli attori in questione tengono una posizione di “Hard Bargaining”137, una situazione in cui se almeno uno dei due paesi non declina il proprio volere in favore del bene del pianeta porta a una condizione climatica irrisolvibile, poiché una lotta al clima senza la collaborazione di quelli che sarebbero diventati a breve i due maggiori inquinatori al mondo sarebbe stata inutile.

136 Leal-Arcas, R. 2012 “The Role of European Union and China in Global Climate Change

Negotiations: A critical analysis”, Journal of European integration history, vol. 18, pp 67-81

137 Fisher R. & Ury W. (2010) “Getting to yes, negotiating an agreement without giving it”, rh

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