1.1. San Miniato al Monte, i vescovi e la società fiorentina
1.1.3. La posizione di San Miniato fra il Comune consolare e quello
Poiché a Firenze il vescovo non riuscì a gestire a suo vantaggio il processo di autonomia politica e istituzionale, di cui possiamo cogliere i primi segnali nei decenni iniziali del XII secolo, la classe dirigente, oramai affrancata dalla tutela vescovile, giunse presto a controllare anche le istituzioni religiose cittadine. Da tempo le schiatte dell’aristocrazia consolare collocavano i loro membri all’interno del Capitolo e dei più importanti monasteri, mentre l’Arte di Calimala, che rappresentava le ricche famiglie dedite ai commerci e alla finanza arrivò ad esercitare il suo patronato sull’Opera del Battistero.
All’inizio del Duecento, ma probabilmente da diversi decenni, i consoli di Calimala partecipavano anche alla conduzione dell’Opera di San Miniato a fianco dell’abate benché in maniera tutt’altro che pacifica415. L’Opera è attestata per la
prima volta nel 1180416, negli stessi anni in cui il monastero comincia ad apparire
indebitato, e la sua conduzione dovette essere problematica indipendentemente dalle intromissioni dell’Arte dei mercanti417. Come quest’ultima arrivò a controllare la
fabbrica della chiesa monastica non è dato sapere, è però interessante notare che nella causa in atto fra il cenobio e i consoli (che fra poco esamineremo nel dettaglio) questi ultimi si presentavano come i difensori di una corretta amministrazione dell’Opera stessa, a loro dire assolutamente inadeguata418. Sarebbe, questa, la prima
testimonianza della decadenza del monastero che non molto tempo dopo diventerà palese anche nella documentazione, ma se davvero la gestione sia stata così ‘scandalosa’ è cosa di cui non possiamo essere certi. Simili affermazioni non vanno prese alla lettera perché i termini e le figure retoriche impiegati sono comuni a questo genere di registrazioni, e l’interesse dei consoli a esagerare riguardo a eventuali pecche dell’operato abbaziale è evidente. Ci piacerebbe conoscere, in ogni caso, su quali basi giuridiche i mercanti rivendicavano il diritto ad esercitare una tutela, ci
415 ASF, SMM, 1228 maggio 16. 416 S.Miniato, n. 109, 1180 marzo 31.
417 Fra le carte di San Miniato si conserva il giuramento prestato dall’operario Villano di osservare le
disposizioni che gli venissero comunicate per nunzio o per lettera riguardo a tutti i negozi presenti e futuri, e specialmente in riferimento alla lite che questi aveva in corso con Neri converso del monastero (ASF, SMM, 1218 aprile 29, il giuramento porta la data del 24 ottobre dello stesso anno).
418 «qui quasi defensores pietatis cum prefate Opere contra abbatem ac monasterium in predictis se
opponebant, unde longo tempore gravia dampna et scandala tam monasterium quam Opera substinuerunt» (ivi, 1228 maggio 16).
accontenteremo invece di constatare che la posizione debitoria dell’ente non doveva essere estranea a tutto questo: essa sarà ancora più manifesta nei decenni successivi, quando nelle carte compaiono sempre più spesso, fra i creditori, tanto i membri dell’aristocrazia consolare quanto i rappresentanti del ceto emergente impegnati allo stesso tempo nell’attività mercantile e creditizia. Per queste famiglie, del resto, il prestito rappresentava una parte rilevante degli affari e permise loro di inserirsi vantaggiosamente nel circuito di interessi dei più importanti enti religiosi419.
Fra i debiti che compromettevano la situazione finanziaria di San Miniato ve ne erano alcuni di natura sconosciuta, verosimilmente contratti per l’acquisto di beni, altre volte si trattava invece di obbligazioni di tipo usurario. Eviteremo un’elencazione dettagliata poiché ciò risulterebbe gravoso per il lettore e, in fin dei conti, poco proficuo. Basterà qualche esempio per capire meglio l’intreccio di rapporti socio-economici che avviluppava San Miniato fra XII e XIII secolo. Ci interessa, infatti, mettere in evidenza come, molto spesso, i creditori acquisirono qualche titolo per partecipare alla gestione patrimoniale del monastero o per beneficiare del suo giro di affari. Talvolta li ritroviamo nella veste di procuratori o anche di fideiussori a favore dell’ente, più spesso i loro nomi compaiono fra i testimoni. Si trattava quasi sempre di Fiorentini420 dai nomi non illustri ma già ben
inseriti nella rete di relazioni che facevano capo ai monaci, anche se non mancavano gli esponenti di famiglie note, o i cui membri avevano comunque accesso alle massime cariche di governo.
Abbiamo già incontrato alcuni creditori del cenobio in diverse occasioni. Gli Avogadi, per esempio, ma anche Berlinghieri del Seracino e suo figlio Lottieri avevano interessi a San Niccolò (supra, II, 1.2.2.); con Lottieri, in particolare, l’ente aveva un debito usurario (che potrebbe essere stato ereditato dal padre) che poi gli sarà refutato dal diretto interessato assieme alla moglie e alla madre421. Anche
Longobardo di Corbizo e suo fratello Caccia rientravano fra i possidenti di San Niccolò coi quali San Miniato si trovò in lite: Longobardo, che partecipava ad una società di torre in Borgo Santi Apostoli nel 1183, vantava crediti in natura e in denaro nei confronti del cenobio, al quale contendeva anche i diritti su una casa posta
419 Faini, Firenze nell’età romanica, pp. 203-218.
420 Solo in un caso abbiamo incontrato persone di San Pietro a Ema (S.Miniato, n. 108, 1180 febbraio
17).
in quella parrocchia; Caccia fu console nel 1202422. Benincasa del fu Borgognone Balsami era fra i cittadini che grazie ai legami con San Miniato acquisirono interessi
in Val di Sieve (supra, II, 1.3.), e fu proprio per saldare un debito contratto con lui, anch’esso di natura usuraria, che l’abate decise di vendere i diritti su Montalto a uno dei Caponsacchi. Qualche anno prima, sempre per pagare un debito a Benincasa, l’abate aveva ottenuto un prestito su pegno del valore di 90 lire da Rustico
Riccialbani giudice423. Benincasa fu anche fra i testimoni quando i figli di
Vinciguerra Donati, Forese e Buoso, riconobbero che il monastero aveva loro restituito un prestito di 20 lire424. Negli anni Trenta del Duecento l’abate si indebitò
con Pepo Alamanni per l’acquisto di mulini e terre, poi, non essendo in grado di pagare, vendette il suo debito a tre persone fra cui Uguccione figlio di Iacopo di Giuliano; qualche tempo dopo fu Pepo a cedere il suo credito di 236 lire (evidentemente ne era rimasta una parte da saldare) a Iacopo del fu Giuliano, il quale in seguito rinunciò a pretendere quanto gli era dovuto e con lui il figlio Uguccione refutò a sua volta la somma che gli spettava425.
Un caso esemplare di come la posizione creditoria potesse agevolare l’inserimento in un circuito di relazioni particolarmente vantaggiose, nonché l’acquisizione di prerogative importanti, è rappresentato dai rapporti intercorsi con Ildebrandino del Pazzo e i suoi figli. Ildebrandino fu fra i testimoni quando il futuro abate Chierico venne nominato priore di San Bartolomeo a Scampata (in quell’occasione era presente anche Buoso di Vinciguerra Donati) e, un mese dopo, quando lo stesso Chierico promise di osservare le decisioni di un lodo su una controversia che riguardava l’ente a lui affidato426. Nel breve periodo in cui fu rettore
di Scampata, Chierico contrasse con Iacopo di Ildebrandino un debito personale che in seguito, dopo essere diventato abate di San Miniato, promise formalmente di pagare427. Da questo momento l’ascesa di Iacopo fu strettamente legata alla posizione
di Chierico: dapprima il figlio di Ildebrandino compare con Boverotto dei Caponsacchi e Benincasa Balsami fra i testimoni al giuramento di fedeltà di Grifone
422 S.Miniato, n. 129, 1195 giugno 28; Faini, Firenze nell’età romanica, p. 211; Id., Uomini e famiglie,
p. 54.
423 ASF, SMM, 1223 agosto 19. 424 Ivi, 1218 aprile 19.
425 Ivi, 1236 settembre 17; ivi, 1238 ottobre 4. L’Alamanni era probabilmente lo stesso che, in una
novella riferita a un episodio avvenuto nel 1240, litigò con Cante Cavalcanti al punto che il podestà li allontanò entrambi da Firenze (Raccolta di novelle, I, n. LXXXVI, p. 223).
426 ASF, P, 1227 settembre 4; ivi, 1228 maggio 12. 427 Ivi, 1228 novembre 8.
del fu Griffetto da Galiga quando questi ricevette in feudo Montalto428, il che
dimostra che desiderava inserirsi nel giro dei Fiorentini eminenti radicati in Val di Sieve; nell’autunno del 1235 Iacopo fu infine nominato potestà di Montacuto dallo stesso Chierico, per un anno a cominciare dal primo di gennaio successivo429.
Tralasciamo di elencare le occasioni in cui altri due figli di Ildebrandino, Truffetto e Ranieri, presero parte agli atti giuridici rilevanti per San Miniato, ricordando solamente che Truffetto seguì Chierico in qualità di inserviente quando l’abate accompagnò a Perugia due eretici patarini430.
Allo stesso tempo, quegli stessi cittadini politicamente ed economicamente affermati che in parte riuscirono a intromettersi nella gestione delle ricchezze del cenobio sono da annoverare quasi certamente fra i finanziatori della chiesa monastica che in quegli stessi anni veniva completata e abbellita.
Fu un esponente di primo piano del regime consolare anche quel Gianni della Filippa che fa la sua comparsa nelle carte del cenobio nei tardi anni Sessanta del XII secolo431. Egli esercitò per decenni una sorta di tutela sull’amministrazione
dell’economia monastica prendendo parte, anche in veste di procuratore432, a tutte le
transazioni più importanti che videro l’ente fra gli attori, comprese quelle in cui questo si trovava nella posizione di debitore; inoltre, come console di giustizia contribuì all’emissione di sentenze favorevoli a San Miniato in almeno due occasioni433. La natura dei suoi rapporti col cenobio non è del tutto chiara: egli non
compare mai nella veste di creditore né di benefattore e, per quello che possiamo vedere, non beneficiò in prima persona di cessioni di beni o diritti del monastero,
428 ASF, SMM, 1229 agosto 18. 429 Ivi, 1235 ottobre 31.
430 ASF, SMN, 1229 giugno 26. Si vedano anche ASF, SMM, 1230 aprile 30; ivi, 1234 settembre 25;
ivi, 1236 settembre 17.
431 Gianni è attestato per la prima volta nelle carte di San Miniato nel 1168, l’ultima nel 1211
(S.Miniato, n. 93, 1168 maggio 6; ASF, SMM, 1210 marzo 23 s.f.); era già morto nell’autunno del 1217 (ivi, 1217 ottobre 16). Fu console di giustizia nel 1183 assieme a Gerardo Caponsacchi (Faini,
Firenze nell’età romanica, pp. 276-278) e fece parte della familia podestarile dello stesso Gerardo nel
1193 (Diacciati, Popolo e regimi politici, p. 41n.) I della Filippa diverranno ghibellini assieme ad altre famiglie che troviamo nel collegio consiliare del podestà in questa occasione (Faini, Firenze nell’età
romanica, p. 347). Gianni fu anche tra i membri del consiglio fiorentino di 135 persone che il 15
novembre 1197 giurarono la Societas Tuscie (ivi, p. 352n). Su di lui cfr. anche Faini, Uomini e
famiglie, p. 23.
432 ASF, SMM, 1207 febbraio 9 s.f.
eppure il legame doveva essere ben saldo poiché una volta scomparso fu sostituito nel suo ruolo dai figli Bernardo, Uguccione e Traletorri434.
L’indebitamento degli enti religiosi nei confronti delle famiglie della classe dirigente, e l’assidua presenza di queste ultime negli affari degli enti stessi, non devono indurci a credere che il Comune abbia preso completamente il sopravvento sulla Chiesa locale. Ci vollero diversi decenni prima che le istituzioni comunali acquisissero tutte le funzioni pubbliche, a Firenze come in altre città. Peraltro, l’assunzione del controllo delle principali fabbriche religiose cittadine da parte di rappresentanti delle nuove forme di governo non costituisce necessariamente il punto di arrivo del processo di destituzione dell’autorità vescovile. Spesso il passaggio di responsabilità avveniva gradualmente e in accordo fra le parti, come è stato ben illustrato, ad esempio, riguardo al caso pisano435. Tendenzialmente le autorità civili
fiorentine appoggiarono l’operato dei vescovi a salvaguardia dei loro diritti giurisdizionali, almeno finché l’aristocrazia consolare mantenne il predominio; in seguito, durante l’affermazione della parte popolare e il conseguente alterarsi degli equilibri ai vertici della società, anche le prerogative vescovili furono rimesse in discussione. Il progressivo esautoramento del potere episcopale a vantaggio di quello comunale si svolse in maniera non lineare, influenzato dalla sequenza e dai ritmi che caratterizzarono l’avvicendarsi degli avvenimenti436.
Una prova di quanto fossero intricati e fluidi i rapporti fra le massime espressioni della vita civile e religiosa ci è data proprio da una lite scaturita dalla gestione congiunta dell’Opera di San Miniato. Si trattava di definire in maniera inequivocabile le prerogative di entrambe le parti che finalmente, nel maggio del 1228, si riunirono nel chiostro del monastero dove convennero di comune accordo di affidarsi al parere autorevole di maestro Buonsignore, arciprete fiorentino. Il lodo da lui pronunciato in quell’occasione stabiliva che il patrimonio e l’amministrazione dell’Opera fossero del tutto distinti da quelli del cenobio, concedeva all’abate ampio margine di intervento sulla scelta dell’operario, e in definitiva attribuiva ai consoli il potere di intervenire sulla gestione economica dell’ente, a fianco dell’abate, riservando a quest’ultimo le decisioni che non rientravano nella sfera economica e finanziaria.
434 Fu soprattutto Bernardo a seguire gli affari di San Miniato: ASF, SMM, 1217 novembre 29; ivi,
segnata 1217 febbraio 11 s.f. ma il giorno corretto è il 3; ivi, 1218 aprile 29; ivi, 1223 settembre 28; ivi, 1224 novembre 12; ivi, 1228 ottobre 25; ivi, 1230 novembre 13; ivi, 1235 ottobre 3.
435 Ronzani, Dall’edificatio ecclesiae all’«Opera di S. Maria». 436 Benvenuti, Una città, un vescovo, pp. 30-31; 43-45.
Prendiamo adesso in esame la composizione sociale dei consoli di Calimala in carica in quel momento, così come la figura dell’arbitro scelto per comporre la vertenza. Uno dei consoli, Schiatta Cavalcanti, compariva proprio in quegli anni fra i clienti del vescovo. Un altro, Giraldo Chiermontesi, apparteneva ad una famiglia di origine popolare proveniente della zona di Ripoli; gente di recente fortuna, erano dediti principalmente all’attività mercantile ma non disdegnavano di praticare il credito, specialmente con gli enti religiosi437. Un terzo, Boninsegna della Ripa, fu tra
i consiglieri del Comune che giurarono nel 1234438. L’ultimo console, non
identificato, probabilmente apparteneva allo stesso profilo sociale. Quanto ai testimoni, tre su quattro erano persone vicine al monastero mentre il quarto era un Cavalcanti, verosimilmente fratello del console Schiatta. L’arbitro, infine, l’arciprete Bonsignore, sarà uno dei capi della resistenza contro il dominio imperiale che esploderà a Firenze due decenni dopo439.
L’affermazione dei mercanti di Calimala non azzerò il ruolo e l’importanza della Chiesa fiorentina nella vita locale, ma il controllo esercitato sulle istituzioni religiose, che nei documenti appare ben fermo pochi decenni prima del Duecento e che Giovanni Villani fa risalire - almeno per quanto riguarda il Battistero - alla metà del XII secolo440, potrebbe avere radici più antiche di quanto sembra. Secondo studi
recenti la costruzione del Battistero risalirebbe all’inizio del XII secolo e sarebbe stata promossa proprio dalla corporazione dei mercanti, che si sarebbero ispirati al duomo di Pisa (a sua volta influenzato dall’arte islamica) grazie ai contatti commerciali con quella città441. Se così fosse, bisognerebbe concludere che i
mercanti assunsero un notevole rilievo nella vita cittadina almeno cinquant’anni
437 Si trattava di una famiglia del ceto elevato ma non ancora saldamente affermata all’interno del
gruppo dirigente (Faini, Uomini e famiglie, p. 19; Diacciati, Popolo e regimi politici, p. 45).
438 Ead., Consiglieri e consigli di Firenze nel Duecento, p. 229. 439 Kamp, Caracciolo, Landolfo, p. 404.
440 Villani indica l’anno 1150, data un po’ sospetta ma plausibile (Faini, Firenze nell’età romanica, p.
123).
441 Guido Tigler sostiene la dipendenza del Battistero dal duomo di Pisa, ritiene che proprio per questo
motivo la costruzione dell’edificio fiorentino dovette iniziare dopo il 1064 (data di avvio del cantiere pisano), e indica come più probabile una data vicina a quella della consacrazione della cattedrale pisana, avvenuta nel 1118-’20. Spiega, inoltre, che verosimilmente il cantiere fu controllato fin da subito dai mercanti (Tigler, Toscana romanica, pp. 142-143). La questione della fondazione del Battistero fiorentino è controversa e coloro che se ne sono occupati sono giunti a conclusioni radicalmente differenti. Semplificando, possiamo dire che accanto ai sostenitori dell’origine romanica dell’edificio ve ne sono altri che lo ritengono fondato nei primi secoli dell’era cristiana. Fra gli studi a sostegno di quest’ultima teoria ricordiamo i saggi pubblicati in Cardini (a c.), Il bel San Giovanni e
Santa Maria del Fiore e, da ultimi, i quattro volumi di The Florence Duomo Project dove Francklin
Toker ha raccolto i risultati di oltre un secolo di scavi archeologici sotto il complesso cattedrale. Per una sintesi aggiornata delle diverse posizioni assunte dagli studiosi in merito alla fondazione del Battistero cfr. Scampoli, Firenze, pp. 56-62.
prima rispetto a quello che sembrano indicare le fonti documentarie e il cronista442.
Per quanto riguarda la chiesa di San Miniato sappiamo che la sua origine non solo è anteriore all’epoca in cui i mercanti furono associati alla sua gestione, ma addirittura è precedente alla loro fortuna. Sui tempi relativi alla costituzione dell’Opera e all’assunzione di responsabilità da parte di questi nuovi ricchi purtroppo non siamo informati443, ma tutto lascia credere che non abbiano atteso troppo tempo per
esercitare la loro influenza anche sui principali simboli religiosi della città di cui stavano assumendo il controllo.
Per riassumere in un discorso unitario i vari elementi che finora abbiamo messo in evidenza, possiamo dire che fin dalla fondazione San Miniato si configurò come un centro di potere al servizio dei vescovi di Firenze. Ildebrando e i suoi immediati successori prestarono grande attenzione al monastero, che favorirono con privilegi e donazioni. Sono, questi, gli anni in cui esso godette probabilmente del massimo splendore, gli anni in cui ebbe inizio la costruzione della monumentale basilica che si protrasse, nelle sue fasi principali, per quasi due secoli. All’epoca la figura del vescovo era ancora centrale nella vita di Firenze e il ‘suo’ cenobio costituiva un importante polo di riferimento religioso e culturale, determinante nell’elaborazione e nella gestione dei simboli dell’identità cittadina444. Allo stesso
tempo San Miniato svolse un’efficace azione di tutela degli interessi vescovili nel contado, sia dal punto di vista economico attraverso la gestione dei beni ad esso assegnati, sia come strumento di affermazione del prestigio e della potenza dei presuli che come elemento di connessione fra questi e la loro clientela reclutata fra i signori rurali.
442 Sui mercanti fiorentini artefici di una svolta nell’economia urbana, caratterizzata da una crescita
della ricchezza cittadina molto più marcata rispetto a quella del territorio ed evidente fin dai primi decenni del XII secolo, si veda Faini, Firenze nell’età romanica, pp. 118-125. Egli individua le motivazioni di tale espansione negli accordi militari stretti fra Firenze e Pisa all’inizio del secolo per l’impresa di Maiorca (databile al 1117 per il Villani, al 1114-’15 per Marco Tangheroni), accordi che avrebbero aperto ai Fiorentini le rotte commerciali marittime procurando un ritorno economico notevole e immediato. Risalirebbe dunque a questi anni la grande importanza assunta a Firenze dalle attività commerciali, verosimilmente legate alla rifinitura dei tessuti.
443 Le vicende che riguardano la costruzione della chiesa non sono documentate: ignoriamo le
circostanze, i costi, i nomi dei finanziatori e delle maestranze e quel poco che sappiamo riguardo alle fasi costruttive lo dobbiamo alle supposizioni degli studiosi dell’arte romanica, condotte prevalentemente sull’osservazione dell’edificio e sul confronto con opere coeve. Il tema, come si vede, non ha rilevanza puramente artistica e per questo verrà affrontato, qui, in una sezione appositamente dedicata.
444 Si veda come i cives astigiani, invece, manifestarono apertamente la loro ostilità nei confronti del
vescovo Ingone, negli anni Sessanta dell’XI secolo, arrivando quasi a distruggere il monastero di Sant’Anastasio in Sereno, Relazioni fra enti monastici e poteri vescovili, pp. 86-87.
Dalla seconda metà dell’XI secolo, dall’episcopato di Pietro Mezzabarba e soprattutto di Ranieri, appare evidente un certo distacco fra vescovi e San Miniato. Questo non significa, naturalmente, che i rapporti siano cessati del tutto, certo però la stagione dei favori e delle donazioni sembra terminata. All’inizio del XIII secolo, quando le fonti ci fanno intravedere nuovamente contatti diretti tra il monastero e i suoi patroni - dopo un silenzio durato per tutta la seconda metà del secolo precedente e oltre - la situazione appare completamente cambiata. I rapporti sembrano essere oramai conflittuali, con i monaci che rivendicavano una maggiore autonomia e tentarono più volte di scegliere un abate di loro gradimento, mentre i vescovi non rinunciarono a imporre rettori di loro fiducia, arrivando persino a scomunicarli. È chiaro che nel frattempo l’armonia si era incrinata.
A cavallo fra XII e XIII secolo la società fiorentina, la vita politica e istituzionale si stavano evolvendo velocemente. I vescovi avevano perso l’occasione di porsi come riferimento politico cittadino, mentre i gruppi familiari più potenti erano oramai in grado di promuovere l’autogoverno attraverso l’adozione di nuove esperienze politiche e istituzionali. Mentre i vertici dell’aristocrazia urbana si scontravano per il controllo politico della città, i ceti emersi dallo sviluppo dell’attività manifatturiera chiedevano uno spazio nella gestione della cosa pubblica. Saranno le rivendicazioni di questo nuovo gruppo sociale, che presto otterrà un grande peso politico, a determinare la rottura definitiva degli equilibri e lo scontro aperto verso la metà del Duecento.
Ma alla fine del XII secolo i vertici della politica cittadina erano ancora aperti