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Primo interludio

Nel documento Dario De Judicibus La Lama nera (pagine 40-58)

Così me ne andai. Riattraversai completamente il villaggio e mi diressi verso la capanna del vecchio Tap senza voltarmi indietro. D’altra parte non c’era altro che potessi fare. Ci sarebbero voluti diversi giorni per seppellire tutti quei corpi e presto sarebbero arrivati i cani selvatici e altre bestie feroci, attirate dall’odore del sangue e della carne. E forse non solo quelli. Era troppo pericoloso restare lì da solo. Inoltre bisognava avvisare quanto prima la guarnigione di Libeth. Altri villaggi potevano essere in pericolo. Non avevo idea di dove si fosse diretta l’orda dopo il massacro.

Magari in quello stesso momento era in procinto di attaccare proprio il capoluogo della regione o forse stavano marciando addirittura verso la capitale. Dovevo muovermi, e in fretta anche. Era la cosa più logica da fare, anzi, era l’unica cosa da fare.

A essere sincero non feci nessuna di queste considerazioni. Me ne andai e basta. Mi sentivo svuotato, assolutamente calmo e rilassato, come se nulla potesse toccarmi ormai, e in effetti non c’era più nulla che fosse in grado di farlo in quei terribili giorni.

Avevo perso la mia anima, la mia umanità, o forse si era ritratta in qualche angolo oscuro della mia mente a piangere. Forse fu l’influsso della lama nera che portavo sulla schiena, o forse fu semplicemente che avevo sperimentato troppo per un ragazzino di dodici anni, per quanto ben addestrato e preparato alla vita. Fatto sta che quel giorno mi lasciai alle spalle gli anni della mia giovinezza per iniziare una nuova avventura, che mi avrebbe portato oltre i confini del mondo conosciuto e oltre i limiti che gli Dèi hanno stabilito per gli esseri umani.

Mi ero stancato più di quanto mi aspettassi, tuttavia. Quando arrivai alla capanna, avevo tutti i muscoli indolenziti e uno strano sapore di metallo in bocca. Decisi di rimandare la partenza al giorno dopo. Tolsi il basto all’asina, buttai giù un po’ di pane e del formaggio di pecora che il proprietario del capanno teneva nella dispensa, quindi mi lasciai cadere sul pagliericcio, esausto. Dormii a lungo, di un sonno profondo, senza sogni. Non sapevo dove fosse il vecchio, giù al villaggio non c’era, ma avevo la netta sensazione che non l’avrei più rivisto. La mattina dopo, di buon ora, mi alzai, preparai l’asina e partii, senza voltarmi indietro.

Il viaggio verso Libeth fu faticoso e più lungo di quanto pensassi. La possibilità che a precedermi ci fosse un esercito di demoni mi costrinse a muovermi con cautela, fermandomi spesso e osservando bene il terreno di fronte a me ogni volta che mi avvicinavo alla cima di una collina o che lasciavo la confortevole frescura di un bosco per uscire allo scoperto. Arrivai il pomeriggio del secondo giorno, sul tardi, quasi all’imbrunire, quando già i cancelli della città si stavano chiudendo. Ero stremato, sporco, che puzzavo di sangue e di sudore, non un bello spettacolo, tant’è che

all’inizio la guardia non mi volle neppure far passare, ma quando nominai mio padre, andò a chiamare un superiore. Così il sottoufficiale, dopo aver parlato brevemente con il soldato, mi fece entrare e scortare dal comandante della guarnigione.

Questi era un tipo magro, abbastanza robusto, con appena un accenno di pancia, segno che evidentemente il tranquillo lavoro al comando di una piccola guarnigione in una sperduta regione periferica non lo aveva rammollito più di tanto. D’altra parte la maggior parte delle guarnigioni del Regno Settentrionale erano comandate da ex-veterani della Guerra dei Quattro Regni; per lo più soldati o sottoufficiali che si erano distinti in battaglia. La guerra aveva decimato le file dell’esercito, soprattutto nei primi anni, uccidendo molti degli ufficiali, in buona parte figli di signorotti locali e damerini di corte, il che era stato sicuramente un bene per l’esercito del Regno del Nord, sebbene la cosa l’avesse costretto a ripiegare per parecchie centinaia di stare verso l’interno nei primi mesi di guerra, soprattutto dai confini sudoccidentali. A est le Mura proteggevano il Reame, ma sui confini meridionali non esistevano difese naturali, per cui l’unica possibilità era quella di costituire un primo fronte compatto in corrispondenza del confine fra la Rethia Superiore e quella Inferiore, e un secondo fronte ai confini settentrionali dell’Alta Astura, nella Valle del Salto, dove

l’impenetrabile foresta dove abitavano gli Elfi Bianchi quasi arrivava a lambire le pendici dei Monti del Tramonto.

Con la caduta dell’Usurpatore e l’ascesa al trono di Re Odoardo, i Quattro Regni stipularono un accordo di non belligeranza, in modo da potersi leccare le ferite e ricostruire su quel poco che la guerra aveva risparmiato. Uno dei primi atti del nuovo sovrano del nord fu un amnistia generale nei confronti di tutti coloro che, pur

avendo servito sotto l’Usurpatore, si erano comportati con onore e non si erano macchiati di atti criminali nei confronti della popolazione civile e dei prigionieri di guerra.

Il Comandante della guarnigione di Libeth, Viktor Issani Der Finenz, era stato uno dei generali più valorosi al servizio dell’Usurpatore, uno di quegli uomini che si

guadagnano presto il rispetto anche da parte del nemico e che, per questo motivo, finiscono per fare da capri espiatori per gli errori del loro sovrano quando le cose volgono al peggio. Quando Odoardo conquistò la Reggia di Loth, il Generale Der Finenz aspettava in una delle celle del Palazzo Reale di essere condotto sul patibolo per essere pubblicamente decapitato.

I Der Finenz erano un antico casato della regione, tuttavia caduto in disgrazia già da un paio di secoli. La famiglia, da nobile, si era riconvertita al commercio, diventando in breve una delle più ricche della zona. Commerciava soprattutto in pelli e minerali pregiati e aveva ricomprato il vecchio castello di famiglia per ristrutturarlo e

trasformarlo in un’ampia tenuta signorile. Viktor Issani era il quarto di sette figli, e ben difficilmente avrebbe potuto sperare in qualcosa di più che uno scarso vitalizio alla morte del padre.

In quella regione c’era l’abitudine che tutti i beni andassero al primogenito, maschio o femmina che fosse, con l’intesa tuttavia che questi avrebbe dovuto sposarsi entro due anni dalla morte del Signore o della Signora precedente e avere almeno un figlio al più entro altri due anni. In caso contrario la tenuta passava al secondogenito e così via. Se nessuno soddisfaceva le condizioni richieste, le proprietà dovevano essere vendute e il ricavato doveva essere diviso fra tutti i figli; dopodiché, ognuno per la sua strada. Si trattava di una legge severa ma che nel tempo si era dimostrata molto utile, evitando quelle interminabili faide che avevano caratterizzato i primi secoli del millennio, fino all’Editto di Shanta Klei. Ad ogni modo, il nuovo signore, o signora, se femmina, aveva l’obbligo di provvedere al mantenimento di fratelli e sorelle tramite un vitalizio decrescente dal più anziano al più giovane.

A Viktor Issani non andava molto giù l’idea di farsi mantenere dalla sorella.

Orgoglioso e abituato a cavarsela da solo, decise ancora giovanissimo di entrare nell’esercito come picchiere e da lì fece rapidamente carriera, distinguendosi per coraggio e lealtà. Era una persona pratica, poco incline ai sentimenti e comunque abbastanza rigida, non solo nei confronti degli altri, ma anche con sé stesso.

Der Finenz mi squadrò dall’alto in basso e mi chiese chi fossi e cosa facessi lì. Gli raccontai tutta la storia, senza tralasciare niente, nessun particolare. A supporto di quello che avevo detto gli mostrai la spada. La fissò sospettoso. Come quasi tutti i guerrieri, non aveva una grande considerazione per le armi magiche o presunte tali.

Armi “vigliacche”, le chiamavano. Non erano certo il tipo di armi che un bravo

guerriero avrebbe portato in battaglia; non era il buon onesto acciaio che richiede un

braccio forte e una discreta abilità. Usare quelle armi era un disonore per un buon soldato, assolutamente indegno di un vero guerriero, almeno così la pensava Viktor e, come lui, molti altri.

Ad ogni modo, il comandante non era certo stupido e sapeva quanto potessero essere pericolose quelle armi, per cui fece chiamare un mago e gli consegnò con molta attenzione la spada. – Studia quest’arma e poi fammi sapere tutto ciò che sei venuto a scoprire su di essa. – gli disse.

Quindi mi fece portare alle cucine dove potei bere e mangiare, mentre qualcuno si occupava della povera Lora, anche lei piuttosto stanca. Nel frattempo, Der Finenz ordinò a due dei suoi migliori soldati di andare sia al villaggio che alla fattoria, per verificare quanto avevo detto e cercare qualche indizio su dove fosse diretta l’orda.

Uno dei due era un esploratore, un membro della Gilda dei Cercatori, estremamente abile nel trovare tracce e seguire piste.

Rimasi a Libeth per diversi giorni. I soldati tornarono confermando il mio racconto, ma dei demoni non era stata trovata alcuna traccia, né c’erano stati altri fatti simili o avvistamenti di creature non umane nelle campagne circostanti. Così il comandante fece chiamare il mago perché trasmettesse il rapporto alla capitale e da qui fosse diffuso ai vari capoluoghi di regione. Mandò inoltre un drappello al villaggio per seppellire quello che rimaneva dei poveri resti, assieme a due sacerdotesse della Madre perché eseguissero i riti di sepoltura.

Per quanto riguardava la spada, il mago non riuscì a trovare nulla. Era sicuramente una spada magica, dato che sembrava fatta di ossidiana, ma era dura e flessibile come il miglior acciaio, e sicuramente era stata protetta con incantesimi al di sopra delle sue capacità, dovette ammettere sconsolato. Così si decise di mandarla a Loth per farla analizzare più a fondo.

Il comandante mi chiese se avessi dei parenti o dei conoscenti presso i quali sarei potuto andare. Rupert era ben conosciuto in tutto il Regno del Nord e la sua fama era particolarmente estesa, soprattutto fra i guerrieri. Gli raccontai di zio Rubeus e di come, al momento di partire, oramai era passata più di una dodecade, avesse

accennato al fatto che sarebbe rimasto qualche mese a Loth, per delle sue ricerche.

Così partii anch’io per la capitale, accompagnato da una scorta di tre soldati e dal mago, che portava la spada del demone avvolta in un panno e chiusa in un piccolo baule.

Viaggiammo per parecchie centinaia di stare, io sul carro col mago, i tre soldati a cavallo. Arrivammo alla capitale dieci giorni dopo. Avevamo viaggiato veloci, soprattutto nelle ultime duecento stare, grazie alle ampie strade lastricate che tagliano il regno da nord a sud e da est a ovest. Lì venni alloggiato presso un cugino di Der Finenz, dove rimasi finché non riuscirono a rintracciare mio zio.

Rubeus alloggiava al “Daino Bianco”, una locanda piccola ma pulita, poco fuori dal sestiere nord occidentale, ai piedi del Castello Reale. Rimase in silenzio quando gli raccontai la storia. Non disse una parola né fece un gesto. Solo dopo molti anni mi confidò di come fosse rimasto colpito, ancor più che dalla morte dei miei genitori e suoi vecchissimi amici, dalla mia assoluta freddezza e indifferenza, quasi stessi parlando di una voce sentita al mercato nella quale non avevo alcun interesse.

Probabilmente avevo fatto la stessa impressione anche a Der Finenz ma questi, per rispetto alla memoria di mio padre, non aveva mostrato alcun segno di fastidio o sorpresa. D’altra parte, quando la si raccontava alla luce del giorno, la storia non era diversa da quelle di molti altri massacri avvenuti nella regione durante la guerra. Era difficile rendere a parole il senso di orrore e di disgusto che non si poteva non

provare di fronte a quei corpi straziati, torturati fino alla morte.

Comunque, dopo un mese passato con zio Rubeus alla locanda, partii con lui alla volta di Issah, capitale del Regno Meridionale. Mi lasciai alle spalle un incubo e una spada della quale, per molti anni, non seppi più nulla. Non parlammo più della cosa durante il viaggio verso sud, e neppure dopo essere arrivati in quella che sarebbe stata per quasi due anni la mia nuova casa. Non avevo potuto seppellire i corpi dei miei genitori nella terra gelata, per cui avevo finito per seppellire il loro ricordo nel mio cuore. Mi dimenticai di loro, o almeno provai a farlo, ma loro rimasero sempre lì, vicino a me, a vegliarmi, con i loro consigli accorti e le battute ironiche, i sorrisi aperti e gli sguardi seri. Anche se non me ne rendevo conto, loro e io eravamo un’unica cosa oramai, e fu questo che più di una volta mi salvò la vita negli anni a venire.

Capitolo III

– Aggart?

– Sì, zio?

– Stai andando al mercato?

– Sì, zio Rubeus. Devo portare questo cuoio a Mastro Girardo perché vorrei farmi un paio di stivali nuovi. Questi oramai mi stanno stretti e non c’è più modo di allargarli.

– Dovresti farmi un favore, allora. Potresti passare da Mastro Corbella a prendere un pacchetto per me? Non credo ti dispiaccia, vero, allungare un po’ la strada? – disse lo zio, scendendo le scale e strizzando l’occhio al ragazzo.

– Dispiacermi? E perché? Lo sai che per te farei qualunque cosa. – rispose Aggart, restituendogli un sorriso.

In realtà il giovane pensava di passare comunque dalla bottega di Mastro Corbella, non tanto per il suo interesse nei vecchi libri, rotoli, mappe e pergamene che

riempivano la piccola stanza piena di scaffali del vecchio libraio, quanto per gli occhi azzurri e il sorriso splendente di una certa fanciulla, che aiutava il nonno a tenere in ordine il locale, sempre che di ordine si potesse parlare in quella confusione.

Un mese dopo essere arrivato a Dorph, un grazioso villaggio a qualche decina di stare da Issah, Rubeus aveva mandato nel nord un paio di suoi fidati aiutanti affinché recuperassero quello che si poteva dalla fattoria di Rupert. In particolare era interessato alla biblioteca privata del Mastro Armaiolo, una delle più ricche del Regno del Nord. La biblioteca era posta in una stanza segreta, su un lato della casa, ed era fatta in modo da non dare l’impressione ci fosse un locale in più all’interno della costruzione. Era infatti stretta e lunga, ad angolo, completamente rivestita di scaffali e intonacata e areata in modo che i libri restassero sempre all’asciutto. Non era stata pensata come sala di consultazione, non c’era abbastanza spazio per quello, ma solo per riporre e proteggere alcuni fra i più rari libri del continente. Quasi un quarto, infatti, erano addirittura rilegati, con tanto di copertina. Il resto erano soprattutto rotoli, fogli singoli e faldoni pieni di fogli accuratamente numerati, soprattutto diari, lettere e mappe di ogni genere: un vero tesoro.

Arrivati alla fattoria i due aiutanti trovarono la stanza inviolata e poterono portare giù tutto il materiale, oltre naturalmente agli oggetti che Aggart aveva nascosto prima di lasciare la casa. Presero anche qualche altra suppellettile, dietro indicazione dello stesso ragazzo, oltre ad alcune spade e altre armi che i demoni non avevano trovato o forse neppure cercato. In effetti, a parte i cavalli, null’altro era stato asportato dalla fattoria, nonostante fossero passati quasi due anni dal massacro. Il fatto era che le voci sull’orda di demoni erano corse in fretta, distorcendosi e

amplificandosi, sebbene non ce ne fosse minimamente bisogno, e l’intera zona aveva

finito per diventare una specie di terra proibita, che ormai neppure i banditi e i vagabondi osavano attraversare.

Ad ogni modo, ora di libri, Aggart e Rubeus ne avevano più dello stesso Re

Sigismondo, ma l’ex-marinaio era sempre alla ricerca di testi nuovi, soprattutto di quelli che riguardavano le lontane terre meridionali e orientali, quelle oltre Le Mura.

Perché, Aggart non lo sapeva e Rubeus non glielo aveva mai detto. Il ragazzo era abituato a rispettare le decisioni degli altri, per cui, se e quando lo zio avesse ritenuto utile informarlo, gliene avrebbe parlato. E poi aveva altro per la testa in quel periodo.

Comunque, per Aggart, la passione dello zio per i libri era stata vera una sorpresa.

Per lui zio Rubeus era solo un ex-marinaio, un tipo buffo e simpatico che conosceva un’infinità di storie ma, come giunse alla villa del vecchio, comprese che le cose stavano diversamente. Tanto per cominciare una villa così non l’aveva mai vista. Era grande e spaziosa, con un ampio patio interno nel quale c’era uno splendido giardino pieno di piante, di molte delle quali il ragazzo non aveva mai neanche sentito parlare.

La casa era molto luminosa, con un ampio corridoio che le girava tutto intorno sul lato esterno e sul quale si aprivano diverse stanze, tutte con la vista sul giardino.

Inoltre aveva due piani: in quello inferiore c’erano le cucine, le stanze della servitù e i locali di servizio; sopra le camere da letto, lo studio con adiacente una stupenda biblioteca e persino un osservatorio astronomico.

Aggart non aveva idea di quanto potesse essere costata una simile abitazione, né quanto potesse costare mantenerla e soprattutto mantenere ben quattro persone di servizio: una cuoca, un giardiniere, una governante e persino un segretario privato, un certo Jeens. Comunque era sicuramente più di quanto suo padre avesse

guadagnato in tutta la sua vita. Girava voce che in una delle sue tante avventure Rubeus avesse trovato un tesoro, forse il bottino di una qualche banda di pirati; altri dicevano che aveva salvato una fanciulla che era risultato poi essere la figlia di un ricchissimo Satàn; fatto sta che a casa dello zio non mancava mai niente.

Nonostante l’evidente ricchezza, zio Rubeus era un tipo molto semplice, alla mano, non solo con Aggart, ma con tutti, a qualunque ceto sociale appartenessero. Inoltre era tutt’altro che tirchio. Non che fosse uno spendaccione, anzi, a volte era accorto come un mercante e prudente come un banchiere, ma non si rifiutava mai di aiutare qualcuno che ne avesse bisogno, purché se ne mostrasse meritevole. Chi aveva cercato di approfittarne, tuttavia, aveva scoperto a sue spese che cercare di imbrogliare il vecchio marinaio non era conveniente. Rubeus non usava mai la

violenza. Piuttosto gli piaceva giocare qualche piccolo scherzo a chi tentava di prenderlo in giro, e alcuni dei suoi scherzi erano decisamente poco piacevoli.

Comunque aveva finito per farsi benvolere da tutti, al villaggio, sebbene non fosse nato da quelle parti; soprattutto dalla vedova dell’oste, che gli ronzava attorno già da diversi anni. Elsa era una bella donna, nonostante avesse oramai superato la

quarantina. Da giovane era stata una splendida ragazza, corteggiata dalla metà della popolazione maschile di quasi tutti i villaggi della regione e insidiata dall’altra metà.

Alla fine aveva sposato Ereldyn, un giovane guerriero venuto da Laag, una città alle pendici delle Mura, là dove il Muro Alto si unisce alla Coda del Serpente. I due avevano aperto un’osteria che era presto diventata famosa in tutta la regione.

Durante la guerra, Ereldyn era partito per combattere sul fronte settentrionale, assieme alla maggior parte degli uomini di Dorph, e non era più tornato. Un anno dopo un soldato era arrivato al villaggio portando un medaglione che Elsa aveva donato a Ereldyn quando questi era partito: una rosa d’argento trafitta da una spina.

L’uomo aveva detto che era stato proprio il guerriero a dargliela, poco prima di spirare fra le sue braccia, trapassato al fianco dalla lancia di un cavaliere sulla Piana

L’uomo aveva detto che era stato proprio il guerriero a dargliela, poco prima di spirare fra le sue braccia, trapassato al fianco dalla lancia di un cavaliere sulla Piana

Nel documento Dario De Judicibus La Lama nera (pagine 40-58)

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