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U N PROBLEMA TERMINOLOGICO : LE IDENTITÀ DI P RIMO L EVI E IL LESSICO DELLA MEMORIA A CONFRONTO

MEMORIA A CONFRONTO

È stato difficile capire quale fosse il modo più adatto per trasmettere e conservare la memoria storica di un avvenimento che, per via di alcune sue caratteristiche intrinseche, è tutt’ora considerato un caso singolare nella storia dell’umanità. La Shoah ha infatti provocato la necessità di una riformulazione e rivalutazione delle dinamiche storiche fino ad allora accadute in virtù del suo singolare statuto di violenza ed esasperazione dell’intolleranza di un popolo verso un altro. Come nel caso di ogni novità storica con valore di “spartiacque” fra un’epoca e l’altra, anche per il genocidio ebraico è stato necessario formulare un linguaggio appropriato, coniare cioè un vocabolario tecnico che potesse provvedere e soddisfare il bisogno di tramandare l’evento in sé ed elaborare il significato che ad esso era legato. Non solo: l’atto stesso di identificare e descrivere verbalmente un avvenimento necessita, nella norma, di un lessico che non soltanto sia specifico ma anche declinabile, variegato e possibilmente flessibile a livello grammaticale per denominare il più correttamente possibile cosa, come e perché sia accaduto quanto descritto.

La scelta dei termini con i quali si è iniziato a denominare lo sterminio ebraico è da subito sembrata ostica per il fatto che nessuna definizione sembrasse semanticamente appropriata: come si potrebbe, infatti, avere a disposizione un ventaglio lessicale idoneo se il “sostantivo cardine” non è mai del tutto corretto, e nell’esprimere un aspetto della persecuzione razziale da parte nazista omette altri caratteri ugualmente significativi del medesimo momento storico? Raul Hilberg – il cui resoconto sulla questione ebraica è tutt’oggi considerato come il più autorevole e documentato fra i tanti a disposizione – non utilizza mai, sia nel titolo che nelle sue quasi 1400 pagine di testo, alcuna delle definizioni più in voga fra gli storici e i sociologi moderni per parlare del massacro operato dai nazisti verso il popolo ebraico62.

La portata di significato dei fatti riguardo la Seconda Guerra Mondiale sembra essere stata a lungo soggetta ad un emblematico stato di aporia lessicale congenita, che ancora oggi in qualche modo perdura, riscontrandosi nella casistica nominale a disposizione nelle forme del linguaggio verbale e scritto. Gli stessi nazisti, d’altronde, operarono in gran parte un processo di rimozione linguistica per designare i crimini e le procedure di sterminio nei campi di concentramento: nessuna prova esplicita delle atrocità commesse nei confronti dei prigionieri nei campi di concentramento è infatti emersa dalla lettura dei verbali recuperati dopo la sconfitta tedesca.

Nel 2001, la storica Anna-Vera Sullam Calimani ha pubblicato un’interessante ricerca63 nella quale si analizzano le diverse opzioni terminologiche a disposizione per

descrivere la Shoah. Il suo ragionamento prende avvio esattamente dalla constatazione delle aporie dovute alla difficoltà che “esprimere l’inesprimibile” ha comportato per tutta comunità mondiale nell’immediato Dopoguerra. Nel saggio dal titolo I nomi dello

sterminio leggiamo:

La terminologia usata per indicare lo sterminio è l’elemento che meglio di tutti rivela la visione che testimoni e studiosi hanno

62 Cfr. Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa [1985], traduzione di Frediano Sessi e

Giuliana Guastalla, Torino, Einaudi, 1995. (NB. L’edizione Einaudi è basata sulla revisione dell’edizione originale del 1961 da parte dell’autore, e pubblicata negli Stati Uniti nel 1985, dieci anni prima di quella tradotta per Einaudi in italiano, e pubblicata in due volumi per la collana dei Tascabili).

avuto e hanno di quell’evento; è insieme il risultato e la testimonianza di un approccio che non si è mai potuto e non si può ancora svincolare da implicazioni emotive.

Anche i nomi dati allo sterminio sono delle metafore che dimostrano in quali archetipi e in quali paradigmi di altre epoche gli eventi di quegli anni furono inseriti dai primi testimoni o commentatori e, successivamente, come queste metafore abbiano dato vita ad altre metafore che hanno lentamente modificato la nostra percezione dello sterminio stesso.64

Oggi, fra coloro che scrivono o leggono delle vicende riguardanti i campi di concentramento, non è più percepibile la difficoltà che comportò il bisogno di coniare un vero e proprio “linguaggio dello sterminio” da parte dei leader politici, dei testimoni, degli storici, dei sociologi e di molti altri studiosi65: descrivere il processo di

eliminazione fisica – quindi anche linguistica66 – di un altro gruppo sociale ha

comportato il ripensamento delle modalità tramite cui ci si rivolgeva al passato, all’interno della tradizione occidentale67. Levi è uno scrittore che ha riflettuto

moltissimo sulla natura del linguaggio e del suo legame inscindibile dalla condizione umana: in quanto discrimine fra ciò che è bestiale e non, la Babele del Lager ha

64 Ibidem, p. 11.

65 Contro un uso “tecnicizzato” del linguaggio per descrivere lo sterminio ebraico si è scagliato

Bettelheim, il quale – soprattutto in riferimento al termine olocausto – parla di «circonlocuzioni» attraverso cui l’umanità ha cercato di rimuovere psicologicamente gli eventi, mediante un meccanismo inconscio di negazione che prende avvio proprio dalla scelta dei nominativi per designare l’assassinio di sei milioni di ebrei: «L’uso di locuzioni tecniche o coniate appositamente in sostituzione di parole del nostro linguaggio comune costituisce uno dei più noti e più diffusi sistemi per distanziarsi, in quanto divide l’esperienza intellettiva da quella emotiva. Parlare di “olocausto” ci consente di padroneggiarlo intellettualmente laddove i fatti nudi e crudi, se fossero chiamati con il loro nome consueto, ci sopraffarebbero emotivamente». Bruno Bettelheim, «L’olocausto una generazione dopo», in Sopravvivere: e altri

saggi [1979], Milano, SE, 2005, cit., p. 108.

66 «è ovvia l’osservazione che, là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». P.

Levi, I sommersi e i salvati, in Opere complete, II, cit., p. 1205.

67 «Perché la parola Auschwitz non fosse più semplicemente la denominazione tedesca di una

città e di un campo nazista in Polonia ma un’icona del XX secolo, è stato necessario un mutamento del nostro modo di guardare al passato, di riconoscerne le rotture, di coglierne il senso». E. Traverso, ivi, p. 227.

rappresentato dal suo punto di vista un potente tratto di imbarbarimento e di impoverimento intellettuale a cui i prigionieri sono stati sottoposti68.

Dal momento che il concetto di identità dell’autore è stato l’oggetto di riflessione principale all’inizio di questo primo capitolo, l’indagine storica si lega a questo punto, inevitabilmente, con l’entità e la tipologia del messaggio che lo stesso autore ha voluto trasmettere al suo pubblico. Se attualmente Primo Levi è infatti considerato soprattutto uno scrittore, si tenga invece presente che negli anni ’50 era stato identificato anche in Italia quasi esclusivamente come un sopravvissuto al genocidio; anzi, anche in quanto tale, all’inizio il suo messaggio fu quasi completamente ignorato dalla critica e dal pubblico italiani. Levi è stato un testimone alquanto precoce nel trasmettere in forma scritta il resoconto della propria esperienza concentrazionaria la quale, a sua volta, costituiva appunto un evento storico per il quale ancora non esisteva un vocabolario ufficiale.

Nel momento in cui Se questo è un uomo prende forma, ciò che oggi in America si definisce con la parola Holocaust non era stato ancora concepito e declinato secondo una terminologia standard e di uso comune: dunque, quanto narrato nelle pagine di Se

questo è un uomo, non poteva essere indicato né con il nome di Holocaust né con quello

di Shoah. Il titolo stesso del testo in italiano costituisce, di per sé, una domanda indiretta, quasi a prova dell’assenza di risposte nel definire la tragedia appena conclusasi: Se questo è un uomo è grammaticalmente un periodo ipotetico incompleto, che suggerisce un tentativo altrettanto parziale da parte di Levi rispetto all’analisi della realtà concentrazionaria, dove non sembrano disponibili clausole linguisticamente valide per reggere l’assurdità dello sterminio nazista a danno degli ebrei.

Nel capitolo «La soluzione finale e il linguaggio», Sullam Calimani ragiona su come il termine tecnico Endlösung, elaborato dai nazisti per evitare principalmente di

68 Già nel capitolo «Iniziazione» troviamo la prima riflessione di Levi a proposito: «Capisco che

mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra al volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte». Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere complete, I, cit., p. 163.

scrivere «sterminio» nei documenti ufficiali del Reich, sia giunto ad essere usato come sinonimo di «genocidio ebraico». Si pone l’accento anche su come, di fatto, una vasta serie di tecnicismi (il cosiddetto «gergo del Lager») avesse avuto da un lato l’effetto di eufemismi per i soldati tedeschi e, dall’altro, il carattere di “incubo in codice” per i prigionieri: il tedesco costituiva infatti la lingua “comune” dei detenuti, non lo yiddish – e per i prigionieri provenienti da ogni parte d’Europa nessuna scelta lessicale operata dal regime nazista, benché gli ordini fossero trasmessi in un codice linguistico diverso dalla propria madrelingua, era in un certo senso “oscura” a livello di comprensione immediata del termine e di quello che poteva succedere:

Ogni vittima capiva il linguaggio in codice adottato dai nazisti e gli eufemismi che indicavano la morte. Queste espressioni erano così diffuse nei campi di sterminio da venire adottate anche dai detenuti, soprattutto quando dovevano parlare delle uccisioni e delle punizioni, ma non solo. Essi avevano sviluppato un loro gergo utilizzando però parole tedesche, le uniche in grado di esprimere una realtà che nei loro idiomi di origine non aveva nome: in tal modo il linguaggio degli oppressori contaminava quello degli oppressi.69

All’interno di questo orizzonte di senso è da intendere l’abbondante uso da parte di Levi di vocaboli tedeschi e prestiti da altre lingue nel suo primo resoconto letterario. In Se questo è un uomo, non compaiono mai i termini «Shoah» o «Olocausto» perché questi, di fatto, non erano ancora entrati nell’uso comune nella «letteratura della memoria» in senso moderno. Inoltre dal punto di vista Levi, in quanto testimone diretto, sembra essere possibile descrivere e rappresentare in maniera appropriata il sistema di prigionia concentrazionario solamente attraverso il miscuglio plurilingue parlato in Lager. Il termine «genocidio», per altro, ha una genesi controversa: calco dall’anglismo genocide, «genocidio» è un sostantivo coniato già prima dei processi di Norimberga, ma che non viene ancora utilizzato in contesti ufficiali dopo gli anni ’50. In

generale, l’atteggiamento scettico verso questo neologismo ne impedì a lungo l’impiego che invece oggi si osserva essere molto abbondante70.

Levi è invece uno fra i primi autori in cui emerge chiaramente come il linguaggio dei sopravvissuti sia vicino – nella memoria e nella scrittura – all’esperienza in sé della deportazione e del lavoro forzato nei campi71. Nella fattispecie, e non a caso, il termine

con cui Primo Levi si riferisce più frequentemente nei suoi testi a quella che oggi chiamiamo comunemente Shoah è Lager, un sostantivo che ha assunto e conserva valore metonimico per indicare lo sterminio degli ebrei quasi solamente in Italia72.

Anche il toponimo Auschwitz è presente in abbondanza in tutti i suoi scritti, nei quali precocemente rispetto ad altri testimoni è impiegato già alludendo alla totalità dell’esperienza della persecuzione e sterminio ebraico.

Anche Sullam Calimani insiste su come «la scoperta di Auschwitz e l’assunzione di questo nome in funzione simbolica sono parallele alla presa di coscienza della singolarità dell’eccidio degli ebrei»73. Non a caso tale presa di coscienza, o «riattivazione

della memoria»74, come l’ha definita Traverso, coincide nel caso di Levi con la sua

pubblicazione e comparsa nel panorama letterario internazionale. Non è di nuovo un caso, dunque, che il nome “Auschwitz” sia presente nel titolo (completamente stravolto)

70 Il termine genocide ha una storia interessante: non si vuole divagare in questa sede, ma dal

momento che ho riscontrato un atteggiamento generalmente accusatorio nei confronti del lemma, in quanto bollato di pressapochismo e inesattezza (genocidio vs cultoricidio) se applicato al caso specifico della persecuzione nazista verso il popolo ebraico, s’invita il lettore a ri-leggere la storia della parola e le origini della sua coniazione da parte del giurista polacco Raphael Lemkin in prospettiva storicistica. Cfr. Dominik J. Schaller, Jürgen Zimmerer (edited by), The Origins of the Genocide: Raphael Lemkin as a historian of mass violence, London & New York, NY, Routledge, 2009 e in particolare il saggio di Dan Stone, «Raphael Lemkin on the Holocaust», ivi, pp. 95-106. Circa l’utilizzo debito o improprio del termine, nonché in riferimento ai vari modelli di genocidio a livello teorico, cfr. Boghos Levon Zekiyan, «Quale rapporto tra la definizione giuridica e la realtà storica dei genocidi?», in Paolo Bernardini, Diego Lucci, Gadi Luzzatto Voghera (a cura di), La memoria del male. Percorsi tra gli stermini del

Novecento e il loro ricordo, Primo Levi Project Proceeding N. 1, Padova, Cleup, 2006, pp. 183-

206.

71 «Nel narrare le loro esperienze i primi testimoni usarono, anche nei titoli delle loro opere,

espressioni quali: deportazione, deportati, campo, campo della morte e campo di concentramento o, in alternativa, i toponimi». Anna-Vera Sullam Calimani, ivi, p. 36.

72 Cfr. ivi, pp. 39-40. 73 Ivi, p. 71.

della prima edizione americana di Se questo è un uomo (1961): già allora, Auschwitz fu impiegato da Levi con valore antonomastico per indicare la totalità dell’esperienza concentrazionaria, e tale è il valore che anche in America gli è stato dato, associandolo completamente alla figura dell’autore.

Nel medesimo titolo, Auschwitz si trova ad essere usato in qualità di complemento di stato in luogo, accostato ad un altro sostantivo sul quale si vuole porre brevemente attenzione: il termine survival, letteralmente “sopravvivenza”, è attestato per la prima volta in lingua inglese nel tardo Quattrocento, ed è a sua volta derivato della voce verbale to survive75. Latinismo che si diffonde durante la fine del XVI secolo, non è un

lemma di natura gergale e anzi, nel mondo anglosassone rimanda propriamente al linguaggio scientifico per via della sua attestazione più famosa: il celebre detto «survival of the fittest» (in italiano da tradursi con la “legge del più forte”) fu coniato e teorizzato dal biologo inglese Herbert Spencer (fine XXVIII secolo) nell’ambito dello studio de L’origine della specie di Charles Darwin. È un vocabolo che in inglese è strettamente connesso all’idea di selezione naturale76, la stessa idea che si trova alla

base delle teorie naziste del Reich di Hitler.

Contestualizzando il lemma nel panorama anglofono alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si noti che la terminologia utilizzata per designare coloro che hanno esperito la dinamica del survival è plurima e mutevole77: Novick riporta la

testimonianza dello studioso di lingua e letteratura ebraica Werner Weinberg il quale, in quanto ebreo tedesco sopravvissuto ed emigrato negli Stati Uniti, ha riflettuto sul linguaggio con cui egli stesso è stato in un primo momento accolto e bollato da parte

75 Origine etimologica da latino e francese medievale. «1425-75: late Middle English < Middle

French survivre < Latin supervīvere, equivalent to super- super- + vīvere to live; see sur, vivid». Cfr. https://www.dictionary.com/browse/survive (visitato il 23/10/2018).

76 Levi apprezza e riconosce il valore dell’opera di Darwin, al di là dell’utilizzo distorto che il

nazismo ne ha fatto durante il suo mandato governativo. Cfr. Primo Levi, La ricerca delle radici, in Opere complete, II, p. 31, in cui l’autore commenta e discute l’inserzione di Darwin nella sua antologia di letture. Levi elogia il coraggio e l’acume dei ragionamenti di Darwin, i quali negano all’essere umano «un posto di privilegio nella creazione» (ibidem), ripristinando dignità intellettuale alla specie stessa, contro le miopie del suo tempo.

77 A tal proposito, Raul Hilberg ha stilato un’ulteriore casistica dei sopravvissuti all’interno della

categoria delle vittime, suddividendo i survivors in tre principali gruppi. Cfr. Raul Hilberg,

Carnefici, vittime, spettatori: la persecuzione degli ebrei 1933-1945 [1992], traduzione di Davide

degli americani. Nel suo resoconto dal titolo Self-Portrait of a Holocaust Survivor, si legge:

Immediately after the war, we were “liberated prisoners”; in subsequent years we were included in the term “DPs” or “displaced persons”... .In the US we were sometimes generously called “new Americans”. Then for a long time … there was a good chance that we, as a group, might go nameless. But one day I noticed that I had been reclassified as a “survivor”.78

La casistica dei termini di riferimento riportati da Weinberg è emblematica: si giunge all’etichetta di survivor attraverso designazioni di condizione nulla (nameless) o temporanea (liberated prisoners, displaced persons) passando per un’altruistica parabola nazionalistica (new Americans) che contrasta abbastanza con la paura del fenomeno migratorio di massa a cui si è accennato prima. Dove è possibile allora collocare Primo Levi in questo spettro di definizioni? Ovviamente un parallelo vero e proprio con il protagonista della testimonianza riportata è fuori luogo: Levi non è mai espatriato negli Stati Uniti e anzi, molte delle sue note biografiche insistono sul fatto che ha praticamente passato tutta la vita a Torino, nella stessa casa dove è nato e poi morto, fatta eccezione di pochi episodi e, naturalmente, della deportazione a Monowitz.

È tuttavia importante ragionare sul fatto che l’appellativo survivor sia entrato nel linguaggio comune in America relativamente tardi. Non solo si è settorializzato, ovvero è andato ad indicare specificatamente il Jewish survivor scappato al Nazi murder

program79, ma si è trasformato in un titolo quasi “onorifico”: «in recent years

“Holocaust survivor” has become an honorific term, evoking not just sympathy but admiration, and even awe. Surivors are thought of and customarily described as exemplars of courage, fortitude, and wisdom derived from their suffering»80. Da una

dimessa condizione di vergogna, l’ebreo sopravvissuto si trasforma in exemplum delle virtù che lo hanno mantenuto in vita nell’inferno concentrazionario, ed il termine con il

78 Werner Weinberg, Self-Portrait of a Holocaust Survivor, Jefferson, NC, 1985, cit., p. 150-152 in

P. Novick, ivi, p. 67.

79 Ibidem. 80 Ivi, p. 68.

quale il soggetto è insignito di tale onore deriva dal lessico specifico della selezione naturale darwiniana81.

Si è già fatta menzione altrove, in questo capitolo, su quali fossero le condizioni storico-sociali che hanno portato alla tardiva e progressiva presa di coscienza dell’Olocausto in qualità di fenomeno culturale negli USA: eppure, quando ciò accade, i suoi protagonisti si trovano impreparati e non del tutto a proprio agio nel nuovo abito dell’“eroe perseguitato”. Weinberg ragiona sul senso di inadeguatezza che il termine

survivor comporta proprio perché si tratta di un’investitura inutile, che riconduce il

superstite nel dramma dal quale è almeno storicamente (se non psicologicamente) uscito. È una trappola mentale: «I do not feel I have joined a club […]. To be categorized for having survived adds to the damage I have suffered; it is like wearing a tiny new Yellow Star»82.

Sebbene Levi fosse restio a qualsiasi tipo di etichetta, sin dal principio della sua pubblicazione oltreoceano negli anni ’60 i tempi erano già maturi per circoscrivere lo spessore della sua opera e della sua persona entro almeno tre distinte (nonché tangenti) categorie: la classificazione di ebreo e di survivor entrano in orbita con il significato racchiuso (ma già di debordante) del toponimo Auschwitz, creando una specie di struttura a triangolo al centro della quale si trova inscritto l’autore, mentre il suo pubblico di lettori rimane impossibilitato a rompere tali legami precostituiti fra i vertici-etichette, al fine di cogliere il messaggio originale del testo.

81 Cfr. «La pietà ingiusta» in Daniele Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica,

Milano, Nottetempo, 2014, p. 18 e seguenti. Cfr. anche in concetto di «concorrenza delle vittime», ripreso da Giglioli attraverso Jean Michel Chaumont, in Daniele Giglioli, Senza trauma.

Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Milano, Quodlibet, 2011, p. 10 e seguenti. 82 P. Novick, ivi, p. 67. Anche Levi, soprattutto in Se questo è un uomo prima e ne I sommersi e i salvati più esplicitamente, ha riflettuto sul senso di inadeguatezza provata dal prigioniero

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