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Preliminarmente, occorre osservare che, ad un decennio di distanza dall’entrata in vigore del

RILIEVI CONCLUS

1. Preliminarmente, occorre osservare che, ad un decennio di distanza dall’entrata in vigore del

Codice dei beni culturali e del paesaggio, le esperienze attuative in materia di pianificazione paesaggistica e le riflessioni che le hanno accompagnate consentono oggi un bilancio critico del processo avviato sia in Italia che, per le esperienze analizzate, in alcuni ordinamenti europei.

Per quanto concerne i singoli piani paesaggistici italiani, è opportuno rilevare che tali strumenti di pianificazione sono pochi e caratterizzati sia dall’omogeneità della loro struttura portante sia, allo stesso tempo, da una spiccata eterogeneità, che si può manifestare nella divergente filosofia di fondo che sposano oppure nell’approfondimento originale di alcuni temi specifici.

I piani, infatti, risultano omogenei in relazione alla loro struttura, suddivisa generalmente in una parte ricognitiva (gli Atlanti del paesaggio), volta a conoscere e rappresentare il territorio regionale e ad individuare i singoli beni paesaggistici sottoposti a vincolo, e in una parte strategica, contenente gli obiettivi paesaggistici e finalizzata alla definizione delle strategie di tutela e valorizzazione del paesaggio regionale: nello specifico, la parte ricognitiva funge da fedele “quadro conoscitivo”, costruito sulla base di analisi morfotipologiche e storico-culturali che catalogano e definiscono l’identità territoriale e paesaggistica di determinate aree subregionali (ambiti di paesaggio); la parte strategica, invece, si occupa di individuare ed indicare le grandi strategie del piano, che serviranno da guida per la fissazione degli obiettivi di qualità paesaggistica e la predisposizione di appositi progetti sperimentali di protezione e valorizzazione del paesaggio. Accanto a queste due parti si collocano le Norme Tecniche di Attuazione, ossia le fondamentali regole di indirizzo e conformazione delle attività umane che comportano la trasformazione del territorio: queste, sempre presenti in ogni piano, si compongono di indirizzi, direttive e mere prescrizioni che, dopo l’approvazione del piano, avranno un effetto immediato sull’uso delle risorse ambientali, insediative e storico-culturali che costituiscono il paesaggio.

I piani paesaggistici della Puglia, del Piemonte e della Toscana, infatti, sono stati strutturati secondo questo schema tripartitico, che permette loro di assolvere il compito affidatogli dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, consistente nella conoscenza e regolazione del proprio paesaggio.

A ciò si aggiunga il fatto che i singoli piani paesaggistici regionali dimostrano (chi più, chi meno) di ispirarsi ai noti principi europei dello sviluppo sostenibile, della partecipazione sociale, della copianificazione e cooperazione tra enti pubblici, nonché di voler suddividere il territorio in precisi ambiti di paesaggio, a ciascuno dei quali assegnare determinati obiettivi di qualità paesaggistica, in conformità al Codice nazionale e alla Convenzione europea.

Le attività di conoscenza e di elaborazione della disciplina giuridica per la tutela e la valorizzazione del paesaggio, dunque, rappresentano le matrici comuni di ogni piano italiano, che, a seconda delle proprie esigenze e risorse, le modella più o meno approfonditamente.

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L’eterogeneità degli strumenti di pianificazione, infatti, si intravede in quelle parti del piano che lasciano alle Regioni ampi margini di discrezionalità. Ad esempio, il piano paesaggistico della Puglia apporta un contenuto originale nelle attività di tutela e valorizzazione, cercando di coinvolgere le popolazioni locali sia nella fase di identificazione e percezione del paesaggio che in quella di selezione delle tecniche di protezione di tale bene costituzionale; il piano della Toscana, invece, si sofferma sulle modalità di raggiungimento di uno sviluppo socio-economico sostenibile, ponendo attenzione al tema della mobilità urbana ed extraurbana e delle relative infrastrutture logistiche necessarie per garantire un efficiente spostamento infra regionale dei cittadini toscani; il Piemonte, infine, utilizza prevalentemente le sue risorse sociali ed economiche per costituire la c.d. rete di connessione paesaggistica, consistente in una particolare forma di salvaguardia e valorizzazione del paesaggio, fondata sul principio di integrazione delle politiche territoriali.

Le differenze tra piani nazionali si rinvengono, peraltro, anche nelle qualificazioni che gli stessi assumono in relazione alla veste prevalentemente ambientale, territoriale o paesaggistica pura che li caratterizza o per la divergente presa di posizione su specifiche questioni attinenti alla nozione di paesaggio. Ad esempio, mentre il piano paesaggistico della Toscana o lo strumento di pianificazione della Puglia possono essere definiti piani territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, in quanto si occupano di tutto il territorio ponendo attenzione anche alle problematiche del paesaggio, il piano piemontese, all’opposto, rappresenta formalmente un piano paesaggistico puro, la cui attività è focalizzata prevalentemente su ciò che è paesaggio ( con uno scarso interessamento alle vicende legate al governo del territorio). E se il piano della Sardegna (nella sua versione aggiornata e revisionata, prima dell’intervenuta revoca) proponeva agli addetti ai lavori una configurazione degli “ulteriori contesti” come beni non aventi carattere paesaggistico e, quindi, non soggetti alle autorizzazioni previste per questa disciplina, pare che il piano della Toscana, invece, segua un’impostazione differente, riconoscendo ai Siti del Patrimonio Mondiale dell’Unesco (definiti “ulteriori contesti”) una precisa “identità estetico-percettiva, storico-culturale e paesaggistica”, sottoponendoli a determinate misure di salvaguardia e valorizzazione 783.

L’elenco delle divergenze tra piani potrebbe proseguire, poi, affrontando i temi dell’articolazione degli ambiti di paesaggio in ulteriori porzioni di territorio o della nozione di “previsione”, nonchè del ruolo partecipativo che i piani assegnano agli Enti locali. Infatti, se sotto il primo profilo merita segnalare che ogni piano adottato si è preoccupato di scomporre gli ambiti di paesaggio in unità minimali di identità paesaggistica, descritte e definite con varie nomenclature (unità di paesaggio, figure paesaggistiche, ambiti locali di progettazione paesaggistica, ecc.), con riferimento al secondo profilo, occorre sottolineare la mancata comprensione del significato del termine “previsione”, che in alcuni casi ( ad esempio, la Sardegna) è stato confuso con quello non sovrapponibile di “prescrizione”, delineato dall’art. 135 del Codice. Con riguardo al ruolo degli Enti locali, invece, si segnala la volontà di alcuni piani paesaggistici italiani di attribuire a tali soggetti pubblici compiti di partecipazione più o meno attiva nella tutela e valorizzazione del paesaggio, in tal modo differenziando il contributo che possono apportare in queste attività: ad esempio, mentre il piano della Toscana dimostra di coinvolgere gli Enti locali affidando loro, però, ruoli operativi limitati, il piano pugliese sembra maggiormente disposto ad ampliare le loro facoltà.

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Si veda gli artt. 6 e 9 del piano paesaggistico sardo e l’art. 17, commi 2, lett. a), e 3 delle N.T.A. del piano paesaggistico toscano.

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Pertanto, i pochi piani paesaggistici italiani possiedono, da un lato, una struttura generale omogenea, costruita sulla base delle indicazioni fornite dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma le specifiche parti di cui sono composti, dall’altro, possono assumere delle sfumature e dei contorni parzialmente o totalmente diversi, in relazione alla volontà discrezionale dell’Ente regionale che le pone in essere.