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Prevenzione e trattamento del rigetto

Nel documento UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI PISA (pagine 26-48)

Le strategie utilizzate nella pratica clinica per ritardare o evitare il rigetto sono l’immunosoppressione generalizzata ed il tentativo di diminuire l’intensità della risposta alloreattiva.

I farmaci immunosoppressivi che uccidono i linfociti T o ne inibiscono la funzione sono il principale presidio nel trattamento del rigetto di trapianto Tab. 2.

Attualmente, il più diffuso immunosoppressore utilizzato è la ciclosporina la cui azione principale è il blocco della trascrizione di alcuni geni (IL-2) dei linfociti T. L’introduzione della ciclosporina nella pratica clinica ha aperto una nuova era nel campo dei trapianti [17,23,24].

Prima del suo impiego, la maggior parte dei trapianti di cuore e di fegato andavano inevitabilmente incontro a rigetto. Un altro metabolita fungino impiegato nel campo trapiantologico, dotato di un meccanismo d’azione analogo a quello della ciclosporina, è denominato FK-506: il complesso formato da FK-506 e dalla sua proteina di legame (FK-506BP) ha in comune con il complesso ciclosporina-ciclofilina la capacità di legarsi alla calcineurina, inibendone l’attività.

Trapianto di rene ed alloriconoscimento

Metodo Meccanismo

Ciclosporina/FK506

Blocco dell'attivazione di NFAT nei linfociti T e della trascrizione dei geni di IL-2 e di altre citochine

Rapamicina

Blocco della trasduzione del segnale dell'IL2; arresto della progressione nel ciclo cellulare dei linfociti T

Mofetil micofenolato Blocco della sintesi dei nucleotidi nei linfociti T e della divisione cellulare

Corticosteroidi Blocco della produzione di citochine da parte dei macrofagi

Anti-CD3 Eliminazione o blocco funzionale dei linfociti

Anti-CD25

Blocco dell'attivazione dei linfociti T da parte dell'IL-2; eliminazione delle cellule T attivate

Tab.2 . Metodi di Immunosopprressione utilizzati nella pratica clinica

Un altro agente immunosoppressivo è l’antibiotico denominato rapamicina, il cui principale effetto è l’inibizione della proliferazione dei linfociti T. Al pari dell’FK-506, anche la rapamicina si lega all’ FK-506BP. Il complesso che ne risulta non

inibisce però la calcineurina, ma si lega ad un’altra proteina cellulare chiamata MTOR (mammalian Target of Rapamycin). Il meccanismo attraverso cui la rapamicina svolge il suo effetto anti-proliferativo sui linfociti T non è noto.

Nel trattamento del rigetto sono utilizzate anche tossine metaboliche che uccidono i linfociti T attivati. Questi agenti inibiscono la maturazione dei linfociti T dai precursori, ed uccidono le cellule T mature che proliferano in risposta agli antigeni. Il farmaco di più recente introduzione e di più largo impiego è il mofetil micofenolato (MMF). L’MMF viene metabolizzato in acido micofenolico il quale è in grado di bloccare nei linfociti T un’isoforma della deidrogenasi dell’inosina monofosfato, enzima necessario per la sintesi “de novo”

dei nucleotidi guaninici.

Un altro importante agente per la terapia degli episodi di rigetto acuto sono gli anticorpi diretti contro antigeni di superficie dei linfociti T. Il reagente di uso più frequente è un anticorpo monoclonale murino chimanto OKT3, diretto contro l’antigene CD3 umano. Un altro anticorpo monoclonale attualmente impiegato in clinica è l’anticorpo rivolto contro l’antigene CD25 che corrisponde alla subunità α del recettore dell’IL-2.

Il rigetto iperacuto mediato da anticorpi preformati può essere prevenuto rimuovendo tali anticorpi dal circolo ad es. tramite la plasmaferesi. Il rigetto acuto mediato da anticorpi generati a seguito del trapianto può essere prevenuto con farmaci capaci di bloccare la produzione di anticorpi. Numerosi farmaci immunosoppressivi di

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recente introduzione, quali la rapamicina ed il brequinar, si sono in effetti dimostrati in grado di inibire la risposta umorale.

Infine anche agenti anti-infiammatori sono routinariamente utilizzati per prevenire e curare il rigetto. Tra questi, i farmaci più potenti sono sicuramente i corticosteroidi. Questi ormoni naturali ed i loro derivati sintetici agiscono probabilmente bloccando la sintesi e la secrezione di citochine quali TNF e IL-1 da parte dei fagociti mononucleati.

I protocolli di immunosoppressione attualmente adottati hanno incredibilmente migliorato la sopravvivenza dei trapianti. Prima che la ciclosporina venisse adottata nella pratica clinica, il tasso di attecchimento dei trapianti da cadavere oscillava ad un anno dall’intervento tra il 50% ed il 60%. Dopo l’introduzione della ciclosporina e del MMF, la percentuale di sopravvivenza dei trapianti da cadavere raggiunge ad un anno il 90%, e l’impiego della rapamicina fa sperare in un ulteriore miglioramento dell’attecchimento a breve termine. Purtroppo, la prolungata immunosoppressione necessaria a garantire il “graft” comporta un aumento della suscettibilità a infezioni virali e a tumori causati da virus. Per cui è necessario sviluppare nuove strategie immunosoppressive mirate e/o personalizzate per ogni paziente.

La tolleranza al trapianto è già presente in natura

Si è osservato che nei roditori, ma anche in cani e maiali, è possibile prolungare per un lungo periodo di tempo la sopravvivenza dell’organo trapiantato senza dover ricorrere alla terapia antirigetto cronica. Anche nelle scimmie è stato possibile prolungare la sopravvivenza del trapianto di cute e a indurre tolleranza al trapianto di rene mediante l’impiego combinato di un breve trattamento con globuline antitimociti e infusione sistemica di cellule del donatore.

Persino nell’uomo si sono verificati casi in cui la sospensione della terapia antirigetto per motivi di tossicità o per la comparsa di un tumore non ha influito sull’organo trapiantato ,che ha continuato a funzionare normalmente per anni.

Ciò si applica soprattutto al trapianto di fegato, come documentato da Thomas Starzl e collaboratori [1], in uno studio su di 23 soggetti che per vari motivi avevano, spontaneamente o sotto controllo medico, ridotto e poi sospeso completamente i farmaci antirigetto in un periodo variabile da 6 mesi a 11 anni dopo il trapianto. Di questi 10 erano bambini che avevano dovuto sospendere la terapia antirigetto per la comparsa di infezioni da virus HCV o HIV, o perché avevano sviluppato tumori delle cellule del sangue. In 19 dei 23 pazienti non si ebbe alcuna reazione di rigetto del trapianto di fegato dopo la sospensione dei farmaci e la funzione dell’organo rimase nella norma, in alcuni anche per 14 anni. Sia nei soggetti adulti sia nei bambini la condizione di tolleranza così acquisita era

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specifica per gli antigeni del donatore, in quanto tutti erano in grado di far fronte a eventuali episodi di infezione sostenuti da batteri o virus.

Il microchimerismo

Il microchimerismo emopoietico a seguito di trapianto di organo solido è definito come la presenza di cellule del donatore nel sangue periferico del ricevente. Il fenomeno del microchimerismo può essere dovuto alla ricircolazione di cellule emopoietiche mature nel sangue periferico del ricevente in condizione di immunosoppressione farmacologica. Queste cellule potrebbero avere un ruolo nella sopravvivenza a lungo termine del graft, contribuendo alla tolleranza verso gli alloantigeni e riducendo il rischio di rigetto.

Per molto tempo l’organo trapiantato è stato considerato come un corpo estraneo all’interno di un organismo, immunologicamente e geneticamente omogeneo. I primi dubbi su questo modo di vedere le cose furono avanzati da Porter [22] nel 1969, il quale analizzò il cariotipo in riceventi femmine di fegato le quali avevano ottenuto l’organo da donatori maschi. In particolare evidenziò che a distanza di 100 giorni dal trapianto l’intero sistema macrofagico del fegato, cellule del Kupfer comprese, era sostituito dalle cellule del ricevente.

Si trattava della prima prova sperimentale a favore dell’ipotesi di uno stato di chimerismo post-trapianto.

In un primo momento si ritenne che la struttura chimerica del fegato fosse una caratteristica peculiare di questo organo: in realtà anni dopo il microchimerismo fu rilevato anche in seguito a trapianto di intestino, di polmone, di rene [21, 23, 25, 27,28]. E’ stato inoltre dimostrato con tecniche di biologia molecolare che le cellule del donatore colonizzano non solo il sangue periferico ed i linfonodi del

Il microchimerismo

ricevente, ma anche la cute, l’intestino, il midollo osseo e il timo.

Molto spesso il microchimerismo si manifesta come un fenomeno bifasico, con la scomparsa transitoria dei leucociti del donatore dal sangue periferico del ricevente a distanza di tre o quattro mesi dal trapianto, e con la loro ricomparsa nei mesi successivi. Questa peculiarità fa sì che in alcuni casi si verifichi un periodo finestra, con la conseguenza che ogni tentativo di rilevazione del fenomeno in questo lasso di tempo dà esito negativo .

La scoperta che il microchimerismo è un fenomeno esteso, in misura variabile, a tutti i tipi di organo solido trapiantato, mise in primo piano la questione relativa al destino delle cellule del donatore che

“scomparivano” dall’organo trapiantato. In un primo tempo fu ipotizzato che esse fossero rapidamente distrutte; questa ipotesi tuttavia fu accantonata in seguito alle evidenze sperimentali che dimostravano inequivocabilmente la presenza delle cellule del donatore in vari distretti corporei del ricevente. Per esempio, nel caso del trapianto di rene, già negli anni ‘60 furono portate prove indirette di quanto sopra affermato, mediante studi su test cutanei verso specifici antigeni (tubercolina, histoplasmina, cocciodiodina): si osservò, confrontando i dati anamnestici delle coppie donatore /ricevente, che in seguito al trapianto il ricevente tendeva in molti casi a sensibilizzarsi verso antigeni propri del donatore [19]. In particolare il 77% dei pazienti negativi per lo skin test che avevano ricevuto il rene da donatori positivi, si positivizzavano in seguito al trapianto. Il restante 23%, nei quali il risultato dello skin test rimaneva negativo, coincideva con la percentuali di rigetto. Gli

autori dello studio all’epoca ipotizzarono che il fenomeno fosse da attribuirsi ad un trasferimento dovuto ad un passaggio di leucociti dall’organo trapiantato al sistema linfatico del ricevente. L’ipotesi non fu ritenuta valida, obiettando che il rene era un organo troppo povero di linfociti per giustificare un tale effetto.

Nel 1969 tuttavia l’ipotesi fu rivalutata allorché furono osservate in pazienti trapiantati di fegato immunoglobuline specifiche del donatore: il fatto che queste permanessero a lungo nel sangue del ricevente suggerì che cellule immunocompetenti del donatore provenienti dall’organo trapiantato rimanessero vitali in particolari distretti del ricevente per periodi di tempo molto lunghi, rendendosi responsabili nel caso specifico della produzione di immunoglobuline osservata [19].

La dimostrazione diretta dell’esistenza del microchimerismo fu ottenuta solo nel 1991 ad opera di Murase e col. [23] mediante citofluorimetria su ratti sottoposti a trapianto di intestino e trattati con l’immunosoppressivo FK506. In particolare fu possibile evidenziare la colonizzazione dei tessuti linfoidi del ricevente da parte dei leucociti stromali dell’organo trapiantato.

Questa migrazione di cellule portava ad uno stato di chimerismo allogenico, che durava almeno fino a 45 gg post-trapianto. Il dato interessante era che questa situazione di chimerismo sistemico non dava luogo, salvo particolari casi, ad alcun segno clinico o GVHD (Graft Versus Host Disease).

Questo studio pilota a breve termine aprì la strada ad una serie di

Il microchimerismo

microchimerismo anche a distanza di anni dal trapianto. Questi studi si basavano sulla ricerca del microchimerismo in pazienti trapiantati di rene e di fegato, sfruttando le caratteristiche distintive del cromosoma sessuale Y (cromosoma esclusivo del maschio) e del sistema HLA (regione altamente polimorfica) [27]. Tecniche citologiche e amplificazione di specifici segmenti di DNA attraverso la polymerase chain reaction (PCR) sono state applicate a biopsie tissutali ottenute da un gruppo di 5 soggetti trapiantati di rene caratterizzati da una sopravvivenza dell’organo molto alta (27-29 anni). Alcuni di questi pazienti erano già stati reclutati per lo studio relativo allo skin test, circa 30 anni prima [40-42]. Tutti i pazienti avevano ricevuto un rene HLA-incompatibile, rendendo così possibile distinguere fra cellule del donatore e del ricevente. Inoltre in due casi donatore e ricevente erano di sesso opposto. I risultati della PCR e della citologia hanno dimostrato che in tutti i pazienti la popolazione leucocitaria interstiziale era del donatore, mentre i nefroni continuavano ad essere genotipicamente identici al ricevente.

In tutti i 5 casi presi in esame le biopsie cutanee e linfonodali rivelavano la presenza di cellule del donatore, apparentemente cellule dendritiche, dimostrando così per la prima volta nell’uomo la presenza di un basso livello di chimerismo sistemico (microchimerismo) a quasi 30 anni dalla data del trapianto.

Studi successivi sul trapianto di fegato in ratti evidenziarono che leucociti passengers migravano dal fegato trapiantato verso i linfonodi (fig. 4), il timo e la milza del ricevente entro poche ore dal

trapianto, senza che questa migrazione fosse condizionata in alcun modo da eventuali terapie immunosoppressive [29,30].

Fig. 4. Il destino dei leucociti “leukocytes” a seguito di trapianto di organo solido o di infusione di cellule midollari. La migrazione è selettiva verso gli organi linfoidi dell’ospite. Successivamente, 15-60 giorni dopo il trapianto, i leucociti sopravvissuti migrano verso siti non linfoidi. Lo stabilirsi di un traffico biunivoco tra cellule del donatore (che migrano nell’ospite) e cellule del ricevente (che migrano nell’organo trapiantato), potrebbero essere alla base della tolleranza.

Il microchimerismo

Le cellule scomparivano nell’arco di alcuni giorni dal trapianto in animali non trattati, mentre in ratti trattati per 2 settimane con FK506 i leucociti sopravvivevano, portando a uno stato di microchimerismo, associato alla sopravvivenza dell’organo trapiantato. Il principale interrogativo riguarda il significato funzionale di questo stato di microchimerismo.

Il numero relativamente basso di cellule del donatore rilevate nei tessuti del ricevente, anche in seguito a trapianto di un organo ricco in linfociti come il fegato, pose alcune questioni sull’effettiva importanza immunologica del fenomeno. Tuttavia la distribuzione pressochè ubiquitaria del chimerismo suggerirebbe il contrario, soprattutto in virtù della sopravvivenza a lungo termine osservata nei pazienti trapiantati.

Interazioni immunologiche

Non è ancora ben chiaro il meccanismo per il quale il microchimerismo possa persistere così a lungo dopo il trapianto. E’

probabile che alcuni tipi di leucociti presenti nell’organo trapiantato non raggiungano la completa differenziazione e mantengano la capacità di migrare e di proliferare. In un regime di immunosoppressione queste cellule totipotenti potrebbero dar luogo a linee cellulari differenziate, probabilmente cellule dendritiche, in grado di replicarsi indefinitamente nei tessuti del ricevente. La possibilità di generare cellule dendritiche a partire da precursori ottenuti da colture di cellule di midollo osseo di ratto, sangue od organi solidi, in seguito a trattamento con GM-CSF, è stata ampiamente documentata [30]. Non è chiaro tuttavia come e in base a quali segnali la proliferazione di queste cellule avvenga in vivo. E’

stato ipotizzato che le due popolazioni cellulari coesistenti, del donatore e del ricevente, interagiscano e diano luogo ad una sorta di bilanciamento immunologico, che rappresenterebbe il risultato di una

“ mutua immunosoppressione naturale” [30, 31]. L’instaurarsi di questa persistente interazione cellulare potrebbe dipendere dal ruolo permissivo giocato dai farmaci antirigetto, i quali consentirebbero l’instaurarsi del microchimerismo una volta che la migrazione cellulare bidirezionale a carico dell’organo trapiantato abbia avuto luogo.

Il microchimerismo

Un’alterazione di questo equilibrio dinamico può risultare sia in un rigetto (Host Versus Graft Reaction) che in una graft versus host disease (GVHD] (Fig. 5). Tuttavia in regime di immunosoppressione, nei casi di trapianto andati a buon fine, questa interazione a livello cellulare fra donatore e ricevente può ridurre drasticamente tali reazioni.

In particolare questa reciproca immunosoppressione naturale può essere di ausilio nel caso di organi strutturalmente poveri di linfociti, come il cuore od il rene.

Nello stesso modo la reciproca stimolazione immunologica potrebbe essere alla base della nota resistenza alla GVHD degli organi ricchi di leucociti, come il fegato, l’intestino, o in ultima analisi i trapianti combinati multiorgano [37-39].

Il fattore chiave per il successo nella pratica clinica consisterebbe quindi nel consentire che le due popolazioni cellulari interagiscano, senza indebolire o eliminare una delle due popolazioni in favore dell’altra.

Fig 5. Il modo di vedere le interazioni immunologiche tra ricevente e donatore; A e B vecchie concezioni C e D nuove concezioni.

A) Il sistema immune è visto in maniera unidirezionale, le cellule del ricevente attaccano l’organo trapiantato dando luogo al rigetto HVG (Host Versus Graft).

B) Nello stesso modo erano viste le interazioni immunologiche (unidirezionali) nel trapianto di midollo. La completa sostituzione delle cellule midollari del ricevente con quelle del donatore poteva portare in caso di mancato attecchimento ad una gravissima complicanza definita Graft Versus Host Disease (GVHD).

C) Attuale modo di vedere le interazioni immunologiche (bidirezionali) tra cellule del donatore e del ricevente.

Entrambe le popolazioni cellulari interagiscono tra di loro contribuendo sia allo svilupparsi di una GVHD sia di una HVGD. Nonostante sia la HVGD ad avere una netta prevalenza.

D) Attuale modo di vedere lo stabilirsi degli equilibri

Il microchimerismo

Sarebbe quindi essenziale evitare trattamenti specifici pre -trapianto sul potenziale ricevente, come , per esempio, l’impoverimento di componenti cellulari del sistema immunitario, che inevitabilmente ne comprometterebbero la reattività.

Fig 6. Contemporanea presenza di HVG e di GVH conseguenti al trapianto di organo solido. La terapia immunosoppressiva è importante per mantenere l’equilibrio fra le due popolazioni cellulari (donatore/ricevente). L’assenza di prevalenza di una delle due popolazioni rappresenta la base per un completo attecchimento anche in assenza di immunosoppressione.

In sostanza, dato che entrambe le popolazioni cellulari, del donatore e del ricevente, sono sottoposte allo stesso trattamento immunosoppressivo, con finalità protettive, è ipotizzabile che quanto

maggiore è l’equilibrio fra le 2 popolazioni cellulari, tanto minore sarà la possibilità di rigetto o GVHD (fig. 6).

E’ probabile che un ruolo chiave nella tollerogenicità del microchimerismo post trapianto sia giocato da un tipo speciale di leucocita, la cellula dendritica [28, 30]. In una reazione immunologica contro uno specifico antigene, sia essa una GVDH o un rigetto, la risposta cellulo mediata ad opera dei linfociti T necessita dell’ausilio di un tipo particolare di cellule immunocompetenti, le cellule presentanti l’antigene (APC), in grado di fornire una serie di segnali co-stimolatori grazie anche alle molecole del Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC) presenti sulla loro superficie. Fra i vari tipi di APC le cellule dendritiche sono con ogni probabilità le più importanti, anche se sicuramente non le uniche, nel contesto delle interazioni alla base del microchimerismo, dato che esse possono modificare l’espressione degli antigeni MHC, di molecole di adesione, modulando de facto il segnale nei confronti dei linfociti T.

E’ stato ipotizzato da numerosi autori che la sola teoria della delezione clonale intratimica non sia sufficiente a spiegare per intero la tolleranza acquisita nei confronti dell’organo trapiantato [35, 36, 38]. La presenza di un microchimerismo a lungo termine e la conseguente interazione fra il sistema immune del ricevente e del donatore potrebbe almeno in parte giustificare alcune teorie, come per esempio la delezione clonale periferica non timica.

Il microchimerismo

Valutazione del microchimerismo mediante Real-Time PCR

La reazione a catena della polimerasi (PCR) è uno strumento estremamente potente per amplificare piccolissime quantità di DNA o di mRNA. Tuttavia, senza opportuni accorgimenti, la PCR è in grado di fornire solo risultati qualitativi. Questo è dovuto al carattere esponenziale dell’amplificazione che fa sì che anche minime variazioni nell’efficienza della amplificazione si riflettano in una marcata variazione della quantità di prodotto amplificato. Inoltre, la quantità di prodotto raggiunge un “plateau” negli stadi finali della amplificazione [49-51] con la conseguenza che repliche di una stessa quantità di un marker danno inevitabilmente quantità diverse (fig. 7) Questi problemi sono stati recentemente superati con l’introduzione di una nuova tecnica denominata Real-Time PCR.

Effetto plateau

Fig.7. Rappresentazione grafica dell’effetto plateau. Indipendentemente dal numero di copie di DNA di partenza contenute nel campione, la quantità di segnale ottenuto all’aumentare dei numeri di cicli tende ad una fase di Plateau.

Higuchi et al, sono stati i primi ad analizzare la cinetica della PCR attraverso un sistema di rilevamento dei prodotti di PCR in tempo reale ovvero man mano che i prodotti si accumulano. Recentemente la tecnica della Real-Time PCR è stata migliorata dall’introduzione di probes ovvero sequenze di DNA complementari alle sequenze del target da amplificare [53, 54]. Holland et al., hanno dimostrato che il taglio del probe target durante la PCR, mediato dall’attività 5’

nucleasica della Taq polimerasi potrebbe essere sfruttato per analizzare la produzione, sia qualitativa sia quantitativa, del prodotto target-specifico [55]. Infatti l’estremità 3’ del probe è mancante del gruppo ossidrile–OH necessario per l’allungamento della catena, in queste condizioni il probe non può funzionare da innesco. Dal punto di vista tecnico la Real-Time PCR, in addizione ai componenti tipici necessari per l’amplificazione, contiene un probe marcato

nucleasica della Taq polimerasi potrebbe essere sfruttato per analizzare la produzione, sia qualitativa sia quantitativa, del prodotto target-specifico [55]. Infatti l’estremità 3’ del probe è mancante del gruppo ossidrile–OH necessario per l’allungamento della catena, in queste condizioni il probe non può funzionare da innesco. Dal punto di vista tecnico la Real-Time PCR, in addizione ai componenti tipici necessari per l’amplificazione, contiene un probe marcato

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