Metodi di caratterizzazione
A.5 Prove meccaniche in compressione
Per la valutazione delle caratteristiche meccaniche dei campioni realizzati, si è utilizzato una macchina modello Instron 1121 UTM (Instron, Danvers, MA) per prove di compressione/trazione.
Si tratta di una macchina dotata di una cella di carico da 10000 N, e nella configurazione per la prova di compressione la macchina si equipaggia con due piatti di acciaio, uno semovibile e l’altro fisso dove si dispone il campione, come si osserva nel dettaglio di Figura 6.4.
Figura 6.4. Ingrandimento dei piatti circolari fra i quali avviene la compressione nella
macchina Instron 1121 UTM.
Impostata la velocità di avanzamento della testa, la macchina registra uno sforzo proporzionale allo spostamento imposto. Una cella di carico, posta sulla testa, produce un segnale elettrico di intensità direttamente proporzionale alla forza esercitata sul campione; il segnale viene elaborato e visualizzato sul monitor di un computer.
I materiali ceramici sono generalmente fragili; pertanto non è possibile ottenere parametri attendibili riguardo la loro resistenza meccanica a trazione come nel caso dei metalli, tantomeno saranno attendibili prove riguardanti pochi campioni a causa della notevole dispersione di valori ottenibile. La prova in compressione invece più corrisponde al reale sforzo a cui vengono sottoposti costrutti protesici del tipo studiato in questa Tesi, i quali una volta innestati nell’osso umano devono sorreggere il peso del corpo.
La deformazione relativa (ε) e lo sforzo di compressione (σcompr.) a cui vengono sottoposti i provini, si possono calcolare conoscendo l’area A della faccia del campione sulla quale agisce il carico tramite le seguenti equazioni:
σ𝑐𝑜𝑚𝑝. = 𝐹/𝐴 (6.4)
in cui F è la forza misurata dalla macchina, l0 è l’altezza del campione, v è la velocità di discesa imposta per la traversa, t è il tempo registrato dalla macchina. Esprimendo la forza in N e l’area in mm2 si ottiene un valore dello sforzo in MPa, mentre esprimendo l’altezza del campione in mm, la velocità di discesa della traversa in mm/min e il tempo in min si ottiene un valore della deformazione adimensionale.
Per una comprensione più chiara del comportamento meccanico dei campioni prodotti in questo lavoro di Tesi, si considera la rappresentazione proposta dagli autori Gibson e Ashby per quanto riguarda la deformazione e cedimento delle schiume cellulari o scaffolds.
Il modello offerto dai due autori prevede una idealizzazione delle schiume a celle aperte come uno sviluppo spaziale continuo di unità cellulari separate da travicelle, le quali possono essere formate da materiale solido o a loro volta da materiale poroso e sono in grado, a seconda dello sforzo di cui risentono e della natura del materiale, di dare flessione (bending), instabilità al carico di punta (buckling), rottura fragile (crushing), snervamento (yielding).
Nel caso di schiume a celle chiuse, il modello rimane valido, con la differenza che le celle adiacenti sono separate l’una dall’altra da pareti di materiale e al loro interno possono esserci gas e/o porzioni di materiale solido. I due casi sono visualizzati in Figura 6.5.
Figura 6.5. Modello Gibson-Ashby per materiali cellulari: a) a celle aperte; b) a celle
chiuse.
Gli stessi autori hanno prodotto un modello anche per le curve sforzo-deformazione di queste strutture, riferite a materiali fragili quali sono le schiume e gli scaffolds ceramici. Queste curve presentano un andamento caratteristico suddiviso in tre componenti distinte.
Figura 6.6. Schematizzazione del grafico σ-ε in compressione per schiume di tipo
elastico-fragile.
Figura 6.7. Modello di Gibson-Ashby per meccanismi di deformazione-cedimento per
schiume a celle aperte: a) bending; b) brittle crushing.
Il grafico in Figura 6.6 mostra tre diverse porzioni:
1) Regime lineare elastico: a bassi valori dello sforzo, il comportamento lineare elastico delle schiume è controllato dalle pareti delle celle. Se la porosità è aperta, le travicelle che nel modello di Ashby collegano una cella all’altra si flettono (bending) senza rompersi; se la porosità è chiusa si ha anche uno stiramento delle pareti che separano le celle l’una dall’altra;
2) Plateau: nel caso in esame delle schiume ceramiche, questa regione a sforzo pressoché costante è associata al collasso delle celle in seguito a fenomeni di frattura fragile (brittle crushing), ma si ricorda per completezza che il plateau potrebbe anche essere associato a fenomeni di buckling elastico nelle schiume elastomeriche o a fenomeni di snervamento plastico nelle schiume metalliche;
3) Densificazione: la regione finale mostra un improvviso e rapido aumento dello sforzo dovuto al fatto che ormai tutte le celle sono collassate, le pareti e i tratti di collegamento tra le celle sono a contatto e quella che viene misurata è la resistenza dei residui di materiale solido, non più la resistenza della schiuma.
I meccanismi di deformazione e cedimento nominati sono stati visualizzati da Gibson e Ashby come in Figura 6.7: si può vedere la flessione delle celle immaginata per spiegare la regione elastica lineare del grafico σ-ε e la frattura fragile che avviene durante la fase di plateau. Nelle prove a compressione di questa Tesi, per valutare adeguatamente la resistenza, va preso il valore di stress o F del primo picco della deformazione elastica (bending).
A.6 Spettrofluorimetria
Lo spettrofluorimetro è uno strumento che permette la determinazione sperimentale dello spettro di fluorescenza di una sostanza emittente. Lo spettrofluorimetro è costituito da una sorgente di radiazione elettromagnetica (L), da un primo monocromatore di selezione della lunghezza d’onda di eccitazione (in alcune soluzioni tecniche la selezione viene fatta attraverso filtri ottici) (M1), dall’alloggiamento del campione (S), da secondo monocromatore (M2) per selezionare una lunghezza d’onda dello spettro di emissione, e da un sistema di rilevazione e quantificazione della radiazione in uscita (PM).
Figura 6.8. Schema generale di uno spettrofluorimetro.
Il campione viene quindi eccitato da una sorgente di luce monocromatica, di lunghezza d’onda selezionata dall’operatore, il segnale di fluorescenza emesso dal campione viene elaborato dal monocromatore (o da un sistema di filtri ottici) di uscita che seleziona la banda e la lunghezza d’onda della luce che arriverà all’elemento fotosensibile del sistema, che la quantificherà. In questo modo viene ricostruito lo spettro di fluorescenza del campione esaminato. Molto
frequentemente in questi apparecchi la lettura della luce emessa viene fatta con un angolo di 90° rispetto alla direzione di eccitazione, per far sì che la radiazione di eccitazione si sovrapponga il meno possibile al segnale di fluorescenza.
Gli spettrofluorimetri utilizzano sorgenti di luce molto forti per saturare tutti i composti fotoluminescenti del campione così da ottenere emissione contemporanea. L’eccitazione viene fatta in genere con numerosi e brevissimi flash. Le sorgenti di luce più utilizzate negli spettrofluorimetri sono: laser, fotodiodi o lampade ai vapori di mercurio o ad arco xenon e deuterio.
La selezione della lunghezza d’onda sia in eccitazione che in emissione nella spettrofluorimetria può essere ottenuta o con l’utilizzo di monocromatori o con sistemi di filtri ottici. Un monocromatore è un dispositivo che riceve in ingresso una sorgente luminosa con un certo spettro e trasmette in uscita solo la componente alla lunghezza d’onda selezionata, con una larghezza di banda ed un errore propri dell’architettura dello strumento. L’utilizzo di filtri ottici garantisce una selezione migliore della lunghezza d’onda con lo svantaggio però della non modularità del sistema di selezione, rendendo necessario un set di filtri per ogni campione saggiato.
Infine, i principali rilevatori utilizzati in queste applicazioni sono: CCD, fotodiodi e fotomoltiplicatori.
Lo strumento presente nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria Industriale (Jasco FP-6300, USA) contiene una lampada allo xeno e usa un monocromatore per selezionare la lunghezza d’onda di eccitazione, mentre registra l’intensità dell’emissione in funzione della lunghezza d’onda. Il rivelatore è posizionato a 90° rispetto alla sorgente, in modo da registrare solo la luce emessa dal campione. Oltre allo spettro di emissione, lo spettrofluorimetro permette anche di registrare uno spettro di eccitazione dopo aver fissato la λem di riferimento: in questo modo si individua l’intervallo in cui il campione mostra il massimo assorbimento di fotoni.
Per le analisi di questo elaborato si è cercato di calibrare lo strumento per rilevare adeguatamente anche picchi molto vicini, giocando sulle larghezze di banda (arrivando fino a 2.5 nm) in eccitazione ed emissione a discapito dell’intensità.