• Non ci sono risultati.

Ragazzi

Architettura

Letterature

Howard Buten, QUANDO AVEVO CINQUE ANNI MI SONO ucciso, ed. orig. 1981, traduzione

dall'ingle-se di Tiziana Tosolini, pp. 194, € 14, Tranchida, Milano 2009

Burt ha otto anni, è rinchiuso in una clinica psichiatrica per aver commesso atti riprovevo-li nei confronti di una bambina. Il romanzo è narrato in prima persona dal bambino stesso e, attraverso un sapiente uso della suspense, è tutto incentrato sul progressivo svelarsi dello scabroso episodio e sulla decifrazione delle turbe psichiche che ne segnarono le cause. Gli eventi del quotidiano, le visite specialisti-che e la terapia comportamentale sono dun-que filtrati attraverso gli occhi di Burt, la sua immaginazione, i suoi ricordi sconnessi e, so-prattutto, le sue parole. Non si tratta infatti di un semplice monologo inte-riore, ma di un reale resoconto che il bambino scrive sui muri della sua stanza. Nonostante le turbe psichi-che e la quasi incapacità comunica-tiva, al bambino è stato riconosciuto un raro talento linguistico e gli è sta-to permesso di scrivere riflessioni sul muro (quelle che di fatto formano il romanzo) come unica possibilità te-rapeutica. Lo stile di Buten è dunque lo stile del bambino: limpido, senza sbavature, sintatticamente minimali-sta ma anche estremamente evoca-tivo. Questo particolare tratto stilisti-co, tuttavia, incarna sia il pregio del

romanzo sia il suo limite più evidente. Se da un lato pare interessante scoprire la varietà e l'in-ventiva del flusso coscienziale infantile, dall'al-tro il linguaggio che sorregge tali pensieri, pur nella sopraccitata semplicità, risulta talvolta in-verosimile perché concettualmente troppo complesso per le reali capacità introspettive di un bambino. Un limite minore, infine, è quello, mai troppo dibattuto, dell'etica del romanziere. L'autore deriva infatti la storia dalla sua attività di psicologo in una clinica psichiatrica infanti-le, e l'utilizzo che fa di certe esperienze, spe-cie di quelle più pruriginose, a fini non solo estetici ma anche (e occorre precisarlo) sen-sazionalistici, non può non destare dubbi sul-l'autenticità di una scrittura così incalzante e accattivante.

F E D E R I C O SABATINI

un facile manicheismo che nuoce alla causa pur giusta che si intende abbracciare. Un ri-schio, quello di perdere di vista le sfumature, cui il romanzo di Rachedi pare non sfuggire nell'urgenza comprensibile della denuncia e di inventare un lieto fine.

LUIGIA PATTANO

Anne Michaels, LA CRIPTA D'INVERNO, ediz.

origi-nale 2008, traduzione dall'inglese di Roberto Ser-rai, 2009, pp. 333, € 14,50, Giunti, Milano.

Dopo aver esordito con un capolavoro, la scrittrice canadese si è cimentata in un nuo-vo "global novel": un romanzo senza patria, nomadico, fatto di scenari. La valle della Nu-bia ad Abu Sìmmel in Egitto, dove negli anni 60 e 70 la grande diga di Assuan voluta da

Mabrouck Rachedi, IL PESO DI UN'ANIMA, ed.

orig. 2006, trad. dal francese di Ilaria Vitali, introd. di Marco Aime, pp. 107, € 14, Stampa alternativa, Viterbo 2009

Questo primo romanzo di Rachedi, uscito in Francia a ridosso delle rivolte che nel novem-bre 2005 infiammarono la banlieue parigina, si presenta come un testo di cronaca ambienta-to nella città periferica di Evry (sud-est di Pa-rigi). Protagonista un diciottenne pigro, Lounès Amri, già disilluso riguardo al proprio futuro in seno alla società francese di cui da quindici anni è parte integrante. Per un insie-me di circostanze avverse, la sua situazione finisce per prendere una piega inquietante e surreale. Lounès, giunto per l'ennesima volta in ritardo a lezione, una mattina subisce la pu-nizione della sospensione, che lo porta a bi-ghellonare con alcuni amici coinvolti in traffici poco leciti. Trovatosi per caso nella dimora di un pusher durante un blitz della polizia, Lounès finisce in carcere con un'accusa tanto pesante quanto inverosimile, formulata da un ispettore in cerca di fama: quella di essere a capo di una potente rete terroristica. A suo carico non vi è alcuna prova. Ma a pesare contro il ragazzo vi è l'origine algerina, vera e propria colpa in un paese che vede l'immigra-zione esterna, in particolare se proveniente dal Sud del mondo, come un male da estirpa-re. Di bruciante attualità anche al di qua delle Alpi, il razzismo che malcelano certe misure politiche e un noto modo di fare inchiesta (in ambito giornalistico, beninteso) è un tema im-portantissimo ma delicato, difficile da trattare senza cadere in semplificazioni eccessive, in

disegni di Franco Matticchio Re Nasser ha causato l'inondazione di terre prima popolose, costringendo le genti ad esodi silenziosi, pieni di rimpianti per le co-se, le caco-se, i giardini, i cimiteri lasciati indie-tro, mentre, blocco di pietra su blocco di pie-tra, i templi dei faraoni venivano smembrati e spostati da ingegneri venuti d'ogni dove. In Canada, anche il San Lorenzo come il Nilo era stato deviato: zone prima abitate erano state inondate; chiese erano state sconsa-crate affinché non potessero essere profana-te e dissacraprofana-te; cimiprofana-teri erano stati spostati o protetti sotto mucchi di pietre; esemplari ve-getali a rischio di estinzione erano stati pre-servati dalla protagonista. Certo si potrebbe parlare di romanzo archeologico, che scava nel passato storico-geologico di vari luoghi. Un romanzo sulla memoria. Infatti, persino la città di Torino diviene mesto crocevia di un viaggio su rotte che vanno dall'Egitto all'In-ghilterra, al Canada, alla Polonia. Eppure si tratta di un romanzo intimista. Il lirismo, che come una firma caratterizza la scrittura di Anne Michaels, registra, come un sismografo e attraverso la sensibilità di una donna pro-vata dalla solitudine, il dramma della terra, delle terre che attraversa, salvaguardando piccoli semi e piantine di un giardino privato, eppure mobile e nomadico, che è persino possibile trapiantare abusivamente tra gli in-terstizi dei marciapiedi di Toronto. Tra una madre perduta e una figlia non nata s'inseri-sce la cura della terra, del giardino, e l'a-scolto ricettivo, quasi passivo, della ricostru-zione di Varsavia: non solo del racconto del-la ricostruzione, ma anche del vissuto di pro-fughi ebrei-polacchi, emigrati in Canada. Pattinatori sul ghiaccio, musicisti, sopravvis-suti e trapiantati a modo loro - che ricordano vagamente anche le belle pagine del roman-zo di Michael Ondaatje Nella pelle del leone

(1999).

CARMEN CONCILIO

ley, pubblica L'ultima vedova sudista vuota il sacco (Leonardo, 1991), romanzo di più di mille pagine, avventurosa saga americana sulla guerra di Secessione; ha grande suc-cesso, vende due milioni di copie, staziona ot-to mesi nella lista dei best seller del "New York Times"; nel 1994, ne viene tratta una miniserie televisiva per la Cbs. Attivo nel movimento gay americano, Gurganus è uno dei motori dell'elaborazione retorica e intellettuale della lunga serie di lutti che negli anni ottanta colpi-rono la comunità gay a causa del virus Hiv, al centro di Plays Well with Others, del 1997. Ora Playground pubblica Santo mostro, tratto da

Practical Head, una raccolta di quattro rac-conti, Lambda Award per la categoria Gay Men's Fiction nel 2001, il lavoro più recente di Gurganus. Santo mostro segue il peregrinare a ogni fine settimana di un bambino e di suo padre nel Nord Carolina, nell'estenuante e

in-cantata missione di distribuire nei motel copie della Bibbia, negli anni cinquanta. Il racconto, fatto a poste-riori da un professore quarantano-venne, linguista, padre di due figlie, parte dall'immagine eidetica della madre, colta quando era bambino sul divano di casa mentre fa l'amore con il veterinario del paese, situazio-ne che le domeniche lontano da ca-sa, del padre e del figlio, dovevano proteggere e permettere. La rivela-zione, della quale il bambino è arte-fice e vittima, è una delle tante che via via la tessitura dei ricordi rivela, intrecciate a citazioni bibliche e a un sommarsi di episodi specchio di una storia nazionale fatta di sospensioni, di non detti, di infingimenti.

F E D E R I C O NOVARO

Allan Gurganus, SANTO MOSTRO, ed. orig. 2001,

trad. dall'inglese di Maria Baiocchi, pp. 221, €16, Playground, Roma 2009

1974: il "New Yorker" pubblica un racconto inviato da John Cheever a insaputa dell'auto-re (cui è legato da un rapporto di amicizia e attrazione, e di cui parlerà nei suoi diari), pri-mo racconto a presentare un personaggio gay sulla rivista, è Minor Heroism, del venti-settenne William Gurganus. 1989: dopo sette anni di lavoro, Gurganus, allievo di Grace

Pa-Bernard Schlink, IL FINE SETTIMANA, ed. orig. 2008,

trad. dal tedesco di Vito Punzi, pp. 206, € 16,60, Garzanti, Milano, 2010.

Appena uscito dal carcere dopo venti anni di detenzione, Jòrg, un ex-terrorista della Rote Ar-mee Fraktion, incontra in una casa di campagna vecchi compagni di lotta. Nella sospensione di un fine settimana di vacanza, si scatena tra loro una disputa per il possesso della sua identità, annullata dagli anni di reclusione. Efficace l'inte-grazione fra caratterizzazione psicologica e ro-manzo politico: l'identità di Jòrg diventa il palco-scenico su cui si scatena una discussione sul-le eredità del terrorismo. Come nel romanzo che ha reso celebre l'autore in tutto il mondo (A vo-ce alta, 1995), è la letteratura a intrecciare storia e attualità, rimescolando insieme alla cronologia ogni categoria di giudizio etico. Nel best-seller

un amore ossessivo per la lettura sanciva l'abie-zione morale e insieme il riscatto di una ex-guar-dia nazista. Così nel Fine settimana la scrittura di lise - la narratrice interna - disegna una vi-cenda potenziale che reinterpreta la vita di un amico terrorista morto suicida. Inseriti in corsivo nel testo, i seppur brevi frammenti di lise intro-ducono una suggestiva sfasatura logica e tem-porale, investendo il testo di risonanze inaspet-tate. La rievocazione, innescata dalla remini-scenza dei corpi precipitati dalle torri gemelle nell'attentato dell'undici settembre, sovrimprime alla memoria degli anni di piombo le immagini recenti del terrorismo islamico. Sulle orme di Don DeLillo che dai falling men ha ricavato il ti-tolo di un suo romanzo, si immagina che il terro-rista sia sopravvissuto alle violenze degli anni Settanta come uno scampato alla catastrofe di New York. Rovescia però le prospettive ideolo-giche di tutta la narrazione la sua morte tra le torri in fiamme: il terrorista del passato diventa vittima, o istigatore, di un nuovo terrorismo. L'e-sito previsto per il personaggio minore - la cui tonalità quasi espressionista è forse l'aspetto più interessante del romanzo - si erge a emble-ma della sorte del protagonista, che non trova nella contemporaneità nessuna collocazione possibile. Pur riaffabulata dai discorsi dei vecchi compagni di lotta, e indirettamente dall'inventiva di lise, la sua esistenza rientra in chiusura nella paralisi, senza condurre ad alcuna condanna, né ad alcuna ipotesi di assoluzione.

N. 4 I D E I L I B R I D E L M E S E ! 40

' K>

o

o

CO

Veit Heinichen, LA CALMA DEL PIÙ FORTE,

ed. orig. 2009, trad. dal tedesco di Silvia Mon-tis, pp. 331, € 18, e/o, Roma 2009

La calma del più forte, sesto episodio della serie noir con al centro il commis-sario Laurenti, delinea un intrigo interna-zionale che si dipana tra mafia e specu-lazioni finanziarie. Teatro degli eventi è Trieste (l'autore, tedesco, vi risiede da oltre dieci anni), qui descritta con minu-zia sia nei luoghi che nei rapporti socia-li, inclusi quelli con la vicina Slovenia do-po la caduta delle frontiere con l'Italia (2007). Il romanzo ruota intorno a Duke e Sedem Newman, padre e figlio, profon-damente diversi tra loro, figure contro-verse al centro di un impero finanziario poco trasparente. I colpi di scena si sus-seguono mentre la polizia italiana e quella slovena collaborano per far luce su un traffico di droga e combattimenti clandestini tra cani, nonché su un grup-po irredentista istriano

intenzionato a uccidere Duke. Lo scenario si complica ulteriormente quando Pina, la giova-ne collaboratrice del commissario, si inna-mora del giovane Se-dem. Nel racconto si s o v r a p p o n g o n o molte-plici piani prospettici, per cui una stessa sce-na viene rivissuta da più personaggi, a be-neficio del lettore che scopre così elementi ul-teriori ricostruendo il succedersi degli eventi.

Una tecnica che si serve anche di brevi e straniarti inserti in cui la voce narrante è quella di Argo, uno dei cani da com-battimento dotato di coscienza e sensi-bilità umane. La peculiarità del romanzo sta nella la resa di una dialettica

mitte-leuropea contemporanea, in cui un auto-re tedesco descrive una vicenda che si svolge tra Italia, Slovenia e Austria co-gliendo l'evoluzione dei rapporti tra le diverse popolazioni alle prese con l'ine-dita unificazione dettata dall'Europa. Ol-tre che sul nostro presente, ricorrenti spunti di natura storica, politica ed eco-nomica stimolano la riflessione su un passato diverso, ma non così lontano.

TAZIO BRUSASCO

Gian Mauro Costa, IL LIBRO DI LEGNO,

pp. 297, € 13, Sellerio, Palermo 2010

Segue una strada tutta sua, questo giallista palermitano che nulla deve ai più affermati compagni di scuderia, Camilleri e Carofiglio, pur avendo in comune con il primo una sapiente dimestichezza con il siciliano parlato e con il secondo una

co-noscenza di prima ma-no delle più recenti mu-tazioni del mondo del crimine organizzato e delle sue propaggini. Il punto di partenza del-l'intreccio è così chand-leriano da sfiorare il pa-stiche: un'elegantissima signora dei quartieri alti irrompe, con una pro-posta d'indagine, nella casereccia routine di un investigatore cinquan-tenne di basso rango, Enzo Baiamonte, che integra i sempre più magri guadagni della sua professione di elettrotecnico con qualche lavoretto per un avvocato di dubbia fama. Affascinato da colei che in cuor suo ribattezza, con timida idolatria, "La Creatura", Baiamonte accetta un in-carico che sembra di tutto riposo:

recu-perare i libri prestati ad alcuni conoscen-ti dal padre defunto della donna, rispetta-to professore di un liceo cittadino. Ma, proprio come in un copione di Chandler o di Ross Macdonald, la banalità della cerca presenta risvolti insospettati, e il ri-luttante Baiamonte si trova coinvolto in un dramma che affonda le radi-ci nella corru-zione dell'intera realtà cittadina. Costa riesce a conferire a questo dramma spessore e cre-dibilità, situan-dolo in un con-testo sempre concreto e

riconoscibile. I luoghi della sua Palermo -dalle villette-fortino dei nuovi ricchi, alla spiaggia dì Mondello odorosa di gelsomi-ni e di ciambelle fritte, dalle palazzine anonime di Borgo Nuovo alle botteghe dei vicoli che hanno conosciuto giorni mi-gliori - hanno un colorito singolarmente autentico; proprio come ì frammenti di memoria che a ogni passo riconducono Baiamomi agli anni della sua giovinezza, tra le pagine stazzonate di qualche sag-gio di Lukàcs e ie foto di ragazze dai lun-ghi capelli che ricordano "le vecchie co-pertine dei dischi di vinile".

MARIOLINA BERTINI

R. T. Raichev, LA MORTE DI CORINNE, ed. orig.

2007, trad. dall'inglese di Franca Pece, pp. 249, € 16, Elliot, Roma 2009

Gli occhi e le orecchie del lettore in La

morte di Corinne sono quelli di Antonia Darcy, donna indipendente, ironica, acu-ta osservatrice, dall'inguaribile curiosità e, forse per tutte queste ragioni, scrittrice di

gialli nella vita. L'intricata storia di cui ci rende partecipi si svolge nella campagna inglese, a Chalfont Park, residenza di pro-prietà di un'anziana e vivace zia, nella quale Antonia si trova con il marito per concludere "in tranquillità" la loro luna di miele. A scompigliare quello che si

pro-spettava essere un quieto sog-giorno sarà l'ar-rivo, come ospi-te, della "leg-gendaria" can-tante francese Corinne Coreil-le, donna con un passato sot-to i rifletsot-tori e un presente che nasconde, sotto un aspetto da ragazza immutato con gii anni, interrogativi e misteri. La ragione che porta la cantante a trasferirsi in que-st'isolata dimora nella campagna inglese, insieme alla sua dispotica agente perso-nale, è trovare un rifugio sicuro dopo aver ricevuto anonime minacce di morte. Spin-ti dalla curiosità e dall'amore per la ricer-ca, Antonia e il marito, il maggiore Payne, non perdono l'occasione di indagare sul conto della "sempreverde" cantante. A rendere incalzante il ritmo della storia so-no i continui stacchi narrativi attraverso i quali, dalla vicenda vissuta da Antonia, si passa al racconto di un altro eccentrico e problematico personaggio, Eleanor Mer-chant, distinta signora americana che sof-fre di una malata ossessione nei confronti di Corinne Coreille. L'intreccio complica-to, i personaggi piacevolmente caratteriz-zati e ironici, la capacità di rendere ogni frase significativa, di fare di ogni dettaglio un eventuale indizio, fanno di questo ro-manzo - ii secondo di un giovane scritto-re bulgaro trapiantato a Londra - un giallo particolarmente riuscito. CHIARA GIORDANO • I O O • I O CO CO

O

<o

CO

Stefan Zweig, LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA,

ed. orig. 1922, trad. dal tedesco di Ada Viglia-rli, pp. 88, € 9, Adelphi, Milano 2009

Il racconto, pubblicato nella smarrita, ridimensionata Austria del 1922, in cui ancora forte era l'eco della gloria asbur-gica, uscì per la prima volta in Italia nel 1932. Adelphi lo ripropone ora nell'effi-cace nuova traduzione di Ada Vigliani, studiosa di Robert Musil, un autore che peraltro disprezzò il facile successo edi-toriale di Zweig. Eppure l'opera letteraria di questo scrittore ebreo viennese, nato nel 1881 e morto suicida nel 1942 in Bra-sile, gode ancora oggi di un indiscusso successo, dovuto alla sua raffinata, godi-bilissima scrittura, capace di descrìvere con tocco leggero i più intimi moti dell'a-nimo. Accanto ad Arthur Schnitzler, è lo scrittore che per primo seppe dare eco letteraria agli studi di Sigmund Freud. Apprezzato da Maksim Gorkij specie per il testo qui presentato, è riconosciuto, anche da chi lo considera un minore, quale imprescindibile cantore del mito della Finis Austriae, descritta da Zweig in

Il mondo di ieri (Mondadori, 1994), un te-sto il cui titolo riassume l'essenza di un'e-poca. Lettera di una sconosciuta narra la passione devota e assoluta di una giova-ne donna giova-nei confronti di uno scrittore af-fermato, viziato dal successo, capace più di descrivere che vivere effettiva-mente i propri sentimenti. Solo leggendo la missiva, dalla quale apprenderà di avere generato un figlio in occasione di un fuggevole incontro, si renderà conto di questa delicata, costante, discreta de-vozione che porterà alla morte colei che gli scrive, incapace di sopravvivere alla morte del loro bambino. L'indiretta de-scrizione del suo freddo atteggiamento da dandy e l'atmosfera viennese della novella ricordano il breve dramma lirico II

folle e la morte di Hugo von

Hofmann-sthal, del 1893, con il suo protagonista Claudio, incapace di condividere davve-ro i sentimenti pdavve-rovati da chi gli è stato vicino. La magistrale riproposizione di quelle atmosfere da belle epoque alcuni anni dopo la fine del primo conflitto mon-diale, che per sempre le aveva distrutte, è un segno tangibile di quanto Stefan Zweig vi fosse intimamente e drammati-camente legato.

GIORGIO KURSCHINSKI

Marguerite Yourcenar, IL SEGRETO E IL

SA-CRO. SAGGI SULLA LETTERATURA E SULLA

TRA-DUZIONE 1966-1984, ed. orig. 1966, 1969,

1979, 1983 e 1984, a cura di Camillo Faverza-ni, trad. dal francese di Camillo FaverzaFaverza-ni, pp. 277, €20, Bulzoni, Roma 2009

Il segreto e il sacro si compone di al-cuni scritti critici di Marguerite Yourcenar piuttosto distanti l'uno dall'altro e dal punto di vista temporale e da quello cul-turale. Quel che accomuna i testi e giu-stifica l'operazione editoriale è esplicita-to nei sotesplicita-totiesplicita-tolo scelesplicita-to dal curaesplicita-tore: la letteratura e la traduzione. I testi presen-tati sono introduzioni, premesse o note dell'autrice a sue traduzioni. Nel primo capitolo, possiamo leggere l'appassio-nante introduzione a La couronne et la ly-re, l'antologia di poesia greca antica di

Documenti correlati