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Dalla pronuncia costituzionale n 253 del 2019, spunti per un intervento riformatore

Nel documento L'Università in carcere (pagine 119-123)

Maria Antonia Vertaldi

Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma

L’intervento della Corte costituzionale sull’art. 4-bis ord. penit., effettuato con la sentenza n. 253 del 2019, amplia grandemente, per qualità, incisività e delicatezza, il controllo ed il ruolo della magistratura di sorveglianza e, se da un lato ne ribadisce la grande importanza, dall’altro mette a nudo quelle che saranno le molteplici difficoltà di assolvere al nuovo mandato.

Questo segmento della giurisdizione, già estremamente trascurato e abbandonato a sé stesso, rischia di non essere in condizione di fronteggiare l’aspettativa e l’aggravio di impegno aperti dalla pronuncia in questione.

La Corte costituzionale immagina e disegna un controllo giurisdizionale estremamente sofisticato e approfondito, proprio di un grande Paese avanzato e dotato di mezzi, laddove lo scollamento con la realtà degli uffici giudiziari di sorveglianza risulta lacerante.

Il più importante profilo su cui è, dunque, indispensabile intervenire, anche in sede normativa, è quello delle dotazioni di personale e di mezzi. È il rapporto magistrati/personale amministrativo che deve essere radicalmente rafforzato, anche fissandolo in sede normativa, aumentando il personale amministrativo in misura molto consistente per quanto attiene allo specifico segmento della magistratura di sorveglianza. Questo settore non può reggere un rapporto numerico fra magistrati e personale amministrativo inferiore ad almeno ¼. Inoltre, questo settore non può sopportare scoperture di organico, particolarmente del personale amministrativo, senza entrare in crisi.

A ciò si aggiunga che, affinché la giurisdizione di sorveglianza possa bene funzionare, è necessario anche un numero adeguato di educatori e di psicologi per bene condurre l’osservazione intramuraria e la predisposizione di un percorso di trattamento.

La situazione di fatto oggi, negli Uffici giudiziari e negli Istituti di pena, è assai lontana dall’appagare questi bisogni e ad ogni insufficienza di questo fronte corrisponde un controllo giurisdizionale inadeguato. Questo deve essere chiaro a tutti.

Venendo al tema che il vostro autorevole Convegno discute: la Sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale indica una strada. Non credo si possa mettere in discussione questa strada. Le sentenze della Corte costituzionale vanno rispettate e non solo formalmente.

Del resto, il percorso analiticamente descritto nella sentenza ha già una sua autosufficienza e la stessa Corte costituzionale ha già fortemente limitato, a mio giudizio, l’incisività dell’intervento. L’innovazione normativa determinata dalla sentenza, eliminando qualsiasi pronuncia di inammissibilità, determinerà un notevole incremento del lavoro, essendo divenuta sempre necessaria una pronunzia del magistrato sul merito dell’istanza, ma non dovrebbe determinare un significativo incremento degli accoglimenti delle domande di permesso da parte dei soggetti rientranti nel catalogo dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.

La Corte ha, infatti, ribadito espressamente che permane la preclusione legata alla mancata collaborazione, la quale preclusione perde solo la sua natura assoluta, potendosi ammettere una prova contraria. Ma soprattutto la Corte ha precisato che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile, non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi. Su queste basi, un intervento normativo può essere ragionevolmente ipotizzato, nel senso di superare una volta per tutte l’unificazione delle fattispecie eterogenee contenute nel catalogo dei reati indicati nel prim o comma dell’art. 4-bis, foriero di molteplici problemi e di potenziali inadeguatezze.

Sarebbe, cioè, necessario che il segmento criminologico proprio della mafia e del terrorismo, che caratterizzava il primo intervento legislativo che introdusse la norma in questione, restasse titolare di una disciplina penitenziaria propria, segnata dalle esigenze di verificare l’effettività della

rottura del legame criminale attraverso la collaborazione. Allo stesso modo, il regime penitenziario relativo agli altri – pur eccezionalmente gravi – reati ricompresi nel catalogo dovrebbe essere sottoposto ad una disciplina ipotizzata specificamente per tali reati, fondando, così, le valutazioni intorno alla pericolosità ed all’accesso ai benefici su presupposti peculiari propri dello specifico criminologico cui essi appartengono.

Non sembra, invece, indispensabile un intervento specifico in punto di liberazione condizionale. La disciplina vigente è risultata idonea nel regime precedente alla pronuncia n. 253 e la sentenza della Corte costituzionale detta un tessuto normativo che può reggere anche in punto di liberazione condizionale, posto che essa non può che intervenire all’esito di un percorso personale sperimentato ed evidente.

Potrebbe apparire, piuttosto, utile affrontare espressamente, riunificandola, la disciplina dei permessi premio a quella delle misure alternative, ampliando la portata dell’intervento della Corte costituzionale, sul presupposto che un tale cammino è oramai segnato ed appare, pertanto, opportuno che sia lo stesso Legislatore a scriverlo.

Per quanto attiene, poi, allo specifico tema dei permessi premio, del relativo procedimento di concessione o diniego e della relativa competenza, qualsiasi ipotesi di intervento normativo deve confrontarsi col fatto che una tale valutazione ha assolutamente bisogno di una delibazione di prossimità per poter essere operata in modo individualizzato, esigenza che la Corte ha espressamente messo al centro della sua pronuncia. Concedere o negare un permesso prescindendo da un legame territoriale, e quindi di prossimità col detenuto, equivale a incrinare il senso stesso della giurisdizione di sorveglianza.

Sulla base di tale premessa, si possono sviluppare alcune considerazioni: a) Deve, innanzitutto, escludersi radicalmente qualsiasi ipotesi di modifica

normativa che accentrasse – in prima battuta ma, anche in sede di reclamo – a Roma la competenza a concedere o negare il permesso premio ai detenuti condannati per questi reati. Essa sarebbe la negazione del ruolo di controllo della magistratura di sorveglianza.

Ogni parallelismo con la giurisdizione esclusiva del Tribunale di sorveglianza di Roma in materia di reclami avverso i decreti ministeriali

di applicazione e/o proroga del regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. è fuorviante ed inadeguato; infatti, assolutamente diversa è la materia, atteso che trattasi, riguardo al 41-bis, di un’attività di giurisdizione che non riguarda il trattamento dei soggetti detenuti, tanto è vero che, ogni questione attinente ai diritti di questi ultimi, ovvero ad ipotesi di loro violazione, è devoluta, come per legge, alla giurisdizione del magistrato di sorveglianza di prossimità territorialmente competente.

b) Può essere, invece, plausibile assegnare la competenza a concedere o negare i permessi premio all’Organo territoriale collegiale, come del resto è previsto per le misure alternative. Limitatamente ai permessi per i detenuti condannati per reati di mafia e terrorismo la collegialità della valutazione ha una sua ragionevolezza, limitando la già marcata esposizione del magistrato di sorveglianza in questa materia.

La caduta della presunzione assoluta di pericolosità sociale e la sancita scissione del binomio collaborazione/rieducazione, consentono, oggi, ad ogni detenuto (esclusi coloro che sono sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit., per i quali la presunzione di pericolosità rimane assoluta in quanto correlata a specifici profili personologici, criminologici e giudiziari) la possibilità di provare il proprio cambiamento, intervenuto quale effetto della funzione rieducativa della pena in corso di espiazione, a tutto vantaggio, ricorrendone i presupposti, della possibilità di fruire di permesso-premio, che, per essere vero e proprio elemento del trattamento penitenziario e rieducativo, dovrebbe gradualmente e ragionevolmente condurre verso quella ipotesi di libertà; già essa sola, una volta caduto il sistema delle preclusioni, potrebbe, secondo le indicazioni della CEDU, riportare anche la posizione di soggetti condannati all’ergastolo per i gravi reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. in una situazione di detenzione più aderente al dettato dell’art. 3 Convenzione EDU.

Essenza, legittimità e utilità della pena fino alla morte

Nel documento L'Università in carcere (pagine 119-123)