La separazione dei compiti delle aziende municipalizzate da quelli attinenti l’edilizia popolare rese gli IACP indicati nel Testo Unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica del 28 aprile 1938, n. 1165 i protagonisti della politica di ERP. I Comuni passarono quindi in una posizione secondaria, conferendo denaro, aree e immobili ai nuovi enti. Lo Stato concorse per il solo IACP di Roma, mentre le Casse di Risparmio limitarono il loro apporto, peraltro modesto, alle Regioni settentrionali.
Il capitale privato intervenne quasi sempre sotto forma di elargi- zione benefica, fatti salvi gli interventi diretti delle imprese per la co- struzione di alloggi per i propri dipendenti.
Per sviluppare il proprio programma edilizio, gli IACP furono co- stretti a ricorrere al credito. La loro sopravvivenza dunque divenne legata agli istituti di credito, poiché dalla tempestività e dalle condi- zioni di concessione dei finanziamenti dipendevano la realizzazione dei programmi costruttivi e il livello dei canoni di locazione.
La legislazione sull’edilizia economica e popolare trovò il suo perno nel Testo Unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica che, tuttavia, non definì un chiaro e preciso sistema di norme o di po- teri relativi alla concessione dei mutui. Al contrario, il rapporto trian- golare fra gli istituti di credito (mutuanti), gli IACP (mutuatari) e lo Stato (sovventore) non trovò sufficiente coordinamento e automati- smo, per cui gli Istituti operarono in una condizione di stretta dipen- denza dagli altri due poteri, dalla cui discrezionalità dipese da quel momento l’intero processo di intervento nell’edilizia popolare.
Le scelte del periodo 1947-1954, originate dalla necessità della ri- costruzione postbellica, costituirono una svolta determinante per gli IACP, anche se non sempre in termini positivi.
La nuova struttura dell’edilizia pubblica comportò una sostanziale modificazione del loro modus operandi, incidendo profondamente anche sull’autonomia delle loro scelte e, conseguentemente, sulla loro struttura organizzativa. Gli IACP non agirono più esclusivamente per conto proprio, e raramente per conto e in accordo con i Comuni, ma diventarono strumenti di esecuzione e di gestione per conto terzi (ini- zialmente lo Stato e, successivamente, Ina-Casa e Gescal). Si trovarono
insomma in una posizione subordinata e furono costretti ad operare a condizioni non sempre compensative dei costi del servizio. Ciò si veri- ficò, e si verifica tuttora, soprattutto con riferimento alla gestione degli alloggi: un patrimonio costruito con economia di mezzi che richiede immediati e frequenti interventi manutentori, cui devono far fronte gli ex IACP utilizzando proprie risorse.
A partire dal secondo dopoguerra, il sistema di finanziamento dell’e- dilizia popolare fu parzialmente modificato. Infatti, non si basò più unicamente sul ricorso al credito, perché lo Stato e Ina-Casa concor- sero per intero al finanziamento delle costruzioni.
Il piano per la costruzione di case per i lavoratori, legato al nome di Amintore Fanfani 3 che lo ideò, e le successive leggi, disposte dai Mi-
nistri Umberto Tupini 4 e Salvatore Aldisio, che prevedevano una serie
di sgravi fiscali e di stanziamenti pubblici, nonché il finanziamento bancario a tassi agevolati per lo sviluppo dell’edilizia abitativa, ebbero un duplice merito: da un lato, assicurarono un’abitazione a una parte della popolazione che ne era rimasta priva in seguito alle devastazioni del periodo bellico o che non aveva la possibilità di procurarsela con i propri esigui proventi e, dall’altro, concorsero ad alleviare la disoccu- pazione grazie alla ripresa delle attività in numerosi cantieri.
La L. 28 febbraio 1949 n. 43 istituì un comitato per l’impiego dei fondi raccolti e gestiti da un organismo speciale costituito presso l’Isti- tuto nazionale delle assicurazioni (la Gestione Ina-Casa). Il Piano Ina- Casa, che ebbe carattere profondamente innovativo, fu inizialmente previsto di durata settennale, durante i quali furono complessivamente impegnati 334 miliardi di lire per la costruzione di 147 mila alloggi. La copertura finanziaria del Piano fu garantita dallo Stato, dai datori di lavoro e dai dipendenti attraverso una trattenuta dal salario, una sorta di fondo sociale solidale con i disoccupati 5. Furono inoltre costituiti
due comitati: il Comitato di attuazione e il Comitato di gestione. Il primo emanava le norme ed erogava i contributi finanziari, mentre il secondo, a cui partecipavano rappresentanze del mondo del lavoro, sia
3 Amintore Fanfani (1908-1999) fu Ministro del Lavoro nel IV (1947/1948) e V (1948/1950) Governo de Gasperi.
4 La cosiddetta legge Tupini n. 408 del 2 luglio 1949 stabilì i principi dell’intera successiva legislazione sull’edilizia economica e popolare e, a differenza del Piano Fanfani, era rivolta alla generalità dei cittadini, indipendentemente dal tipo di lavoro svolto, purché bisognosi di una casa e in possesso di determinati requisiti.
5 Il contributo dei lavoratori ammontava allo 0,60% del salario, mentre i datori di lavoro versavano l’1,20% a cui si aggiungeva un contributo dello Stato pari al 4,30% calcolato sul complesso delle due contribuzioni.
i datori che i lavoratori, oltre a rappresentanti del governo (Ministero del tesoro, Ministero del lavoro e Ministero dei lavori pubblici), si oc- cupava dei piani dal punto di vista architettonico, controllava gli enti periferici e conferiva gli incarichi.
La legge Fanfani fu prorogata per un altro settennio. Il Piano Ina- Casa favorì il rilancio dell’attività edilizia, la riduzione della disoc- cupazione, la costruzione di alloggi per le famiglie a basso reddito, contribuì alla rivoluzione abitativa dell’Italia repubblicana e costituì un riferimento di grande importanza per tutti i successivi interventi di edilizia agevolata e convenzionata.
Giunto a scadenza il Piano Fanfani, il settore dell’edilizia popolare entrò in crisi. Ci furono forti divergenze nei governi e non fu possibile avviare una riforma in grado di disciplinare l’utilizzo dei suoli urbani e di neutralizzare la speculazione edilizia, che andava dilagando in coincidenza con la notevole domanda di abitazioni dovuta al crescente esodo di popolazione dalle campagne in direzione delle principali aree metropolitane. Intanto, gli investimenti pubblici furono dimezzati.
La L. 18 aprile 1962 n. 167 conteneva le disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare. Il compito di assicurare la disponibilità di aree edificabili e la loro urbanizzazione, istituzionalmente riservato al Comune, trovò una di- sciplina organica e funzionale con la formazione dei Piani di zona. L’e- dilizia economica popolare fu inserita in piani inquadrati e coordinati e fu prevista la possibilità di assoggettare all’esproprio tutte le aree, in- dipendentemente dalla loro destinazione. Le finalità della L. 167/1962 furono, da un lato, facilitare l’acquisizione delle aree ad un prezzo che eliminasse le plusvalenze formatesi in conseguenza dell’espansione delle città e che consentisse un’azione calmieratrice sul mercato delle aree edificabili e, dall’altro, permettere l’integrazione dell’edilizia rea- lizzata dagli IACP con quella privata, in modo da rendere possibile la creazione di quartieri socialmente equilibrati.
Gli investimenti pubblici nell’edilizia popolare non furono rilanciati neppure con il nuovo programma per l’edilizia economica che prese il via fra il 1967 e il 1968 con la creazione di un’agenzia pubblica, l’Istituto gestione per le case dei lavoratori (Gescal), finanziata con il medesimo sistema del Piano Fanfani e affiancata da una gestione speciale per l’edilizia inclusa nella cassa integrazione per gli addetti al settore industriale. La L. 14 febbraio 1963 n. 60 prevedeva, non solo la sostituzione della gestione Ina-Casa con il Gescal, ma anche la promo- zione di un piano decennale di costruzione degli alloggi da destinare alla generalità dei lavoratori, alle singole aziende, alle cooperative e
al fondo di rotazione per singoli lavoratori (costruzione o acquisto). nelle intenzioni del legislatore, le novità introdotte dalla L. 60/1963 avrebbero dovuto coprire parte del fabbisogno delle categorie meno abbienti, ma gli obiettivi di miglioramento sociale rimasero per lo più sulla carta, sia per l’incapacità di numerosi Comuni di fornire aree convenientemente attrezzate a tale scopo, sia a causa delle lungaggini burocratiche.