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LE PRONUNCE DELLE SEZIONI RIUNITE DELLA CORTE DEI CONTI IN SEDE GIURISDIZIONALE

Nel documento INAUGURAZIONE DELL ANNO GIUDIZIARIO 2021 (pagine 27-32)

Le Sezioni riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale, secondo il codice di giustizia contabile, costituiscono l’organo che assicura l’uniforme interpretazione e la corretta applicazione delle norme di contabilità pubblica e di quelle afferenti alle altre materie sottoposte alla giurisdizione contabile. Esse decidono su questioni di massima, ovvero su questioni di particolare rilievo in diritto, che abbiano dato luogo ad indirizzi interpretativi o applicativi difformi nelle materie di competenza.

Il codice di giustizia contabile, accanto a tali tradizionali funzioni, ha assegnato alle Sezioni riunite anche la risoluzione dei conflitti di competenza interni (art.118 c.g.c.) e i gravami avverso le ordinanze di sospensione adottate dai giudici di merito (art. 119 c.g.c.).

Le Sezioni riunite esercitano, inoltre, funzioni di giudice in unico grado, in speciale composizione, per materie che, tuttavia, esulano dalle competenze assegnate alla giurisdizione contabile nella sua compagine territoriale (art. 11, co.

6: impugnazione avverso gli atti adottati dalle Sezioni del controllo).

Si segnalano, qui di seguito, soltanto le pronunce, emesse nel 2020, di particolare rilievo per le attribuzioni delle Sezioni giurisdizionali regionali.

In primis, le Sezioni riunite hanno discusso quattro giudizi, instaurati nella forma del regolamento di competenza, avverso provvedimenti che avevano dichiarato la sospensione del giudizio.

I predetti giudizi sono stati definiti con quattro ordinanze adottate ai sensi dell’art. 121 c.g.c.

L’ordinanza n. 2/2020, ha escluso la necessità sospensione del giudizio contabile per la pendenza di giudizio penale vertente sullo stesso fatto materiale, stante l’autonoma valutazione delle risultanze istruttorie da parte del giudice contabile

L’ordinanza n. 5/2020, ha affrontato il tema della sospensione del giudizio in attesa dell’esito del giudizio sulla querela di falso. In proposito, le Sezioni

riunite si sono soffermate sull’individuazione dei limiti operativi e degli effetti processuali della sospensione del processo contabile per querela di falso ex art.

105, c.g.c., in caso di giudizio avente ad oggetto domande soggettivamente ed oggettivamente cumulate, e sull’operatività, anche nel processo contabile, dell’istituto della separazione delle cause.

Al riguardo, hanno affermato che, l’art. 103, c. 2, c.p.c., è da considerarsi norma di attuazione del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art.

111, c. 2, Cost. e, come tale, espressione di un principio generale che informa tutti i tipi di processo (compreso quello contabile ex art. 4, c. 2, c.g.c.), ed è idoneo, pertanto, ad integrare il codice di giustizia contabile ex art. 7 c.g.c. in quanto consente, attraverso la separazione delle cause prima riunite per cumulo oggettivo e/o soggettivo, una semplificazione ed accelerazione delle situazioni processuali che conducono ad una tempestiva risposta finale sulla domanda di giustizia.

Infine, hanno precisato che, in base al combinato disposto dei cc. 2 e 4 dell’art. 105 c.g.c., il giudice ha l’onere di verificare l’esistenza ed i limiti del rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra la causa principale e il documento sospettato di falso, distinguendo le domande pregiudicate da quelle che sono indipendenti dalla risoluzione dall’incidente di falso, che divengono in tal modo l’oggetto principale del giudizio sulle quali il giudice può decidere. Le predette disposizioni, infatti, delineando la possibilità, da un lato, di una decisione sulla controversia principale che non dipenda dalla risoluzione dell’incidente di falso e, dall’altro lato, una sospensione della decisione per il segmento di giudizio che abbia ad oggetto domande che non possono essere decise indipendentemente dal documento del quale è stata dedotta la falsità, presuppongono, come condizione della loro operatività, proprio l’ipotesi di domande cumulate, ma separabili.

L’ordinanza n. 6/2020, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso un’ordinanza che aveva confermato la sospensione del giudizio precedente disposta e non impugnata, ritenendo non verificatasi la condizione alla quale era stata subordinata la continuazione del processo. Nella fattispecie, è stato ritenuto, contrariamente all’affermazione della procura ricorrente, che la sentenza di primo grado non fosse passata in giudicato, essendo pendente il relativo giudizio di

impugnazione.

Infine, l’ordinanza n. 7/2020 ha precisato che tra le ordinanze per le quali l’art. 11, c. 4, c.g.c. riconosce l’impugnabilità con il regolamento di competenza dinanzi alle Sezioni riunite, non possono essere ricomprese quelle che, pur

“decidendo soltanto questioni di competenza”, definiscono il giudizio, dichiarando la litispendenza, essendo previsto per esse il generale rimedio dell’impugnabilità mediante appello. Ciò in quanto, a differenza del codice di procedura civile (artt. 42 e 279) e del codice del processo amministrativo (artt. 15 e ss.) – che garantiscono alla parte soccombente l’impugnazione immediata dell’ordinanza che risolve la questione di competenza con il prescritto regolamento - nel processo contabile, è stato escluso tale rimedio per le ordinanze definitive contenenti pronunce di incompetenza, stabilendo espressamente per esse l’immediata appellabilità (art. 102, c. 5, c.g.c.).

Inoltre, nel del 2020, le Sezioni riunite in composizione ordinaria hanno discusso due questioni di massima.

La prima questione ha riguardato l’esatta quantificazione del danno erariale conseguente alla illecita erogazione di emolumenti lato sensu intesi in favore di pubblici dipendenti (o, comunque, di soggetti in rapporto di servizio con la pubblica amministrazione) ed in particolare se la quantificazione deve essere effettuata al netto o al lordo delle ritenute fiscali operate a titolo di acconto sugli importi liquidati.

Le Sezioni riunite, con sentenza n. 24 del 12 ottobre 2020, hanno ritenuto che la quantificazione debba essere effettuata al lordo delle ritenute Irpef. Atteso che il danno erariale rappresenta la proiezione contabile della lesione del patrimonio dell’ente, pertanto, nel caso in cui tale lesione consista in un esborso non dovuto, l’intera spesa sostenuta in modo indebito integra danno per l’ente.

Si è ritenuto che l’asserito vantaggio derivante allo Stato dalla riscossione dell’acconto IRPEF non è legato alla commissione del danno, ma alla circostanza che l’amministrazione ha erogato in favore del proprio dipendente un compenso che per il percettore costituisce reddito imponibile, in ciò integrandosi una

obbligazione tributaria autonoma che nasce indipendentemente dal carattere illecito della vicenda sottostante all’erogazione della spesa; in altre parole, nella fattispecie difetta l’identità (soggettiva e oggettiva) del fatto generatore che la giurisprudenza stessa individua quale presupposto indefettibile per l’applicazione della “compensatio lucri cum damno”.

La seconda questione di massima si è occupata della questione concernente l’applicabilità del beneficio previsto dall’art. 54, c. 1, d.p.r. n. 1092 del 1973 al personale militare collocato a riposo con un’anzianità di servizio superiore ai venti anni, e che al 31.12.1995 vanti un’anzianità ricompresa tra i 15 e i 18 anni: più in particolare, se la “quota retributiva” della pensione da liquidarsi con il sistema

“misto”, ai sensi dell’art. 1, c. 12, della l. n. 335/1995, debba, per il predetto personale militare, essere calcolata invariabilmente in misura pari al 44% della base pensionabile oppure se tale quota debba essere determinata tenendo conto dell’effettivo numero di anni d’anzianità maturati al 31.12.1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile.

Sul punto, con la sentenza n. 1/2021/QM, le Sezioni Riunite, hanno affermato che l’applicazione tout court dell’art. 54 (nel combinato disposto dei primi due commi) e l’applicazione dell’aliquota fissa del 44% non possono essere generalizzati per tutto il personale militare, ma circoscritte a coloro i quali sono in possesso dei requisiti previsti dalla richiamata normativa, requisiti letteralmente individuabili in:

1) effettiva e definitiva cessazione dal servizio (essendo questo, ovviamente, il presupposto indispensabile per l’accesso al trattamento pensionistico);

2) concreta maturazione del diritto all’attribuzione della pensione normale, essendo in possesso di quei requisiti d’anzianità minimi, stabiliti espressamente dall’art. 52;

3) possesso, all’epoca di definitiva cessazione dal servizio, esclusivamente di un’anzianità di almeno quindici e non più di venti anni.

Ciò premesso, hanno affermato che la “quota retributiva “ della pensione da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’art. 1, c. 12, della l. n. 335/1995,

in favore del personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità utile ai fini previdenziali e che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, va calcolato tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile determinato nel 2,44% e, conseguentemente, l’aliquota del 44% non è applicabile per la quota retributiva della pensione in favore di quei militari che, alla data del 31 dicembre 1995, vantino un’anzianità utile inferiore a 15 anni.

Nel documento INAUGURAZIONE DELL ANNO GIUDIZIARIO 2021 (pagine 27-32)

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