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La psichiatria nei possedimenti italiani del Corno d’Africa: tappe e problem

Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia

1. La psichiatria nei possedimenti italiani del Corno d’Africa: tappe e problem

1.1. I primi studi: ipotesi, progetti, statistiche

Primi cenni di psichiatria etnografica tra gli specialisti italiani

Abbiamo idee molto vaghe, nozioni assai imperfette sulle forme mentali dei popoli che non raggiunsero un grado di civiltà eguale alla nostra: ciò ad onta che ben pochi paesi rimangano da esplorare e quasi tutte le popolazioni siano state etnologicamente ed antropologicamente descritte. Di molti popoli anche poco o niente civili sono meglio note le malattie somatiche che le psichiche, ed è naturale. Di solito all’esploratore preme più che altro farsi una idea della configurazione del paese che attraversa, delle popolazioni fra cui passa o soggiorna, dei vantaggi che se ne possono trarre; se egli è medico, o se dell’arte salutare ha un’infarinatura (od anche se non l’ha), spesso a lui accorrono in folla malati d’ogni specie, ma di rado pazzi, perché anche fra noi da poco questi sono considerati malati: sappiamo poi a qual grado di civiltà debba un popolo arrivare prima che s’occupi a sufficienza dei suoi matti227.

Con queste immagini evocative – che mostrano alcune figure cruciali del campo colonialista: l’esploratore, l’etnografo, il medico – lo psichiatra Benedetto Selvatico Estense avvicina i lettori a una materia che nei primi anni del XX secolo

                                                                                                               

227 Benedetto Giovanni Selvatico Estense, La pazzia fra i popoli non europei. Cenni di psichiatria

etnografica, estratto dalle Ricerche e studî di Psichiatria, Neuropatologia, Antropologia e Filosofia dedicate al Prof. Enrico Morselli nel 25° anniversario del suo insegnamento, Vallardi, Milano 1906, p. 3. Si tratta di “un

volume di 776 pagine, reso possibile da una cinquantina di collaboratori […] donato a Morselli nel XXV anniversario del suo insegnamneto”, Claudio Pogliano, Prefazione, in Patrizia Guarnieri,

andava definendosi come “psichiatria etnografica”,228 materia ibrida, che nasce

all’intersezione tra l’ambito coloniale, nelle sue fattispecie amministrative, sanitarie, propagandistiche, di mantenimento dell’ordine pubblico, di creazione di assistenza alle popolazioni, di costruzione del consenso, e l’ambito psichiatrico. I primi testi di autori italiani che possiamo inserire a pieno titolo in questo campo, oltre a quello da cui è tratta la citazione, di Selvatico Estense La pazzia fra i popoli non europei. Cenni di psichiatria etnografica, sono quello di Levi Bianchini su La psicologia della colonizzazione e quello di Guido Ruata su Le malattie mentali della razza negra. Oltre che per la contiguità temporale – siamo nel 1906 – l’accostamento trova la sua ragion d’essere poiché permette di illustrare le diverse facce di quella che, sull’onda di Selvatico Estense, abbiamo chiamato “psichiatria etnografica” agli inizi del Novecento. Definirli testi fondatori può risultare azzardato, tuttavia sono quanto meno rappresentativi della temperie culturale, scientifica e politica che caratterizzava l’Italia di quegli anni.

Se il testo dello psichiatra padovano fornisce per primo, nel panorama italiano, un quadro riassuntivo e sinottico sulla “pazzia […] secondo un piano elementarmente geografico”229 non senza soffermarsi sui primi possedimenti

italiani, quello di Levi Bianchini indaga la psicologia del colonizzatore e legittima le brutalità della colonizzazione in un quadro di affermazione imperialista, mentre quello di Ruata si inserisce a pieno titolo nella nicchia del campo psichiatrico dove impostazione organicista, antropometria e anatomia comparata si uniscono a convalidare il paradigma razzista e il dogma della superiorità del bianco sul nero. Pubblicati su riviste di settore, coloniale o psichiatrico, La psicologia della colonizzazione nell’Africa periequatoriale e Le malattie mentali della razza negra trattano di esperienze                                                                                                                

228 In realtà assume denominazioni diverse: Emil Kraepelin aveva parlato di “psichiatria comparata”

(Vergleichende Psychiatrie, «Centralblatt für Nervenheilkunde», 27, 1904); nel 1907 Guido Ruata, uno psichiatra italiano che lavora al manicomio di Rio de Janeiro scrive di “psichiatria razziale” (Le

malattie mentali della razza negra, «Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale», 1907); lo

psichiatra italiano Angelo Bravi, impegnato in Tripolitania negli anni Trenta, scriverà pagine importanti di “psichiatra coloniale” (Frammenti di psichiatria coloniale, Pio Luogo Orfani, Brescia 1937); Silvio Brambilla utilizzerà l’espressione “psichiatria di razza” (Problemi di psichiatria di razza, «Rivista di biologia», 1941); nella seconda metà degli anni Quaranta il neuropsichiatra Mario Felici preferirà nuovamente la definizione di “psichiatria comparata” (Furore omicida in soggetto ansioso, «Bollettino sanitario della Tripolitania», novembre 1949).

vissute fuori dalla penisola o dai pochi possedimenti oltremare che l’Italia allora poteva vantare, quando la macchina della propaganda non era ancora stata ampiamente mobilitata, ma l’Italia, si affrettava, ultima tra le potenze, a prendere parte allo scramble for Africa, alcuni psichiatri formati nella penisola possono contribuire da fuori agli sviluppi della loro disciplina.

Il testo di Benedetto Giovanni Selvatico Estense da cui è tratta la citazione iniziale è un unicum nel panorama italiano, e sicuramente costituisce un “genere” originale: è la prima manifestazione di interesse per il tema della psichiatra etnografica, ove la definizione è giustificata dall’approccio di curiosità antropologica, e non ancora di statistica o affermazione di sovranità (scientifica) su un territorio o una materia; dalla situazione reale del colonialismo italiano, agli albori (non la chiama psichiatria coloniale); e infine dall’assenza dell’orientamento strettamente razzista (non la chiama psichiatria razzista). Nelle colonie inglesi e francesi non esistono lavori siffatti, ma prevalgono le ricerche che affrontino il problema dell’assistenza psichiatrica in territori ben precisi, ovvero quelli di pertinenza coloniale della potenza in questione. Sono inchieste effettuate spesso tramite i medici e i governatori locali, senza che l’autore-compilatore in molti casi si rechi in loco. Vedremo che per quanto riguarda i territori sotto influenza italiana lo psichiatra padovano si comporterà allo stesso modo, inviando questionari e richieste e ricevendone informazioni di prima mano. Si tratta di un’opera, per quanto succinta, che ha un carattere pionieristico, anche se non è chiaro quanto sia stata poi diffusa, letta e citata230. In essa prevale lo spirito positivistico di fiducia nella scienza

e nel beneficio che l’esportazione della “scienza dell’anima” può apportare ad altri popoli.

Marco Levi Bianchini, più noto per il suo ruolo di pioniere nella divulgazione del pensiero psicanalitico, per la sua direzione dei manicomi di Girifalco, Teramo e                                                                                                                

230 Tra i numerosi articoli che ho consultato nel corso della mia ricerca, solo quello di Giovanni

Angelini del 1936 cita esplicitamente questo saggio di Selvatico Estense: “Che fenomeni di nevrosi isterica siano frequenti presso le popolazioni eritree era stato notato probabilmente fin dai primordi della nostra dominazione coloniale: almeno se ne può già leggere un cenno in argomento in una pubblicazione di un trentennio fa del Selvatico Estense”, Giovanni Angelini, Su talune manifestazioni

nevrotiche così dette demoniache in indigeni dell’AOI, «Giornale italiano di malattie esotiche e tropicali e di

Nocera Inferiore che non per la sua breve esperienza africana, nel 1906 pubblica La psicologia della colonizzazione nell’Africa periequatoriale231 e l’anno successivo Il Congo e la

colonizzazione dell’Africa centrale232. Era stato in Congo, in qualità di ufficiale medico al

servizio del re Leopoldo II del Belgio, e qui aveva tratto l’ispirazione per tracciare un profilo psicologico del colonizzatore. Se è vero che non tratta in maniera esclusiva la psicologia dei neri – anzi, pare più interessato a quella dei bianchi tra i neri – le sue pagine sono interessanti perché mostrano l’altra faccia della medaglia della psichiatria etnografica in formazione, ovvero la psicologia della colonizzazione, e trasmettono il desiderio di riscatto per l’Italia, da attuarsi in campo coloniale, di prestigio internazionale, da ottenersi a tutti i costi, anche in cambio di “una trasformazione della psiche umana”, dell’aberrazione di costumi ritenuti civili e latori di civiltà. Levi Bianchini fornisce insomma una lezione sul necessario connubio violenza-colonizzazione e rimprovera l’atteggiamento perdente degli italiani nelle guerre coloniali della fine del XIX secolo: “È necessario essere convinti che tutto quello che in Europa è morale e sociale, in Africa non può esistere, e che la colonizzazione, per quanto teoricamente pacifica, è e deve essere nella pratica, crudele e violenta […] Se noi italiani, troppo sentimentali e platonici, avessimo così pensato, in Abissinia avremmo evitato molti e molti dolorosi avvenimenti”. Si dilunga inoltre, ancor più che sulle caratteristiche della “razza nera”, tema molto caro agli osservatori occidentali, dell’attitudine che l’uomo bianco assume in Africa, nei confronti dei neri, ma anche dei bianchi.

Chi non ha vissuto nel Centro Africa […] non può concepire come sia necessaria, inevitabile, involontaria perfino, la trasformazione della psiche umana. O così, o rinunciare alla colonizzazione. O la violenza o

                                                                                                               

231 Marco Levi Bianchini, La psicologia della colonizzazione nell’Africa periequatoriale, «Rivista di psicologia

applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia», 6, 1906.

232 Id., Il Congo e la colonizzazione dell’Africa centrale, «Rivista coloniale», luglio-agosto 1907. Su questi

testi di Levi Bianchini si vedano: Salvatore Inglese, Vittorio Cappelli, Marco Levi Bianchini in Congo e in

Calabria: le prime esplorazioni scientifiche di un pioniere della psicoanalisi italiana, in Rosario Conforti (a cura

di), La psicoanalisi tra scienze umane e neuroscienze. Storia, alleanze, conflitti, Rubettino, Soveria Mannelli 2006; Vittorio Cappelli, Alle origini di un'avventura. Marco Levi Bianchini in Congo (1901), «Daedalus», 12, 1995-1996, pp. 9-25. Cfr. anche Paolo Francesco Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra

fascismo e resistenza (1922-1945), Ombre Corte, Verona 2008, in partic. Il contributo degli psichiatri al razzismo coloniale: dall’Italia liberale all’Italia fascista, pp. 125-140.

l’abbandono. Il nero non ragiona se non con la forza, e riconosce soltanto questa. Poiché il bianco è usurpatore, poiché il bianco gl’impone il lavoro che egli odia e lo spodesta di quella terra che è sua, è un nemico, e il nemico si cerca di distruggere. Ciò è umano, è elementare. Ma è purtroppo umano ed elementare il contrario. Se il bianco vuol restare e dominare, non può cedere né tergiversare. O il nero si piega o deve essere soppresso […]. Così dunque […] la psiche del bianco nel Centro Africa. Un miscuglio di malvagità e di coraggio; di magnanimità e di esplosioni brutali e selvagge; inspirata alcune volte ad altissimi ideali civilizzatori e spesso abbassata alle più ignobili qualità che le stratificazioni superiori della psiche moderna hanno sempre relegato nelle catacombe dell’anima primitiva. E forse, in parte, a causare tali incredibili mutazioni, non è estraneo il nero stesso, l’indigeno africano.

Lo psichiatra veneto non risparmia al “nero” le caratterizzazioni che lo segneranno per tutta la durata del colonialismo, atte a giustificare le azioni di conquista, le politiche di dominio, la retorica paternalista del fardello dell’uomo bianco, i trattamenti brutali inflitti; è pervaso dall’atteggiamento “spontaneamente razzistico” che caratterizzava la psichiatria di quegli anni, in cui “la gerarchia dell’uomo bianco sull’uomo (e la donna) di colore è qualcosa di ovvio e naturale o addirittura necessario per il successo del processo di colonizzazione”233. Anche nella

letteratura successiva, al nero sarà sempre attribuita una certa passività, mista ad aggressività improvvisa:

Non appena il bianco posa il piede sul continente periequatoriale, un vivo senso di simpatia lo attrae verso quelle popolazioni così rozze, così ingenue: e che esternano a lui, nei primi momenti, una paurosa ammirazione ed un’ossequenza quasi servile. Il nero è elegante nei movimenti, tranquillo nell’apparenza, docile e silenzioso; mai il bianco crederebbe che quest’essere, al quale manca quasi la favella, sia d’un tratto capace di rilevare la brutalità del criminale nato, la furberia della volpe, le efferatezze torturatrici dell’inquisizione medievale. Il bianco al suo arrivo non può

                                                                                                               

233 Ferruccio Giacanelli, Le riviste psichiatriche di Marco Levi Bianchini. Appunti di lettura, in Rosario

immaginare che nella sua apparente semplicità mentale, il nero sia astuto, commerciante abilissimo, fine diplomatico, traditore, ladro e mentitore nell’anima. Avviene così che tutte queste qualità si rivelano al bianco poco per volta, negli avvenimenti della vita giornaliera, nei quotidiani rapporti che egli deve avere con la tribù in mezzo alla quale vive. La simpatia scomparisce davanti alla disillusione, la fiducia lascia il posto alla rigida diffidenza; entrambi suscitano violento il senso della reazione e della vendetta.

Le riflessioni di Levi Bianchini riguardano, come abbiamo letto, le dinamiche psichiche del bianco colonizzatore: trapiantato in un’altra terra, votato alla conquista e alla sottomissione di altri popoli, viene a trovarsi in una condizione tale per cui la sua psiche subisce un mutamento, una sorta di adattamento alla missione che è portato a compiere. Sono immagini di odio e scontro, dove non c’è nessuno spazio per la comprensione reciproca, dove l’altra razza – falsa in ogni sua manifestazione positiva, da cui guardarsi bene – induce solo alla violenza, in un vortice che coinvolge anche i rapporti tra i bianchi stessi. Se di fronte al nero “il bianco trascende, diventa ingiusto e crudele; istituendo quella spaventevole inimicizia che per ogni dove, in tutto il continente nero, finisce, ancor oggi, nella strage da una parte e nel cannibalismo dall’altra”, scatta la violenza anche nei confronti del bianco, concorrente nella terra di conquista, di riscatto, di potenziale mobilità sociale: “non si arresta qui purtroppo il pervertimento dell’anima umana nell’Africa centrale […]: ogni uomo bianco odia l’altro bianco; e si dice laggiù con convinzione che è più temibile per l’Europeo, l’Europeo stesso anziché il nero”.

Infine Guido Ruata, psichiatra presso il manicomio provinciale di Como e temporaneamente trasferito in Brasile, pubblica nel «Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale» un articolo su Le malattie mentali della razza negra. Le sue considerazioni riguardano un altro ambito rispetto agli studi poco fa menzionati: non una panoramica di psichiatria etnografica, non la psiche del bianco nel continente nero, ma lo stato patologico e quello normale della psiche del nero. Anche in questo caso, come in quello appena analizzato, lo scritto non concerne gli abitanti delle regioni sottomesse dagli italiani, e non concerne nemmeno

popolazioni africane; si concentra bensì sul movimento ospedaliero dell’Ospicio Nacional de Alienados di Rio de Janeiro, evidenziando le patologie più frequenti nella “razza negra”. Ci interessa qui menzionarlo per non perdere di vista alcune concezioni che pure esistevano nella psichiatria italiana ed europea, nel settore in cui antropometria e psichiatria si davano man forte. Come scrive Ferruccio Giacanelli,

Sorretti dalla cultura antropologica dell’ultimo trentennio del XIX secolo, alla quale molti di loro contribuivano attivamente nella duplice veste di alienisti e antropologi, all’inizio del Novecento gli psichiatri italiani non sembravano avere dubbi circa l’esistenza di razze umane diversificate e soprattutto, di una oggettiva gerarchia tra le stesse, che vedeva al primo posto la razza bianca234.

Riporto qualche passaggio del testo di Ruata particolarmente significativo in tal senso. “Il cervello del negro maschio è notevolmente più piccolo di quello del maschio di razza caucasica. Degno di nota è poi il fatto che tale differenza non esiste quasi affatto fra i cervelli delle femmine delle due razze”. Inoltre, “il cervello del negro americano pesa qualcosa di più di quello del negro africano”, poiché il primo sarebbe “di sangue meno puro” del secondo, “perché nel primo, per precedenti incroci di razze, è maggiore la dose di sangue di razza bianca”. Ruata ritiene dunque che “il peso del cervello di ciascun individuo negro sia in ragione diretta della quantità si sangue caucasico che possiede, cioè del rapporto dell’influenza dell’incrocio della razza. Nel cervello dei negri si offrono inoltre alla considerazione altre stigmate che denotano la sua inferiorità nella sua evoluzione rispetto alla razza caucasica”. Oltre al peso e alla grandezza, contano anche la conformazione della superficie del cervello e le quantità di cellule e di fibre. Per la scarsezza di queste ultime, “assai limitate debbono essere le probabilità di portare i negri con l’educazione al livello intellettuale dei bianchi”. Il cervello del negro adulto è dunque comparabile a quello di un bambino europeo; tra quelli delle donne delle                                                                                                                

234 Ferruccio Giacanelli, Tracce e percorsi del razzismo nella psichiatria italiana della prima metà del Novecento,

in Alberto Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999, pp. 389-405.

due razze abbiamo visto non esserci differenze, data la nota piccolezza mentale attribuita alle donne, anche bianche. Il paragone tra il nero adulto e il bambino europeo “sussiste anche per le facoltà psichiche, perocchè, mentre la razza caucasica ha molto sviluppate le facoltà soggettive, la razza negra, come un bambino europeo, ha sviluppate quelle oggettive”. Le prime corrispondono a volontà, raziocinio, forze ideativa e deduttiva, gusto estetico e sentimento etico; le seconde a sensualità e passionalità, impulsività e volubilità. Oltre al piano delle facoltà psichiche, il confronto riguarda il piano delle patologie psichiatriche:

Assistiamo nei popoli selvaggi, per così dire, all’infanzia dell’alienazione mentale; perocchè i deliri sono appunto lo specchio delle disposizioni e delle attitudini psichiche naturali. Per cui, comparando le malattie mentali dell’evoluta razza bianca con quelle delle altre razze incivili, non potremmo stabilire un parallelo cronologico rapportante la presenza delle psicosi esplicantisi in un determinato periodo storico.

Nel caso degli psicotici, anche il contenuto del delirio è “proporzionale al loro sviluppo mentale, alle loro credenze religiose o soprannaturali. Onde essi, come i nostri rozzi contadini, presentano una ridotta e monotona organizzazione dei loro deliri, consentanea, appunto, con l’inferiorità della loro razza. […] È certo stridente il contrasto fra le esplicazioni deliranti primitive ed ingenue di un negro paranoico con le sottili argomentazioni e le finezze di un paranoico bianco”. Ruata si spinge ancora più in là nelle sue argomentazioni, in un continuo spostamento dall’individuo alla razza, e in una sfida continua, il cui trionfatore è noto sin dalla prima pagina dell’articolo, tra la razza negra e la caucasica, tra i civili e gli incivili, tra gli europei e i selvaggi. Introduce infatti il binomio civilizzazione-degenerazione: in base al concetto che “ogni razza dispone di una forza intellettiva ad essa peculiare, oltre alla quale non può avanzare senza che la compagine psichica decada”, succede che quando la nera si trova a contatto con “l’incivilimento europeo”, con la libertà e l’ambizione che quest’ultimo comporta, insieme a modi di vita “più raffinati” e al flagello dell’alcool, esce dai confini assegnati dalla natura alle proprie “potenzialità psichiche”, divenendo preda, a livello di “specie” della “degenerazione psichica”.

Il testo di Ruata si inserisce nel solco delle ricerche di Cesare Lombroso, che alla fine del XIX secolo aveva avuto occasione di studiare crani di abissini “raccolti per la maggior parte sui campi delle recenti battaglie” e individui in carne ed ossa della tribù Dinka, presenti a Torino molto probabilmente in occasione dell’Esposizione generale del 1898. Misurando i carni dei soldati abissini, ma soprattutto quelli di criminali Lombroso e il genero Mario Carrara erano riusciti “finalmente” a colmare “una lacuna della criminologia” illuminando i lettori sull’“anatomia del criminale selvaggio”235. Non si rinvengono quei “caratteri

differenziali” tipici dei criminali236, per cui gli scienziati deducono che “nei crani

delle razze inferiori manca il tipo criminale”. L’assenza del tipo criminale si spiega con una perfetta sovrapposizione presso le razze inferiori del tipo criminale e del tipo normale; da ciò Lombroso fa derivare una generica mancanza di senso morale presso la popolazione abissina, data la normalità della criminalità. Dunque, “questa scarsezza del tipo criminale nei selvaggi conferma la teoria atavica del delitto”, teoria in base alla quale la criminalità sarebbe da ascrivere ai gradi inferiori dell’umanità, nel “ritorno a tratti somatici, psichici, comportamentali e morali, usanze, credenze, abitudini del primitivo o, ciò che è lo stesso, del selvaggio”237. L’analisi del

                                                                                                               

235 Cesare Lombroso, Mario Carrara, Su sei crani di militari abissini, «Giornale della reale accademia di

medicina di Torino», 6, 1895, pp. 294-299 (298).

236 Tra questi caratteri differenziali collocati a livello del cranio Lombroso rinviene, per la prima

volta esaminando il cranio del brigante calabrese Villella, una fossetta di alcuni centimetri presente alla base del cranio in luogo della normale cresta occipitale. Cfr. ad es. Cesare Lombroso, Della

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