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GilDo coPerchio

Chuknagar - Natale 2003

C

arissimo…eccomi finalmente con un po’ di calma a scriverti. Avrai saputo che il Natale mi ha portato, ma non so proprio se considerarlo tale, una sorta di regalo: «cieli nuovi e terra nuova». Il mio posto di lavoro cambierà nuovamente. Devo dire addio al villaggio tornare a lavorare in un ospedale, questa volta al nord del Bangaldesh, nella diocesi di Dinajpur. Una diocesi dove la maggioranza della popolazione composta da un gruppo etnico diverso da quello bengalese con tradizioni religiose di tipo animistico e che hanno abbracciato il Cristianesimo in numero considerevole. Un campo di lavoro che si presen-ta topresen-talmente nuovo, e anche se il bengalese rimane la lingua ufficiale la lingua originaria di questa gente è un’altra. Una nuova sfida.

Preparando le valigie per «emigrare», potrei quasi dire ho ritrovato anche alcune delle tue lettere passate e allora eccomi qui a raccontarti nuovamente di me cose che forse qualche altro mio amico ti avrà fatto leggere (la posta elettronica viaggia oggi più veloce-mente) o forse ti risulteranno nuove… chissà.

Dicevo sopra che ho dovuto dare addio al villaggio dove ho passato tra gli anni più densi della mia vita. Prendendo alcuni stralci dagli appunti fatti preparando la mia lettera natalizia devo confessare che in questo periodo più rare sono state le mie lettere. Rare per-chè il villaggio ti isola dal mondo in una sorta di clausura pur aprendoti al mondo di Dio, cioè al mondo dei più bisognosi, dei più ignoranti, dei più ottusi, dei mai contenti, di co-loro che hanno sempre la mano tesa, di coco-loro che non possono e non sanno dirti grazie ma, proprio per questo, sembrano essere stati scelti da Dio per essere i suoi figli prediletti.

È questa la sensazione nuova che mi sta nascendo dentro dopo questo breve periodo pas-sato sulle strade più o meno fangose di questo «stranamente nuovo» Bangladesh.

E questa può essere la causa delle mie rare lettere in questi ultimi anni. Il silenzio stata è una sorta di malattia acquisita nel villaggio… La quotidianità in un mondo come questo chiude la bocca a chiunque. Si ha paura di rovinarlo il villaggio, di usarlo

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priamente per i propri fini. Solo il Natale, e gli eventi che mi hanno portato ad accettare un nuovo impegno al nord, mi hanno spinto a riprendere in mano la penna.

Lo scorso aprile, poco dopo il mio ritorno in Bangladesh a chi mi chiedeva come mi sentissi dopo essere ripiombato nel villaggio rispondevo con le parole di Kahlil Gibran:

«Esistere oggi, è seguire la Bellezza, anche quando vi guiderà sull’orlo del precipizio, e benchè essa abbia le ali e voi no, e varcherà il precipizio, seguitela, perchè dove non esiste Bellezza, nulla esiste…».

In questo brano ho sentito riecheggiare in qualche modo il più familiare invito evangelico: «Và, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri poi vieni e seguimi…». Oggi posso aggiungere che proprio seguendo la Bellezza, cioè Dio, nel «precipizio» ci si accorge di avere ali che si pensava di non avere. È proprio in questo genere di impossibili voli che l’eternità entra nel nostro tempo.

È stata proprio questo la mia vita di villaggio: un volo sul precipizio. Ho imparato nel villaggio che non ha più senso parlare di morte, di dolore, di gioia, di eternità, di Dio stesso. Dio non parla mai di se stesso, ma continua a parlare sempre dell’Altro. «Se non ami il tuo prossimo che vedi come potrai dire di amare Dio che non vedi?». L’Altro è il precipizio da varcare, perchè è nell’Altro che la bellezza si è voluta nascondere. E in questa relazione con l’Altro occorre diventare semplici e senza parole come il riso che cresce o come la pioggia che cade.

Si deve semplicemente essere.

Essere senza discorsi superflui, senza fare ricorso o chiedere aiuto al verbo «avere».

Essere nell’assoluto dell’indigenza, del non potere, del non sapere.

Essere leggeri quanto una gracile spiga di grano o di riso, o come lo stelo di un tuli-pano, una pioggerella sottile, una impalpabile brezza del mattino, essere immensi quanto il cielo.

Essere: è avventurarsi nello spazio in espansione di questo verbo, il più esigente e il più faticoso di tutti i verbi insieme con il verbo «amare». Ciò implica che bisogna mollare gli ormeggi, le sicurezze, a cominciare dalle passioni che alienano, dalle paure che intrappo-lano ed umiliano, dalla collera e dallo spirito di vendetta, di rivincita che logorano invano le forze di cui si dispone, dal disprezzo e dalla indifferenza che sono solo travestimenti della pigrizia, e infine dall’odio che corrompe il cuore e la mente, li sporca e li fossilizza.

Essere, nient’altro, ma senza misura né concessioni.

E lasciami aggiungere una piccola pagina del diario di Etty Hillesum, una donna ebrea eliminata ad Auschwitz insieme a tantissimi altri, ma che mi rimane cara da un po’

di tempo in qua perchè mi ha in un certo senso suggerito lo spirito giusto con cui occorre

vivere le non facili tensioni della vita di villaggio: «L’unica cosa che si può fare di questi tempi è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Questi problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire…

Improvvisamente tutte le pene notturne e le solitudini di un’umanità sofferente attra-versano il mio piccolo cuore e lo fanno dolorare. Quante pene voglio prendere su di me quest’inverno? Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta e risolve il dolore e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».

Lo scrivevo questo, al termine di una giornata in cui lo scorso luglio avevo speri-mentato per la prima volta sul mio corpo la violenza: una violenza gratuita, anzi, direi una violenza come frutto di un servizio che per essere libero e gratuito aveva detto di no a pressioni, raccomandazioni ed infine a minacce. Una pagina della mia vita di villaggio di cui oggi posso parlare con serenità, ma che mi ha fatto capire come occorra essere sempre pronti a quella testimonianza di cui ho spesso parlato nelle mie lettere.

È alla luce di questa esperienza che ho capito profondamente il senso di una piccola storia raccontatami da un amico: «La Follia decise di invitare i suoi amici a prendere un caffè da lei. Dopo il caffè, la Follia propose: “Si gioca a nascondino?”. “Nascondino? Che cos’è?” — domandò la Curiosità. “Nascondino è un gioco. Io conto fino a cento e voi vi nascondete. Quando avrò terminato di contare, cercherò e il primo che troverò sarà il prossimo a contare”. Accettarono tutti ad eccezione della Paura e della Pigrizia. “1,2,3…”

— la Follia cominciò a contare. La Fretta si nascose per prima, dove le capitò. La Timi-dezza, timida come sempre, si nascose in un gruppo d’alberi. La Gioia corse in mezzo al giardino. La Tristezza cominciò a piangere, perché non trovava un angolo adatto per nascondersi. L’Invidia si unì al Trionfo e si nascose accanto a lui dietro un sasso. La Follia continuava a contare mentre i suoi amici si nascondevano. La Disperazione era disperata vedendo che la Follia era già a novantanove. “Cento!” — gridò la Follia — “Comincerò a cercare”. La prima ad essere trovata fu la Curiosità, poiché non aveva potuto impedirsi di uscire per vedere chi sarebbe stato il primo ad essere scoperto. Guardando da una parte, la Follia vide il Dubbio sopra un recinto che non sapeva da quale lato si sarebbe meglio nascosto. E così di seguito scoprì la Gioia, la Tristezza, la Timidezza. Quando tutti erano riuniti, la Curiosità domandò: “Dov’è l’Amore?”. Nessuno l’aveva visto. La Follia cominciò a cercarlo. Cercò in cima ad una montagna, nei fiumi sotto le rocce. Ma non trovò l’Amore. Cercando da tutte le parti, la Follia vide un rosaio, prese un pezzo di legno e cominciò a cercare tra i rami, allorché ad un tratto sentì un grido. Era l’Amore, che gridava perché una spina gli aveva forato un occhio. La Follia non sapeva che cosa fare. Si

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scusò, implorò l’Amore per avere il suo perdono e arrivò fino a promettergli di seguirlo per sempre. L’Amore accettò le scuse. Ecco perché oggi, l’Amore è cieco e la Follia lo ac-compagna sempre».

Ho capito così quale è il messaggio racchiuso nel Natale e nelle parole del Vangelo:

l’amore cieco e folle di Dio per l’uomo. Un amore che ha travolto le leggi di ogni principio religioso mai conosciuto: «Dio si fatto come noi, per farci come Lui»; «Quanto farete al più piccolo dei miei fratelli l’avrete fatto a me»; «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere».

Una amica a cui ho mandato per posta elettronica una foto che mi ha sorpreso in mezzo ad una folla di pazienti dai vestiti di colori più svariati così mi scriveva: «Ti vedo come una “testarda” mosca bianca vittima della tua “maledetta” compassione che rischia di essere fagocitato da quella che oserei chiamare “ressa” di colori… a vivere non un fatto straordinario ma un rituale quotidiano». Ma quasi rubandomi la risposta così continuava:

«Lo so che non sei una testarda mosca bianca, ma semplicemente un uomo che ha deciso di collaborare con Dio mettendosi al servizio degli altri. Lo so che la tua compassione non è maledetta… ma che hai un cuore tenero pieno d’amore che vuoi donare agli altri. Lo so che non rischi di essere fagocitato… Lo so che il termine ressa di colori può sembrare quasi un’offesa, ma che ogni donna, uomo, bambino, vecchio, speciale… lì cerchi il Suo Volto con rispetto, pazienza, benevolenza e passione. Lì cerchi la Bellezza… e di seguirla».

Mi ha letteralmente letto nel pensiero, gliene devo dare atto.

Colorate comunque sono davvero le esperienze quotidiane con queste «persone», sempre impreviste, e quindi capaci di prendermi di sorpresa, spesso ossessionanti, ma anche sempre arricchenti. Un giorno tra i tanti «colori» di cui parla la mia amica c’era una mamma con una bambina di 2 mesi. Si chiamava Rohima e aveva 22 anni. Quando ho capito che era la sua bimba che aveva bisogno di qualche medicina le ho chiesto il nome della bambina. È rimasta a pensarci un momento e poi, come se nulla fosse, mi ha risposto: «Mone rakhi na» che significa: «Non mi ricordo». (Una mamma che non ricorda il nome della figlia!?!).

Proprio lo stesso giorno, terminato l’ambulatorio sul pullman che mi portava da Chuknagar a Khulna, riconosciuto da qualche paziente della zona, ho dovuto cedere alle insistenze di un padre di famiglia che mi ha pregato per una decina di chilometri di fargli una ricetta per il figlio che stava portando dal medico a Khulna per un eczema infetto di un dito della mano. Ho strappato dalla mia piccola agenda un foglietto non più largo del biglietto del pullman. Ho poi chiesto in prestito una penna da coloro che mi erano vicini. Anche il bigliettaio oltre a chiedermi il biglietto mi ha chiesto una ricetta. Avevo

veramente paura che il pullman si trasformasse in ambulatorio!

E ancora più denso di eventi è stato il Natale che ho voluto passare nel villaggio proprio per concludere la mia presenza tra quella gente e poter in questo modo dire loro addio, ma per assicurarli che li porterò sempre con me.

Il Natale del villaggio: come vorrei che molti della opulenta Europa venissero a vi-verlo. Anche per me, incredibile dopo 18 anni di Bangladesh è stato il primo, l’unico nella mia storia e nella mia vita di missione che mi ha fatto assaporare lo spirito originale del Natale, quello spirito che ho letto tante volte nel Vangelo senza mai capirlo.

Mi aspettavo che anche a Natale qualcuno venisse alla missione a cercarmi per farsi visitare. Prima della messa del mattino un uomo sui 40 anni di Tala, un paese a circa 15 chilometri da Chuknagar sofferente per un brutto e incontrollabile diabete e con una gangrena che gli ha già fatto cadere alcune dita del piede sinistro è venuto a pregarmi per essere visto nuovamente… Era la terza volta che veniva e, per convincermi, ha continuato a dirmi che ero stato l’unico a fargli avere qualche miglioramento. Non sono state le lodi che mi hanno convinto: è che in queste situazioni mi ritrovo senza difese… non potevo mandarlo via così… Siccome stava per iniziare la Messa gli ho fatto presente che ormai era il tempo della preghiera e quindi avrei potuto vederlo solo dopo la fine della messa.

Pensavo in questo modo di scoraggiarlo, invece… Imperterrito si seduto in mezzo agli altri, nella scuoletta gremita dei pochi cristiani e dei più numerosi catecumeni del villag-gio. Sembrava un cristiano perfetto, solo che non sapeva che cosa fosse il segno di croce e si trovava un po’ spaesato tra canti, preghiere, e letture varie. Un’ora e 15 minuti di messa.

Dopo la messa dietro di lui si erano già accodati altri pazienti. Nel tardo pomeriggio mi sono accorto di averne visti una ventina…

Tra di esse una donna, venuta a ringraziarmi per averle guarito la figlia da strani do-lori intestinali per i quali i medici di qui le avevano, come al solito, detto che doveva essere operata di appendicite, mi ha regalato nel salutarmi più di una lacrima. Mi diceva: «Ora che te ne andrai cosa faremo? Da chi andremo quando saremo malati?». L’ho ringraziata per quelle parole, che per la prima volta sentivo sincere. Non capita spesso da queste parti sentire un grazie. E nel dirmi questo la sua bimba di 10 anni mi porgeva due peara (sono dei frutti diversi dalle pere, non un errore di stampa). Ho tentato di rifiutarle facendo loro capire che il mio stomaco non aveva bisogno di frutta extra: sarei stato contento se le avessero mangiate loro a posto mio. Non c’è stato verso. Ho dovuto accettarle. Difficile dirvi cosa mi passava in cuore.

Congedandomi dalla donna alla fine le ho detto: «Ora vai pure a casa con la tua pic-cola e per favore, lungo la strada non voltarti indietro rischieresti di farmi piangere». L’ho

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viste allontanarsi… e un piccolo magone nella gola comunque l’ho sentito. Ho pregato Dio per loro? No, non ne avevano bisogno, perchè in lontananza ho visto Dio che le stava accompagnando a casa. (E sì che sono anche miope!!!).

Ma quel che più mi ha toccato in un giorno come questo è stato l’incontro con una ragazza di 20 anni. L’avevo trovata il giorno prima ad aspettarmi sul cancelletto della missione. Ci conoscevamo da tempo perchè erano ormai mesi che la stavo seguendo e curando per una brutta ulcera a livello della cervice uterina (per la quale alcuni medici le avevano consigliato l’asportazione dell’utero). Pur a fatica e con tanta pazienza l’ulcera era scomparsa e sarebbe dovuta venire per l’ultimo controllo la settimana prima di Natale.

Non era potuta venire e aveva mandato sua sorella a dirmi che stava male. Ma non ero riuscito a sapere di che cosa. L’avrei capito più tardi…

Dopo che l’usuale controllo mi confermava che tutto procedeva bene mi confidava che le mestruazioni erano in ritardo di una settimana e aveva paura di essere incinta e mi chiedeva di liberarla da quella supposta gravidanza. Ho tentato di farle capire che con una figlia di 6 anni avrebbe potuto, ora, permettersi di portare avanti anche questa seconda gravidanza senza nessun problema. I guai derivanti da un aborto potevano essere peggio-ri. Ma nel modo con cui me lo chiedeva mi faceva sospettare che ci fosse qualcosa d’altro.

Non ci voluto molto a capirlo perchè alle successive domande che venivo facendole mi rispondeva con occhi sempre più lucidi fino a scoppiare in un pianto vero e proprio. Sco-privo così in quelle lacrime il motivo della malattia che l’aveva tenuta a casa. Mi confidava che il marito, l’aveva picchiata forzandola ad avere un rapporto sessuale che lei, proprio per evitare possibili gravidanze, aveva tentato di rifiutare. Aveva addosso i segni delle botte prese. Rabbia per un verso e compassione dall’altro: erano i sentimenti che sentivo nascermi dentro. Tanta la tenerezza che provavo.

Ho deciso così di farle un test di gravidanza con la segreta speranza che risultas-se negativo… e negativo è risultato. Ho potuto così rassicurarla facendole capire che la mancanza delle mestruazioni poteva essere stata dovuta alla violenza subita. Il senso di sollievo che ho visto nei suoi occhi ancora bagnati era un dono inaspettato. Felice di aver potuto regalarle una attimo di serenità in quella strana e non facile vita l’ho accompa-gnata al cancelletto della missione. Congedandoci i suoi occhi erano nuovamente lucidi:

«Father, (così mi ha sempre chiamato, non doctor) cosa farò adesso che te ne andrai?».

Non ho saputo risponderle. Gli ho messo la mano sulla testa ed ho accennato una carezza sul viso dicendo a Dio che ora toccava a Lui starle accanto.

Come vedi, un Natale strano quello che mi sono trovato a vivere. In mattinata poi sono stato con il P. Germano nella para (un agglomerato di capanne vicino alla missione)

a vedere i 23 presepi che erano stati preparati dalle rare famiglie cristiane e da quelle che stanno frequentando il catecumenato. Il P. Germano mi ha chiesto infatti di accompa-gnarlo nella visita proponendomi di fare da giudice ai vari presepi scegliendo a quali dei primi tre dare un premio. La premiazione ci sarà poi domenica prossima dopo la messa.

I presepi erano semplici. Le statuine era fatte col fango, un materiale che qui non manca, visto che di fango sono fatte anche le loro capanne… Man mano che visitavamo i presepi fatti in genere all’aperto davanti alla capanna o in mezzo all’aia, mi nasceva dentro la sensazione che questo villaggio in cui mi ritrovavo a camminare il giorno di Natale era esso stesso un presepio vivente… Le donne stavano cucinando, gli uomini andavano al lavoro o erano impegnati sull’aia. Gli animali non erano diversi da quelli che avevano tentato di rappresentare all’interno del loro presepio: buoi, caprette, cani, galline, oche e papere un po’ dovunque. Pukur, o grosse pozzanghere più o meno pulite, erano sparse un po’ dovunque.

Pensavo che erano loro, uomini e donne, bambini e bambine di ogni età, il vero presepio da premiare. In mezzo a loro mi vedevo e mi sentivo come venuto da un altro mondo. Avrei potuto ben essere uno dei re magi. E forse per loro lo ero. Nelle capanne tanti, tanti i figli di Dio nati da poco: alcuni piangevano, altri stavano succhiando il latte della mamma, altri erano addormentati. Mancavano solo gli angeli a cantare: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». Ma chissà, forse mi è mancato quel pizzico di fede per riuscire a sentirli. Il solito P. Sergio mi rimprovera sem-pre perchè dice che sono duro di orecchi. Camminando così tra quelle case in un giorno di festa come il Natale, ripensavo ai tanti Natali passati in Italia e ai tanti presepi viventi che vengono organizzati come sacre rappresentazioni. Qui invece non c’era stato bisogno di organizzarlo perchè il presepio vivente è reale, e tale rimane non una settimana, ma

Pensavo che erano loro, uomini e donne, bambini e bambine di ogni età, il vero presepio da premiare. In mezzo a loro mi vedevo e mi sentivo come venuto da un altro mondo. Avrei potuto ben essere uno dei re magi. E forse per loro lo ero. Nelle capanne tanti, tanti i figli di Dio nati da poco: alcuni piangevano, altri stavano succhiando il latte della mamma, altri erano addormentati. Mancavano solo gli angeli a cantare: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». Ma chissà, forse mi è mancato quel pizzico di fede per riuscire a sentirli. Il solito P. Sergio mi rimprovera sem-pre perchè dice che sono duro di orecchi. Camminando così tra quelle case in un giorno di festa come il Natale, ripensavo ai tanti Natali passati in Italia e ai tanti presepi viventi che vengono organizzati come sacre rappresentazioni. Qui invece non c’era stato bisogno di organizzarlo perchè il presepio vivente è reale, e tale rimane non una settimana, ma

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