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Pratiche dell’abitare e politiche per l’autorganizzazione Carlo Cellamare

Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

DICEA - Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale Email: carlo.cellamare@uniroma1.it

Abstract

Il tema dell’abitare è un tema complesso che non si risolve nella sola questione della casa. Il tema dell’abitare coinvolge dimensioni materiali e immateriali che non sono semplicemente gestibili all’interno di una logica delle competenze tipica dello stato moderno. Lo studio delle pratiche dell’abitare anche in contesti di marginalità e di quartieri difficili evidenzia una ricchezza, ma anche una conflittualità negli usi dello spazio, nella sua gestione e nella sua significazione per cui la riqualificazione non può passare solamente attraverso interventi fisici (pur fondamentali) o approcci come quello del "rammendo" (o della "ricucitura delle periferie"), ma deve svilupparsi nella considerazione di problematiche più complesse (il contrasto allo spaccio, il sostegno al lavoro e alla produzione di reddito in contesti di disoccupazione, ecc.) e delle progettualità e delle risorse latenti che anche territori così problematici esprimono. Nell’ambito delle progettualità e delle risorse latenti, anche in contesti difficili, dove l’assenza del pubblico (istituzionale) è particolarmente evidente e la distanza delle istituzioni si fa sentire, emergono importanti capacità di autorganizzazione e di riappropriazione dei luoghi. Le politiche di riqualificazione si interrogano quindi sulle forme di valorizzazione di queste capacità, che implicano anche riappropriazione e cura dei luoghi, attraverso una revisione degli strumenti di gestione e attraverso un differente ruolo dell’amministrazione. Tali considerazioni saranno sviluppate attraverso il contesto del quartiere di Tor Bella Monaca.

Parole chiave: abitare, autorganizzazione, pratiche urbane.

1 | Introduzione. Il tema dell’abitare

Il tema dell’abitare è allo stesso tempo, per chi lavora col territorio, un tema fondamentale e un tema difficile da trattare (Cellamare, 2016b; Crosta, 2007; La Cecla, 1993)1. Da una parte, è centrale non solo per gli urbanisti (o per gli altri studiosi delle realtà insediative, dai geografi, ai sociologi, agli antropologi, ecc.) ma anche per chi governa le realtà urbane, e quindi non è soltanto un tema di ricerca ma un nodo centrale per l’amministrazione pubblica e un problema prioritario per la società, in particolare poi nell’ottica del welfare state, soprattutto in una fase epocale in cui si registra un suo progressivo arretramento. D’altra parte, è una questione estremamente difficile da affrontare per la sua complessità, tanto da risultare spesso sfuggente nei suoi elementi costitutivi e di fatto esito dell’incrocio di pratiche di vita, politiche di differenti settori e a più scale, desideri individuali e collettivi, interessi sociali ed economici. Spesso il tema dell’abitare è ridotto alla questione della casa. Il tema dell’abitare può essere letto nella sua complessità attraverso un’interpretazione delle pratiche urbane esistenti incrociata con le politiche e le forme di gestione da parte dei diversi soggetti coinvolti. Il presente contributo dà per acquisito questo tipo di approccio (Crosta, 2010; Cellamare, 2011) e, dopo aver evidenziato, il ruolo delle forme di protagonismo sociale, nonché delle pratiche e dei processi di autorganizzazione e di riappropriazione della città, intende illustrare quali tipi di politiche e di azioni possono essere intraprese in questa direzione. Verrà considerato come contesto di riferimento il quartiere di Tor Bella Monaca a Roma, quartiere ERP particolarmente problematico e quindi di difficile trattazione, dove è in corso da tempo un percorso di ricerca-azione2.

2 | Autorganizzazione e riappropriazione della città

Attraverso uno sguardo dal basso e dall’interno emergono molti aspetti che sono spesso essenziali in una riflessione sull’abitare, ma che altrettanto spesso non si riesce a cogliere (o sfuggono ad un rilevamento sistematico) e quindi "non si vedono"; e per questo perdono rilevanza o addirittura non sono considerati. Il lavoro sul campo vuole cercare proprio di far emergere e cogliere la rilevanza di tali processi e di tali

1 La letteratura sul tema è vastissima. Si rimanda ai testi segnalati per l’ampia serie di riferimenti bibliografici.

2 Non c’è lo spazio, in questo contributo, di illustrare la complessità e la ricchezza del caso studio. Si rimanda alla sezione dedicata

della rivista Territorio, n. 78, per la sua trattazione (Cellamare, 2016a). Per approcci analoghi si rimanda a Cognetti (2016) e Cognetti, Padovani (2016).

pratiche. In questo sguardo l’attenzione alle pratiche urbane assume quindi una rilevanza fondamentale: esse permettono di mettere in relazione le dimensioni materiali e immateriali (e non solo quindi gli usi, né tanto meno solo le funzioni) che sono implicate dall’abitare. Inoltre, fanno emergere progettualità latenti (Cellamare, 2011) che sono importanti indicatori sia delle capacità e delle possibilità del protagonismo sociale, sia degli orientamenti che possono assumere le politiche pubbliche che intendono operare una rigenerazione urbana radicata nei processi sociali. Le pratiche urbane fanno emergere una molteplicità di processi in corso, spesso pulviscolari ed estremamente diffusi sui territori, ma che costituiscono – presi nel loro insieme – una componente fondamentale nella trasformazione e nello sviluppo delle città.

Tra questi, le città sembrano essere intensamente attraversate, in questa fase storica, da processi e pratiche di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi, dei propri contesti di vita (Hou, 2010). Si tratta di esperienze molto diverse tra loro: dagli orti urbani alle forme di autogestione della città informale e autocostruita, dal parkour alle occupazioni a scopo abitativo, dagli spazi verdi autogestiti alle recenti occupazioni dei luoghi di produzione culturale (cinema, teatri, ecc.), dagli usi temporanei di spazi abbandonati all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate, ecc. (Cellamare, Cognetti, 2014). A Tor Bella Monaca, questo si traduce in pratiche di autogestione di parchi e aree verdi, della manutenzione delle aree verdi pertinenziali, della manutenzione e della pulizia degli spazi comuni di scala, di spazi pubblici abbandonati, di orti, di biblioteche, di attività culturali, di centri sociali, della ciclofficina, ecc.

3 | Politiche per l’autorganizzazione

Il contesto romano ed, in particolare, l’esperienza di ricerca-azione in corso a Tor Bella Monaca offrono l’occasione per fornire alcune indicazioni sui possibili percorsi futuri per una riqualificazione urbana e sociale dei quartieri, in forma integrata. Possono essere forniti alcuni indirizzi di carattere generale sulla base dei quali ripensare le politiche dell’abitare:

• Recuperare la distanza tra la politica e i territori. In particolare, emerge con chiarezza la necessità di elaborare, sviluppare e portare avanti nella concretezza un "progetto" per la città, che attualmente pare assolutamente mancare. Al di là dell’affermazione di carattere molto generale, questo significa più propriamente ripensare il modello economico della città, ovvero quali siano gli elementi di forza che debbano sostenere l’economia di Roma. Il nodo centrale, infatti, anche nella riqualificazione di un quartiere come Tor Bella Monaca, è la necessità di produrre reddito da parte delle famiglie e degli abitanti. O, meglio ancora, focalizzare l’attenzione sul lavoro, come condizione per produrre reddito, ma anche per ricostruire e dare un senso al tessuto sociale esistenti e alla dignità delle persone. Questo è particolarmente importante e vero in un contesto come Tor Bella Monaca dove l’economia criminale nasce e prospera sulla povertà delle persone. Non si può pensare una riqualificazione dei quartieri senza pensare alle condizioni di vita degli abitanti, senza pensare al lavoro, senza pensare a come uscire dall’assistenza e dalla necessità di "far da sé" per poter sopravvivere. Questa riflessione ha quindi un carattere generale; vale cioè in generale per tutti i quartieri e per lo sviluppo della città nel suo complesso. Questo diventa anche un criterio generale per caratterizzare le politiche di intervento all’interno del quartiere. Tali politiche devono mirare sempre, anche per quanto riguarda la manutenzione, la riqualificazione, ecc., a generare posti di lavoro, soprattutto su base locale.

• Valorizzare le energie sociali e le progettualità latenti. E’ questo, come abbiamo visto, un punto nodale e fondamentale: sia perché permette di radicare gli interventi e le azioni nel tessuto sociale, nelle sue progettualità e nella sua disponibilità ad accoglierli e ad esserne favorevoli; sia perché struttura e rafforza il legame tra gli abitanti ed il contesto in cui vivono sviluppando le dimensioni della cura e della responsabilità; sia perché significa rafforzare la dimensione dei valori, soprattutto di quelli in cui ci si riconosce, nonché i processi di significazione (e risignificazione) e di "produzione di luoghi" (significativi, rilevanti ed in cui ci si riconosce); sia perché favorisce un’alleanza tra le istituzioni e le forze sociali nonché la valorizzazione delle energie sociali, appunto, in un contesto in cui le istituzioni non riescono a sostenere più l’onere della gestione delle attrezzature e delle infrastrutture pubbliche. E questo permetterebbe anche di ridurre la distanza tra le istituzioni e le realtà locali. Questo criterio generale si può declinare in modi diversi, ma in ogni caso bisogna farlo con molta attenzione per le molte ambiguità e distorsioni che può innescare. In particolare, in un contesto in cui lo sviluppo delle forme di autorganizzazione può essere considerato (e quindi con un’accezione tendenzialmente negativa o comunque problematica) un segnalatore dell’arretramento generale del welfare state, alcuni dei grandi rischi sono la delega e lo "scaricare" sui cittadini gli oneri dell’amministrazione pubblica, della gestione della "cosa pubblica". La delega può significare trasmettere, al di fuori di un controllo

pubblico, una capacità decisionale e di indirizzo politico che invece deve rimanere prerogativa pubblica (altrimenti si innesca l’attivazione di "istituzioni intermedie", di tipo sostitutivo), pur all’interno di un percorso di condivisione e di partecipazione. Il secondo rischio rafforzerebbe la dinamica di arretramento del welfare state, metterebbe in più grande difficoltà gli abitanti, sarebbe solo una distribuzione di oneri. Con alcuni effetti connessi, come la costruzione di cuscinetti al conflitto sociale e la delega di responsabilità. Questo tipo di dinamica, se non ben organizzata e governata, può avere quindi effetti negativi. Infine, pur rimanendo un criterio particolarmente importante e interessante, deve essere combinato con altri criteri, a partire da quello legato al lavoro.

• Recuperare la presenza delle istituzioni ed il ruolo di programmazione. Questo può apparire un criterio contrario o almeno inverso al precedente, ma invece – come abbiamo visto, illustrando brevemente il punto precedente – si tratta di un criterio molto importante, proprio in combinazione col precedente, anzi i due devono essere strettamente legati. Come per la politica, si tratta di recuperare una distanza tra le istituzioni ed i territori, di far sì che gli abitanti abbiano dei referenti riconoscibili ed individuabili, che vi sia un canale di comunicazione aperto tra cittadini e istituzioni e che questo canale sia connesso anche ai processi decisionali; ma questo non significa un recupero di controllo e di governo centralizzato, che è anzi un aspetto da superare (oltre che, in molti casi, ampiamente superato, proprio per l’arretramento del welfare state) e, per molti versi, anacronistico. Né si tratta semplicemente di recuperare efficienza e gestione dei processi urbani, che pure peraltro è una funzione essenziale e assolutamente da recuperare (soprattutto nel contesto romano, mentre in altri contesti urbani forse il problema è meno sentito3). Si tratta di recuperare una capacità di fare programmazione (o anche pianificazione, come si preferisca dire) nel senso di capacità di individuare politiche da perseguire, di organizzare percorsi concreti ed attuabili che mirino a raggiungere quelle politiche e gli obiettivi in cui si declinano, di organizzare le attività, le risorse e le persone in scansione temporale a questo scopo. La programmazione sembra una capacità che è uscita dall’orizzonte culturale e politico delle istituzioni romane (se vi è mai stata, proprio perché a Roma è sempre mancata una cultura amministrativa forte ed, anzi, si è tesa ad indebolirla, mantenendola sotto la pressione del governo centrale e degli interessi centrali, proprio perché Capitale dello Stato) e più in generale di quelle italiane. Recuperare una capacità di programmazione significa anche recuperare la dimensione dell’"interesse pubblico", ovvero di definire all’interno di una dinamica politica e sociale cosa è nell’interesse pubblico, anche attraverso forme di condivisione con i cittadini. Nei quartieri questo significa soprattutto la costituzione di laboratori di quartiere. Se pensiamo al contesto di Tor Bella Monaca questo significa appunto la costituzione di un laboratorio di quartiere, ma anche la costituzione di un ufficio/agenzia dell’ATER in loco, o almeno la definizione di un referente specifico che possa seguire in maniera integrata e qualificata le problematiche e le progettualità che interessano il quartiere e che costituisca un referente credibile dell’istituzione. Più in generale, nella riorganizzazione di Roma e del suo apparato (soprattutto in connessione alla costituzione della Città Metropolitana), ciò rimanda all’istituzione dei Comuni metropolitani (e quindi con maggiori capacità di azione e di politica degli attuali Municipi), anche con una maggiore articolazione territoriale di quanto non siano ora i Municipi. Se pensiamo che la sola Tor Bella Monaca, coi suoi 30-35.000 abitanti ha una dimensione paragonabile con un capoluogo di Provincia come Rieti (Provincia dove l’assoluta maggioranza dei Comuni è inferiore ai 5.000 abitanti), questo appare quasi un passo necessario.

Focalizzando l’attenzione soprattutto sul secondo obiettivo/criterio generale precedentemente illustrato, ma tenendo conto degli altri elementi considerati, possono essere configurate alcune "politiche per l’autorganizzazione", come parte di più articolate politiche di riqualificazione, ovvero politiche orientate al coinvolgimento dei soggetti sociali e alla valorizzazione delle energie sociali e delle progettualità esistenti. Nello specifico contesto di Tor Bella Monaca (peraltro particolarmente difficile e dove un ruolo importante è svolto dal tema della casa) queste possono articolarsi secondo alcune possibili tematiche:

• Costituzione, come già ricordato, di una struttura di riferimento a livello locale dell’ATER (anche in

connessione con il Municipio, ivi presente), che possa assumere anche le caratteristiche di uno specifico laboratorio di quartiere (o quantomeno individuare un soggetto referente per l’interlocuzione con le realtà locali).

3 Nel contesto romano, soprattutto in alcune gestioni di anni passati, in particolare nella sindacatura Alemanno, vi è stata

addirittura un’intenzionalità di smantellamento della pubblica amministrazione. E questo si inserisce in un processo di carattere più generale e quasi epocale, soprattutto nel mondo occidentale, ma di cui l’Italia è sicuramente una punta avanzata.

• La manutenzione del verde pertinenziale e delle aree verdi (comunali o di proprietà dell’ATER).

Questo può avvenire (come già in parte avviene) attraverso il diretto coinvolgimento dei cittadini, nelle forme dell’affidamento convenzionale (o altre forme di riconoscimento) e favorendo l’occupazione. Questo comporta un recupero sugli affitti da pagare, ovvero una devoluzione della quota destinata da ATER e dal Comune alla manutenzione del verde. L’affidamento può avvenire attraverso bando con criteri che favoriscano le realtà locali e i soggetti già impegnati nella manutenzione (ed anche le categorie più giovani), ad esempio cooperative sociali su base locale.

• Gli orti. Individuazione delle fasce da destinare ad orti ed assegnazione con criteri che favoriscano le realtà locali, la trasparenza, la gestione collettiva, la produzione con criteri di sostenibilità.

• Utilizzazione delle vaste aree inedificate disponibili per attività produttive compatibili, come ad

esempio la vivaistica, prodotti per gli orti e il giardinaggio, ecc.

• Autorecupero. L’autorecupero assume due caratteri fondamentali. Il primo è l’autorecupero per le

riparazioni e gli adeguamenti dei singoli appartamenti già in uso, da parte dell’inquilino. Il secondo riguarda la possibilità di recuperare appartamenti e unità abitative attualmente inutilizzabili e che l’ATER (o il Comune) non è in grado di recuperare. Con questo secondo scopo esiste anche una specifica legislazione regionale che potrebbe risultare favorevole. Per quanto riguarda il primo aspetto, si tratta di individuare linee guida per l’autorecupero, ovvero per quegli interventi che possono essere gestiti in proprio dall’inquilino. L’attuazione di tali interventi da parte dell’inquilino interessato comporterebbe poi la possibilità di decurtare i costi sostenuti dagli affitti dovuti all’ATER. Per quanto riguarda il secondo aspetto, appare allo stesso tempo particolarmente promettentee alquanto problematico. La legge prevede infatti che il potenziale utilizzatore dell’unità da recuperare anticipi il finanziamento necessario agli interventi, recuperandolo poi dai canoni dovuti. Questo fa sì che si possano creare distinzioni (socialmente ingiuste) tra chi si può permettere gli interventi (o che può recuperare i finanziamenti necessari) e chi non se lo può permettere, arrivando anche ad uno "scavalco" nelle liste di assegnazione. Inoltre, molti potrebbero rivolgersi al prestito illecito o alla malavita organizzata per ottenere il finanziamento necessario, con le distorsioni che ne derivano. Il sostegno all’autorecupero in questa seconda forma dovrebbe essere quindi accompagnato da un sostegno all’iniziativa privata (anche in condizioni di difficoltà, e quindi seguendo le liste di assegnazione), ad esempio tramite il microcredito (e il soggetto pubblico può svolgere funzione di garanzia).

• Destinazione degli spazi "commerciali" inutilizzati per scopi sociali. L’ATER (e il Comune) dispongono di spazi originariamente destinati alle attività commerciali. Questi devono essere allocati a prezzi di mercato, secondo la normativa. Le attività commerciali, però, molto spesso non riescono a reggere e quindi i negozi chiudono e/o tali spazi rimangono inutilizzati, incrementando la situazione di degrado. L’ATER sta già lavorando all’elaborazione di regolamenti e bandi che prevedano una situazione favorevole per la destinazione ad attività svolte con scopi sociali e di utilità pubblica, ovvero l’assegnazione a canoni accessibili o nulli a quelle attività riconoscibili come socialmente radicate e che operano a fini sociali e collettivi. A Tor Bella Monaca vi sono già diverse proposte e richieste in merito. Tra l’altro questo percorso potrebbe andare incontro all’attività di produzione culturale già presente nel quartiere, come quella musicale, attraverso la realizzazione di sale prove o di spazi destinate appunto alla musica. Ma vi sono proposte anche di scuole di musica e danza, di scuole di italiano, di laboratori sociali, ecc., così come sono già attivate iniziative (spesso attraverso occupazioni che richiedono un riconoscimento) per spazi destinate a biblioteche e ludoteche.

• Analoghe linee di azione possono essere perseguite per la gestione e l’utilizzazione degli spazi pubblici

non utilizzati o abbandonati o che versano in condizioni di degrado, ad esempio ripetendo l’esperienza già sviluppata nel passato e di grande successo per quanto riguarda la gestione della manutenzione di Largo Castano affidata al CIES. Ancora, analoghe politiche possono essere condotte nella gestione e manutenzione del patrimonio storico-culturale ed archeologico presente (assecondando l’iniziativa sviluppata dall’associazione Tor Più Bella nel recupero della Via Gabina).

• Portierato. E’ questa una proposta avanzata dalle realtà locali, soprattutto in quei contesti dove già alcuni soggetti, o gruppi di soggetti, si sono organizzati per gestire gli spazi comuni degli immobili (per esempio le torri di via Santa Rita da Cascia su iniziativa dell’associazione Tor Più Bella) e fronteggiare la presenza della malavita organizzata e dello spaccio della droga. Questa figura dovrebbe avere un riconoscimento formale da parte dell’ATER, anzi dovrebbe essere individuata attraverso un’iniziativa istituzionale. Anche questo tipo di percorso potrebbe innescare alcune distorsioni, soprattutto in quei contesti dove non c’è un riconoscimento sociale delle persone intenzionate a svolgere questo ruolo.

Quindi bisognerebbe introdurre criteri a sostegno di questa prospettiva, ad esempio introducendo il criterio che il portierato non sia obbligatorio (ma sia un’opportunità offerta allo stabile nel suo complesso) e che le persone da impegnare in questo ruolo siano individuate dagli inquilini dell’immobile considerato. Vi dovrebbe poi essere un riconoscimento economico dell’attività svolta, eventualmente anche a valere sui canoni dovuti.

Si tratta di alcune proposte esemplificative, oggetto di una fase di ricerca e di interlocuzione con le istituzioni, ma che devono essere verificate in successivi step di lavoro ed approfondimento.

Due tematiche rimangono però al fondo di questa riflessione.

In primo luogo, bisogna comunque affrontare il tema dell’assegnazione della casa pubblica e, nel complesso, della gestione di questo processo. E quindi anche della riorganizzazione degli enti di gestione, come l’ATER. L’organizzazione attuale, definita in normativa, prevede che l’ATER sia un ente economico e quindi raggiunga il pareggio di bilancio. D’altra parte la normativa vincola alcuni aspetti (come la definizione dei canoni) obbligando l’ATER in una condizione di difficoltà di gestione. Probabilmente sarebbe necessario definire prima i criteri che permettano all’ATER di raggiungere il pareggio di bilancio attraverso una buona gestione del patrimonio, e poi integrare con altre politiche (più legate al sociale) ed eventuali sussidi, che vadano a sostegno degli inquilini in stato di bisogno. Tale organizzazione è, per esempio, quanto avviene in Germania (Puccini, 2016). Vi è qui poco spazio per affrontare il tema in maniera sistematica e si rimanda a successivi approfondimenti.

In secondo luogo, questi approcci implicano un ripensamento delle istituzioni e delle loro funzioni. Se è vero che siamo di fronte ad un arretramento del welfare state, questo non significa una scomparsa del