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Il caso può essere devastante, ma non è mai metodico né meticoloso. E benché sia vero che, da un certo punto di vista, tutto ciò che riguarda le azioni umane è follia, sarebbe prudente riservare questa parola per qualcosa di specifico che non è estraneo alla ragione, ma è il risultato di una ragione che ordina il mondo secondo un sistema di significati monolitici, e proprio per questo motivo impenetrabile dall’esterno.

J. J. Saer, L’indagine

Contaminazioni filosofiche

Nel Giugno del 2014, pochi giorni dopo il conseguimento della laurea magistrale, mi recai nuovamente in una delle tante biblioteche di Pisa. Avevo lavorato negli ultimi due anni, seppure in modo non continuativo, alla preparazione della tesi. Costruire una bibliografia di riferimento, poi la ricerca di campo, quindi la scrittura. Un classico lavoro di ricerca, più o meno acerbo, più o meno compiuto. Credo si possa dire che gli interrogativi che mi avevano mosso non fossero esclusivamente di carattere antropologico, sebbene l’elaborato finale si presentasse sotto la forma dell’etnografia. Avevo percepito per tutto il periodo di ricerca una forte tensione verso alcuni temi filosofici che si articolavano con quella tipica inconsistenza di tutti i “perché?”, troppo generali per presupporre la possibilità di risposte convincenti. In quel periodo, mi occupavo di dono. Dono del Sé corporeo.

Per quanto sia vero che tutta la riflessione si fosse mossa a partire da una continuità con precedenti ricerche svolte nell’ambito della donazione del sangue, l’inafferrabile componente di gratuità che i sistemi di dono trascinano con sé continuava ad attirare la mia attenzione. La donazione mi appariva quasi un impensabile, o quanto meno un indefinibile, della nostra società. Ne rintracciavo alcuni segni nella morale cristiana, attenta all’alterità in sé36 a prescindere dalle sue declinazioni storiche, ma ciò non era sufficiente a spiegare il perché alcune persone, non poche, fossero portate a donare incondizionatamente in favore di uno sconosciuto senza volto. E le teorie più utilitariste, quelle di chi sostiene che, in fondo, vi è comunque un investimento in un ritorno possibile all’interno di un futuro non desiderabile, quello della malattia, non mi convincevano più di tanto. Passai così molti mesi a muovermi intorno alla questione del campo delle possibilità attraverso le quali fosse

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possibile concepire un “darsi” assoluto. Assoluto proprio in senso etimologico, libero cioè da qualsiasi contingenza materiale o beneficio economico e sociale. Non era – cosa che sarebbe stata ancora formulata in modo pressoché antropologico – comprendere la pratica del dono attraverso la costruzione di un altro in sé, un altro che in quanto tale meriti di ricevere un dono senza obblighi. Questa posizione, in effetti, la formulai, nei miei appunti, come l’Altro per l’Altro. Si trattava, invece, di comprendere cosa fosse il Bene per il Bene. Non solo come i soggetti potessero relazionarsi tra di essi dando senso alle proprie pratiche nell’ottica di un sistema etico che le pensasse come moralmente positive. Ma, ancor più a fondo, come essi riuscissero, in nome di ciò, ad agire avendo come riferimento una forma superiore di bene che non fosse delimitata o contingente. Una forma di bene che tutto abbraccia e che tutto permea.

Riconoscendo questo mio interrogativo come di esclusivo interesse personale e, in più, avendo esso a che vedere più con la filosofia o con alcuni aspetti teologici, decisi di lasciarlo relegato alle note di campo e di non problematizzarlo all’interno dell’elaborato conclusivo.

D’altro canto, oltre il lavoro di ricerca, c’erano altre letture che accompagnavano quei mesi. Letture private, varie ed eventuali, soprattutto romanzi e racconti. Al di là di questa eterogeneità, tuttavia, tornavo spesso a due autori che all’epoca, e forse ancora oggi seppur per ragioni differenti, si imponevano come centro di riflessione: Donatienne -Alfonse-François de Sade e Franz Kafka. La scoperta di questi universi letterari era stata mediata da studi frammentari e diasporici. Avevano a che vedere con la filosofia come prassi e – apparentemente più assurdo – la mistica. Da una parte, con Sade, c’era una filosofia della natura che edificava l’essere e la potenza dell’uomo nel suo libertinaggio; dall’altra, l’angoscia di Kafka e del suo uomo abbandonato ad un mondo insensato che lo fagocita lasciandone una carcassa dolente. Transitando da Le 120 giornate di Sodoma37 ai racconti kafkiani38 iniziò a manifestarsi un nuovo percorso di ricerca. Se continuavo ad imbattermi in un bene libero ed infinito, il bene in quanto tale, che sebbene non fosse descrivibile – oltrepassando i limiti volgari del linguaggio – era esperibile dalle persone che me ne parlavano, era possibile pensare un male radicale, altrettanto concreto, altrettanto percepibile? Esistevano forme di Male per il Male? Si trattava, insomma, di esplorare altri sentieri della gratuità. Se il bene altruistico e gratuito poteva essere un oggetto di interrogazione antropologica, in una qualche misura doveva poterlo essere anche il male. Questa, però, rimaneva chiaramente ancora una domanda di ordine filosofico. E, per altri versi, non mi interessava che fosse altro da questo, visto che ciò a cui ero chiamato era scrivere sulle pratiche altruistiche di dono e non di violenza. D’altronde, gli impegni

37 Sade, F. D. A. de, Le 120 giornate di Sodoma, Feltrinelli, Milano, 2014. 38 Kafka, F., Tutti i racconti, Mondadori, Milano, 2017.

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universitari mi assorbivano interamente e questo genere di riflessioni divennero sempre più tangenziali fino ad essere relegate in un cantuccio della memoria.

Concluso il percorso universitario, mi dedicai alla preparazione dei concorsi di dottorato. L’elaborazione di un progetto di ricerca mi lasciò ancora legato – secondo una certa fisiologia accademica e una continuità dei temi – all’antropologia del dono. Se ciò, per ragioni personali non mi rendeva entusiasta, tuttavia mi garantiva la possibilità di dedicare i mesi che seguirono la laurea allo studio di qualsiasi testo in cui mi imbattessi, senza badare al fatto che fosse un’opera di storia, filosofia, antropologia, un romanzo, o altro ancora. Divagavo liberamente con la sola preoccupazione di leggere il più possibile. Tentavo di colmare alcuni dei tanti vuoti concettuali e metodologici rinvenuti in una preparazione che, per quanto sempre rivendicata, era stata perlopiù antisistematica.

Fu durante quel periodo – suppongo – che presero corpo alcune riflessioni che in un certo modo mi portarono a maturare nuove scelte di ricerca.

La ragione esiste solo quando ci si capisce. Possibili vie d’accesso alla follia.

Una notte di fine agosto 2014. Erano mesi silenziosi attraversati in solitudine.

Il giorno che ora, mentre scrivo, galleggia nella mia mente, con contorni vagamente opachi, era stato particolarmente produttivo per lo studio e la lettura. Serrato in mansarda e munito di un posacenere e del tabacco necessario, ero emerso solo per una rapida pausa pranzo. Giunta la notte mi allontanai dalla camera per scendere in veranda e fumare l’ennesima sigaretta. Quando arrivai al piano inferiore trovai inaspettatamente mia madre ancora sveglia. Avvertivo una profonda lucidità nel mio sguardo, quasi mi permettesse di attraversare le cose. Probabilmente avevo semplicemente gli occhi stanchi e strabuzzati. Ci sedemmo al tavolino quadrato, bianco e rovinato, tentando di catturare un po’ di brezza notturna e iniziando a fumare senza sosta. Ad un certo punto – lo vedo bene – la guardai con questo sguardo che credevo penetrante ma che a qualcun altro forse sarebbe parso vacuo e angosciato e le dissi, Il problema è che la realtà è indecidibile.

Lei sicuramente mi osservò perplessa, pensando a qualche scherzo o qualche uscita non-sense di quelle che ho spesso quando sono particolarmente spossato.

Insistetti, Il problema è proprio che la realtà è indecidibile.

Mi avventurai in un soliloquio sui confini del corpo che non sono permeabili, sul rapporto contrattuale tra significato e significante e l’oblio di questo rapporto che, insieme alle metafore di

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cui parla Nietzsche, ci concede l’illusione di poter dire che qualcosa possa esistere39. Sul dubbio radicale che dobbiamo esercitare non solo sulle entità esterne ma anche su noi stessi e sui nostri pensieri. Continuai, ci giurerei, sulla performatività degli enunciati e sulla loro incapacità di esprimere significato e senso. L’arbitrarietà non solo del senso, mamma, ma anche del segno! Una sorta di scetticismo nichilista che assume le proporzioni della totalità.

Riflessioni insidiose quando non si abbia forza sufficiente per isolarle e saperle mettere in un angolo male illuminato, sorridendo di sé stessi. Niente di nuovo, ovviamente. Era solo un coacervo vischioso che si era prodotto proprio a partire dall’isolamento e dalla concatenazione di letture. Mia madre mi guardò preoccupata, forse anche inorridita e angosciata e mi suggerì di andare a dormire, con quella prospettiva totalmente materna che riduce ogni fibrillazione ad un, Sei stanco,

hai bisogno di riposarti. La sua angoscia, ovviamente, non derivava da un qualche rapporto

rappresentativo con ciò che le avevo detto – in fondo, le parole che mi aveva sentito pronunciare non avevano per lei alcun significato, non producevano nessuna rappresentazione, nessuna immagine; la sua angoscia derivava dal fatto che tutto ciò che le avevo detto risultava ai suoi occhi, o alle sue orecchie, un assurdo vaniloquio. Ritornando a quella sera l’ho spesso immaginata a pensare, Mio figlio si sta “scompensando”40. Eppure, a partire dai miei presupposti che erano per me tanto “reali” quanto quelli totalmente opposti di qualcuno che pensi cose del tutto differenti dalle mie, i miei ragionamenti avevano una loro consistenza e non erano certamente un vaniloquio. O meglio, essi supponevano, e lo suppongono ancora, che ogni discorso non ha nessun legame se non ipotetico, congetturale, arbitrario e convenzionale, con il senso; e, in più, questo senso è esso stesso ipotetico, congetturale, arbitrario, in una forma di circolarità vertiginosa; era a partire da queste prospettive che riproponevo la logora asserzione filosofica che, allora, se ogni discorso sul reale non ha senso, il reale come oggettificazione della realtà, il reale e la realtà sono indecidibili. Ma come fare ad accettare questo discorso senza riuscire ad intravederne i presupposti? Ripensai a lungo, quella notte e le seguenti, a questa bizzarra chiacchierata tra madre e figlio, alla penetrante allerta che avevo colto nel volto di mia madre. Mi passò per la mente, anche questa volta in modo totalmente occasionale, che magari la follia potesse essere la stessa cosa. Stavo leggendo in quei giorni Mal fare, dir vero41 e L’istituzione negata42. Mi ritrovai a considerare, nella stessa scia di

39 Nietzsche, F., Su verità e menzogna in senso extra-morale, in La filosofia nell’epoca tragica dei greci e

Scritti 1870-1873, Adelphi, Milano 2015; Id., Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 2014.

40 La parola scompensare appartiene ad un lessico strettamente psichiatrico, spesso colloquialmente usato in

discorsi che riguardano lo stato psichico di terzi, e tende a sottolineare una modificazione negli equilibri psichici del soggetto il quale tende ad assumere uno stato disforico, ipomaniacale o depressivo. È dunque segno di un cambiamento negativo che conduce il soggetto all’interno di un campo di emersione della patologia.

41 Foucault, M., Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice – cours de Louvain, 1981, PUL, Louvain,

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certa psichiatria o critica sociale, che la follia fosse fondata su un grande interdetto. La follia come assenza, come “sragionamento”43, essa è l’incompreso e l’incomprensibile. La follia come interdetto e il mio discorso sull’indecidibilità del reale avevano alcuni punti in comune. Un’esclusione. Un’impossibilità ad essere abbracciati. Un dolore profondo e lacerante per chi parla inascoltato.

Ormai albeggiava ma riuscii, nonostante la stanchezza, a prendere alcune note sparse. Frasi spezzettate e disorganiche con le quali cercavo di restituire un bozzetto, uno schizzo del quadro che iniziava a mostrarsi. Una di queste frasi – di cui oggi, a tre anni di distanza non riesco più a cogliere le implicazioni che quella notte dovevano sembrarmi particolarmente logiche – era: “Se il problema tuttavia non fosse nella follia ma nella nostra cecità? Allora, il Male assoluto”.

Cercando la violenza ci si imbatte negli OPG

Passarono così i mesi. Ottenuto il dottorato, si concretizzò, lentamente, la possibilità di avanzare un’ipotesi per un nuovo progetto di ricerca. Abbandonare il dono, abbandonare la gratuità del bene. Potevo finalmente iniziare a pensare a qualcosa che avesse a che fare, in un modo o nell’altro, con l’altra componente manichea delle nostre rappresentazioni assolute: il male.

In fondo, mi ero ritrovato a lavorare sul dono più per caso che per scelta. La mia prima ipotesi di ricerca, per la tesi magistrale, era tutt’altra e riguardava la costruzione dell’esperienza di malattia in un reparto per malati terminali. Fabio Dei, mio relatore, tuttavia, con più esperienza e più lungimiranza di me, mi domandò come mai avessi ipotizzato un campo così estremo. In un lungo colloquio attorno a quale lavoro svolgere, emerse in modo chiaro – lo dissi onestamente – che la mia idea era legata a dolorose esperienze personali. Mi suggerì di occuparmi di altro, nel timore che la difficoltà esistenziale di svolgere una ricerca già di per sé penosa, con in più un forte coinvolgimento personale, ancora prima che far fallire la ricerca avrebbe disarticolato qualsiasi mio ordine interiore.

Iniziai svogliatamente, quasi senza un reale interesse. Così, per quanto cercai di svolgere il mio compito con il massimo di serietà necessaria, mi disamorai presto del mio lavoro. Da dottorando, tuttavia, decisi immediatamente di scandagliare aspetti per me più affascinanti del modo in cui gli esseri umani si danno in un contesto sociale. Da qui, iniziarono a prendere corpo alcuni possibili oggetti di interrogazione; in particolare, la violenza, la crudeltà, il male.

42 Basaglia, F., L’istituzione negata, Einaudi, Torino, 1968.

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In cerca di un tema di interesse antropologico, mi dedicai alla lettura di uno scrittore di cui tanto avevo sentito parlare e i cui racconti avevo trovato particolarmente intriganti. Iniziai 2666 di Roberto Bolaño44 e, pagina dopo pagina, mi persi in quei labirinti mentali costruiti con sapienza dallo scrittore cileno. Arrivato a La parte dei delitti, quarto dei cinque romanzi che compongono il libro, rimasi sospeso e confuso per il modo morboso, meccanico, quasi ascetico con cui, per oltre trecento pagine, Bolaño indulgeva in una descrizione da anatomopatologo di una infinta serie di delitti avvenuti in una città del Messico. Città non esistente ma che aveva come referente fatti molto simili avvenuti qualche anno prima della stesura di 2666 a Ciudad Juaréz. Ne fui sconvolto e iniziai a cercare informazioni a riguardo. Come spesso capita in Internet, passeggiando nei meandri dell’ipertesto, mi imbattei in un sito messicano, tale mundonarcos.org, sito volto alla diffusione di notizie concernenti i fatti più scandalosi o di attualità legati all’attività dei Cartelli del Narcotraffico messicano. In una delle sezioni di questo sito, vi era – cosa che ancora oggi mi lascia interdetto – una sezione contenente oltre cinquanta video, accompagnati da brevi didascalie esplicative, di esecuzioni capitali compiute dai vari sicarios dei cartelli messicani, all’interno di un contesto di guerra tra organizzazioni criminali che, a dire dell’anonimo autore del sito, lacera il Messico contemporaneo. Restai ad osservare questa sezione con una certa inquietudine. Avevo alla mia destra Bolaño e il suo infinito elenco di donne uccise e torturate e davanti a me una possibilità di ricerca. Una guerra locale tra narcotrafficanti sembrava subire un processo di mediatizzazione e, in più, l’osceno, l’inguardabile, il proibito diveniva un contenuto estetico che poteva circolare liberamente in rete.

Mi decisi ad aprire il primo video. Poi il secondo. Poi il terzo. Al quarto video sopravvenne un bizzarro effetto di straniamento; non stavo facendo altro che guardare delle scene viste più volte in un qualsiasi film dell’orrore. Sangue, smembramenti, colpi di coltello. Già visto, già vissuto. Al quinto video, invece, mi obbligai a comprendere che, in un tempo altro rispetto a quello in cui fruivo il filmato, le cose erano andate molto diversamente rispetto a un film dell’orrore. Nessuno, alla fine, aveva tolto il trucco di scena. Un attimo prima vi erano delle persone vive, uno o più prigionieri da una parte, al centro dello schermo e, al di qua dello schermo, uno o più carcerieri. Poi, improvvisamente, i carcerieri si trasformavano in altro, in qualcosa di differente, e così avveniva l’irreparabile: delle persone morivano, e molte di loro in modi atroci. Qualcosa di molto vicino a ciò che si vede nei film dell’orrore ma, allo stesso tempo, proprio per questioni di tempo e di irreversibilità delle azioni, qualcosa di profondamente differente rispetto a questo genere cinematografico.

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Una fitta al cranio. Sentivo pulsare le tempie e il dolore aumentava. Abbandonai il video e mi dedicai ad altro.

Andò avanti così per molti giorni, quasi tre settimane. Ogni giorno riuscivo a vedere sei, sette video, non di più. Cominciai a notare che c’erano dei codici specifici, che non ci si trovava di fronte al regno del caos, e che anche il depezzare i corpi e ricomporli in monumenti angoscianti, non aveva nulla di casuale. C’era molto su cui lavorare. La pornografizzazione della violenza, la mediazione estetica dello schermo, la rappresentazioni dei limiti entro cui si può pensare l’altro come essere umano e produrre un set di pratiche che ad esso possono essere applicate. C’era il sangue, le risate, una violenza estrema che trovavo, seppur intollerabile, carica di un senso a me estraneo.

Mi resi però conto, altrettanto velocemente, che non avrei mai potuto lavorare su argomenti simili. Mi affacciavo alle porte di ogni sera sempre più spossato, instabile, nauseato. La visione di quei corpi, dei machete, delle motoseghe, dell’insulto, dello sguardo – a volte fiero, a volte tremebondo – di chi attendeva la propria morte mi scuoteva oltremodo e compresi, con buona pace dei miei interrogativi, che non tutto, solo perché mi si manifesta nell’urgenza della domanda, abbia il diritto di ricevere una risposta. Abbandonai così l’ipotesi di lavorare sui codici estetici e simbolici attraverso cui veniva rappresentata e pornograficamente acconciata la relazione tra il potere e la morte nel Messico dei nostri giorni.

Cercavo ancora qualcosa che avesse a che vedere con la violenza. Emerse una nuova ipotesi di lavoro. Era legata a qualcosa di cui Fabio Dei si era già interessato in modo tangenziale e che aveva posto come problema nell’introduzione ad un testo da lui curato e di recente pubblicazione.45 Rimanendo sempre in contesti etnografici complessi, ci chiedemmo lungamente come potesse essere pensata e realizzata un’etnografia che avesse come oggetto le pratiche attraverso le quali le forze dell’ordine incorporassero un certo culto della violenza. La presenza di questa incorporazione emergeva da una serie di saggi presenti tanto nel suo libro46 quanto in un altro testo cui egli faceva riferimento nella sua introduzione.47 Più l’argomento mi appariva appassionante più mi ritrovavo a riflettere sui rischi di un simile lavoro. Dove venivano agite queste pratiche minute attraverso le quali si realizzava questa specifica incorporazione? Si poteva intravedere un percorso biografico che rendeva alcuni soggetti suscettibili di essere coinvolti in questo gioco istituzionale? Quali erano

45 Dei, F., di Pasquale, C., Op. cit., 2014.

46 In particolare, per un’etnografia delle forze dell’ordine, cfr. Sammartano, O., Tortura, corpo e

rappresentazioni a Bolzaneto, in Dei, F., di Pasquale, C., (a cura di), Op. cit., 2014; per lavori di riferimento

rilevanti, in contesto francese, dedicati alle forze dell’ordine da Dider Fassin, cfr. Fassin, D., La force de

l’ordre. Une anthropologie de la police de quartiers, Point, Paris, 2015 ; Id., Maintaining order: the moral justification for police practices, in Fassin D., et al., At the Heart of the State. The moral world of institutions, Pluto Press, London, 2015.

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